il gesto e l'anima
La musica come rapimento. Parla Riccardo Muti
Il Maestro si racconta. La direzione d’orchestra come mezzo per trovare ed esprimere l’universo nascosto tra le note. Gli studi e i suoi insegnanti, i grandi successi e il ricordo delle corse in riva al mare. Intervista
Attendo il Maestro davanti al suo camerino, al termine della prova del Requiem di Verdi con l’Orchestra giovanile “Luigi Cherubini”, al Teatro Alighieri di Ravenna. Seduto in platea, ho potuto assistere a quel misterioso, potenzialmente infinito processo che è l’allestimento di un’opera musicale. Muti motiva ogni richiesta, fornisce le ragioni di ogni scelta, mostrando così lo spessore culturale che sta dietro la musica e “il mondo che sta dietro ogni singola nota”. Ascoltandolo, tornano alla mente le parole di Schoenberg, per cui “il maestro non deve mostrarsi come un individuo infallibile che sa tutto e non sbaglia mai, ma come l’instancabile che è sempre alla ricerca”. Ci sediamo, appoggia sul tavolo due bicchieri.
La storia di Riccardo Muti inizia a Napoli e prosegue in Puglia, a Molfetta, con gli studi musicali incoraggiati dal padre (“per lui era un insegnamento fondamentale nell’educazione”) e la tenacia della madre che, di fronte alle prime incertezze, lo esorta a proseguire lo studio del violino. Sorprende pensare a come l’intera esistenza possa assumere l’orientamento decisivo in base a particolari apparentemente trascurabili. Come del resto sarebbe avvenuto anche per la svolta verso la direzione d’orchestra: “Fu una cosa assolutamente inaspettata. Era il 1960 e studiavo pianoforte al Conservatorio di Napoli, ma avevo appena superato la maturità classica al liceo Vittorio Emanuele e dunque avevo potuto frequentare poco le lezioni. Venni convocato dal direttore, che allora era Jacopo Napoli, e pensai – la disciplina era ferrea – che volesse rimproverarmi per le assenze. Entrando nel suo studio mi fermai – in piedi, quasi sull’attenti – due o tre metri davanti alla sua scrivania. Mi guardò e disse: ‘Muti, ha mai pensato di dirigere?’. Risposi che non ci avevo mai pensato. Lui aggiunse: ‘L’ho ascoltata e dal modo in cui suona ho notato che ha una visione più da direttore che da pianista’. Aveva colto, nel mio modo di suonare, un approccio sinfonico alla partitura. Così provai. L’insegnante – che era Ugo Ajello – mi diede qualche informazione e poco dopo andai davanti all’orchestra. Ricordo ancora gli sguardi degli altri studenti sorpresi nel vedere un allievo di pianoforte che saliva sul podio. I primi minuti furono più ardui, poi d’un tratto sentii che qualcosa si scioglieva. Alla fine Ajello chiamò il direttore del Conservatorio e gli disse che era nato un nuovo direttore d’orchestra”.
Muti chiarisce subito, tuttavia, che si trattava non di un punto d’arrivo, bensì di un inizio che avrebbe richiesto disciplina e sacrifici: “Fu allora che il direttore venne da me e disse: ‘Da domani studierai composizione’. Tengo a sottolineare questo aspetto perché oggi la direzione d’orchestra viene spesso vista come una sorta di semplice gesticolazione. Molti non comprendono di che cosa si tratta: è un mestiere che abbraccia e coinvolge l’intera esistenza. Quando avevo trent’anni, l’ormai novantenne Vittorio Gui – che per me fu la testimonianza estrema e autorevole di un mondo che stava ormai sparendo – un giorno mi disse: ‘Muti, che peccato essere ormai così vicino alla fine della vita, proprio adesso che sto imparando che cosa significa dirigere un’orchestra’. Diceva ciò a novant’anni! E’ necessario il lavoro di tutta una vita per comprendere che cosa sia la direzione”.
Lei come la definirebbe? In che cosa consiste la direzione d’orchestra? “La questione è raggiungere quella maturità, quella autorevolezza e quella sensibilità umana per cui si è in grado di trarre dai musicisti – attraverso le braccia che, come diceva Toscanini, sono l’estensione della mente – il meglio della loro musicalità, coinvolgendoli in un’idea interpretativa”.
Qualche anno dopo si è trasferito a Milano e ha studiato con Antonino Votto, che era stato assistente di Toscanini. “Fu lo stesso Jacopo Napoli che, divenendo direttore del Conservatorio di Milano, mi invitò a trasferirmi. Gli insegnamenti di Votto, mio grandissimo maestro, provenivano proprio da Toscanini: dunque io sono frutto – e di questo sono fiero – della scuola italiana. Di Votto mi colpì innanzitutto l’essenzialità: andare dritti al cuore dell’opera, gesti essenziali, nulla di più di quanto fosse strettamente necessario, per tirar fuori ciò che non è scritto eseguendo rigorosamente ciò che è scritto. Una volta mi disse ironicamente, muovendo dall’alto in basso il braccio destro: ‘Fai così, qualcosa succederà!’”.
La porta dietro a me si apre un istante: è Cristina, la moglie del Maestro, che si avvia verso casa: “Ci vediamo lì”. Lui la saluta dolcemente e aggiunge: “Hai sentito come hanno suonato bene i ragazzi?”. “Sì. Anche oggi c’era qualcosa da imparare”, osserva lei. Questo è il punto, penso. C’è sempre qualcosa da imparare, quando si ha tra le mani qualcosa che è sempre perfettibile, quando il proprio mestiere è stare davanti a una bellezza evidentemente presente eppure – come sa bene chi lavora con la musica – mai pienamente raggiunta. Maestro, la musica è qualcosa che si può comprendere? “A un certo punto della terza cantica, Dante scrive: Da’ lumi che lì m’apparinno / s’accogliea per la croce una melode / che mi rapiva, sanza intender l’inno (Paradiso XIV, 121-123). La musica non è comprensione, la musica è rapimento. Quando studio e ristudio una partitura – per esempio, la Missa Solemnis di Beethoven l’ho studiata per cinquant’anni e poi, alla fine, l’ho eseguita – posso comprendere le indicazioni, l’andamento, le dinamiche e tutti gli altri aspetti che sono scritti sul pentagramma; ma è solo a furia di rileggerla e di cercare di penetrare ciò che sta dietro le note o – per così dire – tra le note, che nasce l’interpretazione, che è fatta di elementi che non possono essere scritti”.
E’ uno dei temi sui quali amo maggiormente riflettere e sorrido al pensiero di avere l’occasione di parlarne con lui. Gli leggo allora una frase di Gustav Mahler: “Nella partitura è scritto tutto, tranne l’essenziale”. “Esattamente! Sulla partitura troviamo tutti gli elementi – note, dinamiche, andamento – che possono essere messi per iscritto sulla carta; ma l’interpretazione è un’altra cosa. E’ qualcosa di estremamente cangiante, perché la stessa interpretazione a un giorno di distanza può essere, nei dettagli, estremamente diversa. Non esiste, in musica, la fissità. Quando Brahms dirigeva a Vienna le sue sinfonie e il concerto veniva ripetuto in diverse sere contigue, ogni sera si assisteva a qualcosa di diverso. Si tratta di lasciare spazio a una componente di improvvisazione, che non consiste in un tradimento di ciò che è scritto, bensì nel fatto che siamo consapevoli che ciò che è scritto non è tutto. Mahler, così, intende ricordarci che alcuni aspetti si imprimono sulla carta, però tutto questo non è la verità della musica. L’indicazione oggettiva dei segni che vengono posti sulla carta deve condurre al suono, cioè a una materia impalpabile a cui è affidato un contenuto spirituale. E’ lì che c’è l’essenziale!”
E’ forse questo che mette in rilievo la soggettività dell’interprete, dandogli una grande responsabilità? “E’ esattamente al livello di questo essenziale che l’interpretazione di un musicista si differenzia da quella degli altri. Perché questo essenziale non è una ‘verità’ unica, ma una varietà infinita di possibilità. Il nostro è un mestiere che si svolge nella continua ricerca di una verità interpretativa, di una irraggiungibile perfezione. Mozart un giorno disse che “la musica più profonda è quella che si nasconde tra le note”: tra una nota e la seguente vi è un mondo misterioso e vasto, per cui una nota si lega all’altra in infinite possibilità interpretative. Il mistero è lì, in quel piccolo spazio che racchiude l’universo”.
Qual è la cosa più importante che ritiene sia da insegnare ai giovani musicisti? “Il desiderio che ho – risponde Muti – è quello di insegnare l’etica del lavoro in orchestra. Non posso ammettere che un musicista stia in orchestra senza il massimo impegno, perché in tal modo sottrae intensità a ciò che invece richiederebbe grande partecipazione e profonda immedesimazione. Se a volte di fronte all’orchestra posso sembrare inflessibile o eccessivamente severo, ciò dipende da questo desiderio e dagli insegnanti che ho avuto. Ecco la ragione per cui mi impegno nell’Accademia con i giovani direttori: per lasciare loro qualche cosa di un passato che non si trova nei libri”.
Maestro, siamo in un’epoca in cui la dimensione estetica perde rilievo e viene considerata qualcosa di secondario, opzionale. Sembra che non sia più chiaro che cosa c’è per l’uomo dietro al rapporto con la bellezza. L’Italia stessa, che ha avuto un ruolo senza eguali nella storia della musica, pare aver perduto la coscienza del valore della sua stessa tradizione. “Siamo un paese – risponde – che ha un passato di immensa cultura, ma stiamo ormai scivolando verso un imbarbarimento in cui la parola ‘bellezza’ ha perso spessore, si è svuotata del suo significato, è stata ridotta a ornamento. Dobbiamo invece tornare alla bellezza con la ‘B’ maiuscola, che è un aspetto decisivo nella vita dell’uomo. In ambito musicale, troppo spesso abbiamo oltraggiato il nostro teatro d’opera facendone un mezzo di esposizione circense per cantanti, per cui una determinata opera diviene conosciuta, alla fine, per una singola aria. Le nostre opere sono sovente state trattate alla stregua di un intrattenimento, magari oltraggiando il fraseggio al solo scopo dell’esibizione canora. Le grandi pagine della nostra tradizione, invece, parlano all’uomo dell’uomo (le maggiori opere di Verdi, per esempio, vengono dette ‘popolari’ proprio perché toccano il cuore del popolo, la sua umanità) e sono in grado di fare questo nella loro essenza musicale, così come sono state scritte dall’autore”.
Molti lamentano il degrado che oggi, in vari casi, caratterizza la musica nella liturgia. Lo stesso Benedetto XVI aveva ripetutamente sottolineato l’importanza della nostra tradizione musicale liturgica, rimanendo per lo più inascoltato. “La crisi caratterizza soprattutto la situazione italiana. Per esempio a Salisburgo l’assemblea segue il canto, basandosi sull’organo, con ottima intonazione. In Italia invece si sta in qualche modo tradendo il nostro passato. Bisogna ricordare che la Chiesa ha avuto un’importanza fondamentale per la storia della musica. Nei decenni passati c’era una ricchezza (ricordo il concerto che ho diretto, ancora studente del Conservatorio di Milano, portando il Magnificat di Vivaldi e lo Stabat Mater di Scarlatti all’appena eletto Paolo VI, che era stato arcivescovo di Milano) che oggi appare perduta. Io stesso vorrei una risposta di fronte a questa desolante realtà. Per comprendere l’importanza della musica nella liturgia dobbiamo ricordare una frase di Sant’Agostino: Cantare amantis est. Cantare, fare musica, è proprio di colui che ama. A tema c’è qualcosa che ha a che fare con l’amore, dove per amore intendiamo proprio l’amor che move il sole e l’altre stelle. Il canto è l’espressione più alta dell’uomo: il fatto che non si esegua più come prima la grande musica è dunque significativo”.
Guardo l’orologio. E’ trascorsa più di mezz’ora da quando il dialogo è iniziato. E’ il momento di un’ultima domanda e voglio invitare il Maestro verso la sintesi assoluta: “Chi è Riccardo Muti?”. Appare divertito e risponde di getto: “Riccardo Muti è un ragazzo, nato a Napoli in una famiglia colta ma semplice, che con gli amici si divertiva correndo sul molo di Molfetta, specialmente nei giorni in cui l’Adriatico era in burrasca e le onde oltrepassavano il muro. Quel ragazzo tutto poteva pensare, allora, fuorché diventare musicista e intraprendere la strada che poi mi ha portato a girare il mondo e incontrare sovrani, presidenti, pontefici. Un viaggio portato avanti avendo la bellezza come punto di riferimento fondamentale. Mi imbarazza pensare a tutte le onorificenze che ho ricevuto, perché in fondo sono rimasto sempre la stessa persona, la mia essenza più profonda è rimasta assolutamente la stessa di quel ragazzo che correva sulla riva del mare”.