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suoni oltreoceano

Come suona la California: da Playyard a Holden Miller

Stefano Pistolini

La nuova ondata di giovani musicisti della West Coast canta un’atmosfera morbida, ma con un velo di inquietudine. Indagine sul ritorno del suburbia sound, una Babele bianco pallida che vale la pena ascoltare

Il nuovo suono della California. Prendiamola alla lontana e non facciamone una questione di scoperta dell’ultima, infinitesimale tendenza. Dedichiamoci all’aria che tira. Non solo là, anche qui. Per esempio: se si ha la pazienza di spendere un venerdì sera di fronte alle affaticate frequenze di RaiUno in occasione dello speciale “Sanremo giovani” che seleziona – in modo non troppo trasparente, sulla base delle scelte di una misteriosa commissione – i talenti emergenti o a cui offrire di colpo la chance d’entrare a far parte della più importante kermesse canterina nazionale, si deve, se non altro, concordare su una cosa: che alla fine i musicisti italiani attorno ai vent’anni d’età si siano attestati su un suono che va etichettato come “loro”.

 

Il loro suono. Il suono di quelli nati quando il nuovo millennio era cosa fatta. Poi ci si può accanire a criticarne la ripetitività, lo smodato utile di tecnologie fin troppo friendly, come l’auto-tune e i vocoder, si possono sbertucciare la gran massa dei testi, in quanto ossessivamente autoreferenziali ma quasi sempre poco costruttivi, portati all’indolenza, fino ad arrivare all’impresentabilità. Tutto ciò che volete: ma il suono ormai c’è, è forte e, quel che più conta, è riconosciuto e approvato dai coetanei che ne costituiscono il pubblico naturale. Prova ne sia che artisti privi di pedigree aristocratici, si chiamino Rkomi, Gazzelle o Blanco, sbancano gli stadi e conquistano le arene come fossero noccioline, perché è là che accorre una platea pronta a essere reattiva a ciò che cantano, che questo piaccia o no ai fuori età. 

 

Bene. Saltiamo dall’altra parte dell’oceano e con un altro balzo arriviamo giù fino alla California, sulla costa opposta, appunto quella West, che mezzo secolo fa si era guadagnata una fama rinomatissima presso gli intenditori di musica. “Babylon”, l’ultimo film di Damien Chazelle si occupa di venerare la Hollywood classica per com’era pura e spontanea, priva di mediazioni, prodotto di avventurieri e non di imprenditori. Ai tempi in cui il cinema era muto, quella terra era ancora oltre la frontiera della civiltà e gli studios non erano immersi nel cemento bensì nella sabbia del deserto e Chazelle racconta in modo visionario come tante cose laggiù siano successe perché hanno saputo concretizzarsi appena prima che l’industria ci mettesse le mani sopra.

 

Ecco: il discorso vale sicuramente per il cinema, quando il Novecento era giovane. Ma vale anche per la musica e allora si era già arrivati alla metà dei Sessanta. Una documentazione utile a questo proposito è facilmente accessibile su Netflix, in un bel documentario chiamato “Un’eco nel Canyon”, che esplora le atmosfere e le figure che resero mitica la comune musicale raccoltasi spontaneamente sui tornanti del Laurel Canyon, in quel paradiso incontaminato a soli dieci minuti di macchina dal Sunset Boulevard. Bene, siamo arrivati al punto. Succede che anche in California l’industria, quella musicale come quella del cinema in passato, a un certo punto si divori tutto.

 

Che abbia posseduto, omologato, selezionato, replicato e poi, quando gli affari hanno cominciato a essere meno floridi, si sia stancata, sia andata in confusione e in linea di massima abbia tolto le tende, lasciando, se non terra bruciata, un bel po’ di perplessità in circolazione. A quel punto i posteri e i nipotini del magico suono della West Coast, se non avevano avuto il destino di venir su in un quartiere-ghetto che desse loro motivazioni valide per mettere in musica tutta la loro rabbia, a quale modello potevano ispirarsi per rigenerare una scena locale degna di questo nome? Il bello di questa indagine sta nel fatto che le risposte sono tutt’altro che evidenti e disponibili, perché stavolta le informazioni – paradossalmente, in quanto a due passi dalla Silicon Valley dove tutto pare esistere nella cloud – si rivelano invece scarse e difficili da intercettare.

 

Insomma il fenomeno, a sorpresa, è piuttosto underground e quindi da un lato tocca fidarsi, dall’altro bisogna arrangiarsi in proprio e inseguirne le vaghe tracce. Il primo indizio risulta il più importante: l’aria che tira. Dal momento che sono scomparsi, morti o trasmigrati quasi tutti i modelli che avrebbero potuto fungere da buoni maestri, i teenager che oggi sentano l’insopprimibile bisogno d’esprimersi in musica si sono arrangiati a fare da soli, ovvero hanno mandato a memoria alcuni vecchi vinili dei genitori (grosso modo diciamo “Pet Sound”/Beach Boys, “Turn! Turn! Turn!”/Byrds, “Deja Vu”/CSN&Y  e “Blue”/Joni Mitchell) e poi si sono affidati all’istinto che li spingeva a tradurre in forma di canzoni l’atmosfera soffice, protetta ma inquietante nella quale vivono immersi.

 

Che poi, più o meno, è ciò che fecero i Beach Boys sessant’anni fa – spiagge, sole, surf, una vagonata di ammiccamenti sessuali, ma anche una sottile repressione – perché allora come oggi stiamo parlando di ragazzi della middle class, in maggioranza bianchi, mediamente istruiti, quasi sempre approdati al college e con alle spalle un’adolescenza normale, inclusi tutti i terremoti domestici che vanno iscritti alla voce “normali” in una famiglia americana. Altra caratteristica assodata è che a questa onda montante di giovanissimi musicisti non va assegnata una rigida identità culturale: è un dato di fatto – e questa ricerca lo ribadisce – che adesso in California abiti gente che proviene da tutti gli angoli del mondo, più o meno come capitava a New York City già negli anni Cinquanta.

 

La Città degli Angeli, ma anche San Francisco, sono una Babele e sarebbe lungo analizzarne in questa sede le motivazioni. Del resto, se fossero disponibili opportunità economiche di qualità accettabile, quanti di noi sarebbero ben felici di trapiantarsi sulle rive del Pacifico? Quindi un mappamondo orizzontale, spalmato a scacchiera nelle sterminate aree urbane e suburbane di quelle città. Incluso un esercito di figli, che in discreta percentuale sono appassionati di musica e decidono di produrne di propria. Con un approccio – un’altra inattesa caratteristica – diverso da ciò che accade dalle nostre parti, ad esempio attribuendo un ruolo marginale e minoritario alla rappresentazione social di ciò che si sta cercando di fare, in sconcertante controtendenza con l’impeto molto italiano di precipitarsi a pubblicare sul web i primi vagiti della propria creatività.

 

A questi artisti in erba, farsi una reputazione sulla Rete si direbbe invece che interessi il giusto, quanto basta a far circolare ciò che cominciano a produrre, sfruttando Spotify, SoundCloud e le sortite Instagram e corredando il tutto con laconiche informazioni e poca pressione. Si dà più spazio a una circospetta, selezionata riservatezza, che all’ansia di essere conosciuti: un interessante snobismo di ritorno. In prima istanza, invece, questi giovani musicisti sembrano interessati a dare un suono libero e riconoscibile al loro stile di vita, descrivendolo, rappresentandolo, perfino inconsapevolmente storicizzandolo e traducendolo in canzoni. Del resto non è ciò che fecero i Beach Boys, cantando “In My Room” o “Barbara Ann”? Ed è così, forse per caso, sulla base di una silenziosa complicità, che nasce l’ipotesi di un suono locale, identitario, omogeneo, specchio del vivere in una terra che è sinonimo di ispirazione, almeno quanto di Rickenbacker 12 corde.  

 

Resta in sospeso il dubbio a cui accennavamo sopra: davvero è significativo parlare di questa musica bianco-pallido, nella terra che ha allevato la più florida tra le ultime nidiate della black music? O stiamo soltanto andando in cerca dei timidi epigoni di Roger McGuinn o di Brian Wilson? È davvero una notizia che il suburbia sound torni a prendere senso, dopo che l’ultima volta era capitato coi singhiozzi emo alla Weezer e gli sdilinquimenti di Avi Buffalo (il cui titolare, Avigdor Benyamin Zahner-Isenberg, è peraltro attualmente accusato di stupro)? Sta a voi e alle vostre orecchie decidere se questa indagine sia degna d’essere messa in atto. Noi ci limitiamo a segnalarvi alcuni nomi utili a mettervi sulla strada giusta, dove proseguire da soli. Aggiungendo che a noi questo suono estatico, inerme e distante ci ha stregato, provocandoci un inatteso satori. Non troppo diverso da quello del quale, qui a casa nostra, furono responsabili dei musicisti stravaganti, capaci di vivere la musica come stato mentale tout court (dovremmo rispolverare figure desuete, chessò, da Claudio Rocchi a Battiato, e finiremmo chissà dove). Restiamo invece in riva al Pacifico.

 

Partiamo ad esempio dai Playyard, sigla inventata da Henry Morris e Michael Sack, due compagni di stanza del college di Los Angeles a Santa Barbara. Morris ci mette la faccia carina e una voce educata, rivelandosi in più un pregevole chitarrista, Sack si occupa prevalentemente di produzione. Il loro pop è arioso, melodico, sempre morbido, con atmosfere dilatate e inoffensive al punto da risultare talvolta innervosenti. La cosa migliore l’hanno prodotta di recente, collaborando per “I Guess” col loro compagno di studi (facoltà di Relazioni internazionali) Saint Levant, alias Marwan Abdelhamid, rapper di origini palestinesi da dieci anni trapiantato nella California meridionale, al seguito di una famiglia benestante. Marwan ha debuttato su TikTok, raccogliendo fans e ascolti, in particolare con un pezzo intitolato “Nirvana in Gaza” e adesso, affidandosi ai Playyard, sembra davvero aver fatto bingo.

 

Quindi diamo un attento ascolto a Bennett Coast, biondino originario di San Francisco, incoraggiato a concentrarsi sulla musica da Diplo, producer di livello internazionale e per lui una specie di fratello maggiore. Nella sua raffica ravvicinata di singoli (“Sunsick” e “Moonboy” i migliori) ci s’imbatte in melodie gentili, una voce gracile e singhiozzante, onnipresenti arpeggi di chitarra e sotto, appena percepibile, un beat dance per un ballo estatico e composto, di quelli che si fanno bevendo mojitos sulla terrazza di San Anton.

 

Poi va data attenzione a Holden Miller, anche lui songwriter alla ricerca del suono più soffice del mondo, assimilabile a Jack Johnson o a Mac DeMarco, con un repertorio di pezzi che sono più o meno tutti vivide descrizioni dell’ansia e del passaggio d’età. O a Nate Traveller, trapiantato a L.A. dalla nativa Florida col suo suono ultra-rilassato e un album, “Hunny”, che poco alla volta si sta facendo largo nelle classifiche del suono chill. O a Dora Jar, che ha debuttato l’anno scorso con l’Ep “Digital Meadows”, mettendo in mostra un’angelica voce dallo spiccato accento newyorkese, toni vulnerabili – una Fiona Apple rivisitata, con tutti i sentimenti esposti tra un gorgheggio e l’altro, come fossero nervi scoperti.

 

Insomma: fattori comuni a tutti questi artisti sono la rilassatezza, il distacco dalle grandi cose del mondo e dai suoi drammi, una consapevolezza rivolta al sé, la soffusa partecipazione a una società nella quale inclusione e transizioni sono dati accertati, e regna il gusto per un suono liquido, la disponibilità a ogni contaminazione, il piacere di esistere artisticamente oltre l’effimero istante della popolarità. Ascoltandoli uno dopo l’altro, e insieme a tanti altri come loro, rendono palpabile il tempo passato, la storia che si è accumulata, la distanza da modelli talmente remoti da essere per loro irraggiungibili. Sono ragazzi che saranno vecchi quando all’orizzonte s’intravedrà il XXII secolo.

 

E il pop sarà diventato un’interminabile galleria di eredità, debiti e rimandi, come capitava con la musica classica ai tempi dei primi Beatles. E in quei suburbia del futuro altri ragazzini normali escogiteranno il modo di mettersi in musica in modo tale da sentirsene rispecchiati. E tutto ciò è strano, fatale e anche un po’ destabilizzante.