Fra Venezia e Vienna
I concerti di Capodanno sono una sfida all'ultimo sbadiglio
Per un primo dell'anno in musica diffidate delle imitazioni, e anche un po’ dell’originale: tutto sembra sempre più stanco e ripetitivo
Se il nuovo anno si vede dai concerti di Capodanno, sarebbe forse meglio passare direttamente al ’24. Fra Venezia e Vienna è una sfida all’ultimo sbadiglio, diciamo uno zero a zero dove la massima emozione è un calcio d’angolo. E forse, su entrambi i casi, qualche interrogativo bisognerebbe porselo. Certo, il Capodanno della Fenice di senso ne ha sempre avuto poco, se non come risposta autarchica e italianissima allo strapotere mediatico del nemico ereditario. Adesso però è reso francamente insopportabile dal suo difetto d’origine: essere la copia di un modello di successo, invece di provare a imporne uno. L’idea è di fare Vienna con la Fenice al posto del Musikverein, l’opera italiana come alternativa ai valzer, e per i balletti i palagi veneziani invece degli spot dell’ufficio del turismo austriaco. Manca una drammaturgia, un progetto forte, anche perché la divulgazione è cosa buona e giusta, ma a patto di saperla fare e di avere un minimo di fiducia in quel che si divulga.
L’altra sera, sempre su Raiuno, Alberto Angela era rimasto un quarto d’ora buono, che in tivù equivale a un’èra geologica, davanti all’Ultima cena di Leonardo senza dire sciocchezze ma spiegandola con parole accessibili alla sciura Pina. Ma se si pensa che i dodici minuti della sinfonia del Guillaume Tell siano troppo lunghi e la si riduce al solo galop finale non si rende un buon servizio né a Rossini né alla Pina, cui magari si potrebbe invece farla ascoltare tutta spiegandole di che si tratta e cosa racconta, invece di inondare le pause di commenti enfatici modello Istituto Luce (tanto rumore per nulla, cioè l’attuale Zeitgeist italiano, a ben pensarci). Poi, per carità, Daniel Harding se la sbriga con nonchalance e tempi rapidissimi tipo oddìo, mi parte il vaporetto, idem i cantanti, costretti però, come la brava e bella Federica Lombardi, a passare dalla cavatina di Norma al valzer di Musetta in un amen e perfino a un moncherino del finale di Turandot di Puccini che poi in realtà è di Alfano, lo diciamo per Pina. E sarebbe ora di spiegare al tenore Freddie De Tommaso e ai pari suoi che “Nessun dorma!” è un soliloquio, non un comizio.
Però anche Vienna è a un bivio. Certo, parliamo di tutt’altra cosa, il divario è quello che separa una tradizione vera da una farlocca, l’originale dalla copia. Ma, nonostante un benvenuto rinnovamento del repertorio, con tanti brani fatti sentire per la prima volta, il concerto sembra sempre più stanco e ripetitivo. Franz Welser-Möst è lì, impiegatizio, catastale, implacabile, fa tutto quello che ti aspetti, con i suoi rubati telefonati, per gli auguri finali la citazione di Nietzsche più banale e prevedibile, e mai un guizzo, una trovata, una sorpresa, insomma è uno nel dopo sbronza più che darti la sveglia ti ributta nel tuo stato catatonico da Fafner che ha bevuto troppo champagne. Il prossimo anno è annunciato di nuovo Christian Thielemann, un prussiano che nel ’66 a Königgrätz sarebbe stato dall’altra parte. Plus ça change, plus c’est la même chose.
E allora o hai davvero un grandissimo in grado di illuminare questo repertorio, cosa difficile perché è bello ma fragile, insomma, per limitarsi ai de cuius, un Kleiber o uno Jansons o un Harnoncourt (sì, anche lui), oppure sarebbe meglio lasciare che i Wiener se la sbrighino da soli, tanto sono già sovranamente indifferenti a chi sale sul podio, magari diretti dal primo violino come ai vecchi cari tempi di Willi Boskovsky. E ridare al concerton de’ concertoni quella Schlamperei absburgica un po’ svagata e bonaria, imprecisa ma sorridente, che è esattamente quel che manca a queste esibizioni platinate e plastificate, impeccabilmente noiose.
Paradossalmente, a Capodanno un po’ di Vienna l’ho trovata a Genova. Fabio Luisi dirige Die Fledermaus di Johann Strauss II come se ci fosse nato, tutto brio, eleganza, leggerezza e perfino con il retrogusto vagamente malinconico di chi sa come poi è purtroppo andata a finire quella civiltà borghese che abbiamo imparato ad amare soltanto quando l’abbiamo perduta. Poi, certo, l’Orchestra del Carlo Felice non è i Wiener, ma suona assai bene, lo spettacolo di Cesare Lievi non è all’altezza della direzione però nemmeno da buttare e in un palcoscenico da dignitosa provincia tedesca c’è almeno un artista di grande benché stagionata classe come Bo Skovhus, una delizia (ma poche volte ho sentito cantar male le Csardas di Rosalinde come da Valentina Nafornita). E visto che, nel secondo atto, Luisi ha sostituito al balletto la polka Unter Donner und Blitz, forse il ’23 non sarà poi così terribile.