All'Ariston

Blanco, ma che fai? Oltraggio nazionale a Sanremo. Per fortuna c'è Mattarella

Enrico Veronese

Il vincitore dello scorso anno scalcia le fioriere e Amadeus peggiora la situazione. Mengoni si candida alla vittoria, i Coma Cose al podio. Di mezze canzoni però non si capiscono le parole. Intanto Benigni benigneggia sulla Costituzione e Ferragni ama tutti. Il racconto della prima serata

Blanco, ma cos’hai fatto? Scalciare e svellere fiori a Sanremo è oltraggio nazionale! Fregato dall’assenza di ritorno in cuffia nell’esibizione di “L’isola delle rose” (ma forte è il sospetto che si tratti di playback fuori sincrono), la giovane star della canzone italiana - ospite della serata inaugurale del Festival- non si limita a comunicarlo ai fonici, a favore di telecamera: dà apparentemente di matto, sotto adrenalina salta per il palco abbattendo ciò che di vegetale e colorato trova a tiro, infierendo ripetutamente anche con le mani. Sacrilegio al lavoro, alla Regione, al buonsenso. Agli sponsor! Oppure raptus premeditato?

Il video ufficiale, dove l’ipercinetico compie analoghi atti contro un roseto, non lascia troppo spazio all’immaginazione: ma sono inevitabili i fischi dalla platea, vieppiù assordanti quando Amadeus cerca di metterci una pezza come un sottosegretario ai primi anni della tv. Il conduttore peggiora la situazione, scambiando il bresciano per Salmo e lasciandogli il microfono: “Cosa significa? Che è andata via la voce, ma io mi diverto comunque. Bisogna divertirsi”, con la spavalderia della sua età. Il pubblico rumoreggia, capisce che non si tratta di un Bugo offeso ma gli “arriva” solo un bamboccio viziato che difende il suo titolo in carica peggio di quanto stia facendo il Milan in campionato.

L’ovazione esplode solo alla conferma che Blanco non sarebbe più risalito sopra il palco per eseguire di nuovo il brano: con questi buuuu si stroncano le carriere. E dire che era stato avvertito poco prima, almeno due volte. “Qui non arriva la musica”, canta Marco Mengoni, bello senz’anima che già raccoglie i favori della sala stampa, non con il brano migliore del suo repertorio. La voce vale più se si paragona che non se si considera, e ci vuol poco nel contesto: ma perché si arrabbia? Perché la vena? L’orchestra appesantisce, e non è l’unica volta. Un tallero che sabato Mengoni non vincerà.

 

“Chi fermerà la musica?”, suggeriscono a Blanco anche i superospiti Pooh: professionali come macchine, il peso del tempo rende Roby Facchinetti quasi doppiato anche quando parla. In Rete impazza il Robyshaming, entra ed esce Riccardo Fogli per rievocare i primordi, alla batteria il figlio del tonico Red Canzian: per “Uomini soli” -pezzo da Festival se ce n’è uno, accadeva sovente a chi vinceva tra il 1987 e il 1990- l’abusata tecnologia fa rivivere Stefano d’Orazio in bianco e nero, il trucco funziona sempre.
 

 

La kermesse, all’edizione 73, parte ecumenica con Gianni Morandi che prima di affiancare Pinotto Amadeus canta l’inno davanti al presidente Mattarella e ai vertici della Rai, almeno a loro insaputa. Così vanno le cose, così “devono” andare: Benigni benigneggia sulla Costituzione, l’Iran, il diritto alla felicità, cantare ballare sentirsi tutti uguali. Chiara Ferragni si pensa libera, ama tutti, Ama deus -chissà se anche i dEUS, come gIANMARIA- e cita i numeri degli ascolti in streaming come Andrea Scrosati snocciolava indici d’ascolto di Sky. Torna in scena disegnata per il momento-verità e senso di colpa con i centri antiviolenza, che sarebbe stato meglio anticipare. Amadeus non fa niente per distanziarsi dal ground zero di Mike Bongiorno (“l’ha scritto da sola questo testo, pensate amici ascoltatori”): l’abito fucsia della moglie Giovanna, in prima fila, corrobora l’idea di fondo che qui gli anni Novanta siano diventati il passato mitologico da rimpiangere.

 

Di mezze canzoni non si capiscono le parole, della rimanente metà i testi non fanno male. I meno peggiori? Madama Ariete, tesissima trema. Canta “Mare di guai” scritto con Calcutta, e non sentiremo niente di più indie per cinque zarrilliani giorni: meglio la strofa del ritornello, ma “la notte è solo il giorno che riposa” rende simpatica la sua nenia di periferia. I Colla Zio (aiuto), outfit da sfigati e mosse da boy band con l’autotune: Amari Tattici Nucleari e ipertricotici, funkeggiano a metà strada tra i Ridillo e (out)Take That, vitalizzando l’una di notte. Mr.Rain, emozionato vero, sfugge al ricordo del quasi omonimo hit da discoteca 90s (appunto) grazie al songwriting di Federica Abbate -una volta in più, tra le migliori paroliere in circolazione- e alla costruzione melodica. I suoi “Supereroi” sono i bambini del coro, in un paese figliocratico vale più di una captatio benevolentiae: almeno il premio Mariele Ventre dovrebbe essere suo.

 

Nel festival più biondo di sempre, il festival della esse sibilante, la vera sorpresa sono i Cugini di Campagna. Affidati alle cure dei rappresentanti di lista Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina, i percepiti vegliardi sfoderano un look da producer slovacco all’Eurovision Song Contest e adeguano di almeno trent’anni in avanti -rispetto alla tradizionale percezione di se stessi- un brano eurodance che per qualche ora si farà ricordare tra gli altri. E se le cose migliori vengono da un complesso ripassato in padella, dal finto funk di una improbabile boy band, una ninna nanna indie e la voce di Mengoni, siamo messi male. C’è una ragione che cresce, ad esempio, per bocciare Anna Oxa versione Patty Pravo blended Antonella Ruggiero in soluzione salina: se porti all’Ariston un brano di Francesco Bianconi e Pippo Kaballà, ci si aspetta che il testo e la musica diventino il tuo vestito. E invece. Conciata come una dark londinese, Oxarte ristabilisce sùbito la netta differenza tra il cieco amore e la stupida pazienza (quando scriveva Fossati): “Sali” dimentica i tabacchi, e piovono meme con la fattucchiera Amelia.

 

Chi si accredita per i piani alti è Elodie: entra corvo Rockfeller, smaschera una mise che ne esalta le forme e mangia il cuore. “Due” è una ”Andromeda” dall’arrangiamento più convincente, urban non è più una bestemmia, anche se non uccide come “Bagno a mezzanotte”. Oltre il cat eye pesante c’è di più: “Per me le cose sono due, lacrime mie o lacrime tue”, firmato Abbate è l’inciso che può cambiare la storia di questa edizione.

Solo quarto, per ora, è Ultimo: “Alba” inizia come un brano di Ultimo, ha il crescendo energico di un brano di Ultimo, il finale di un brano di Ultimo. Parola sdrùcciola, come la sequenza che apre al ritornello (ma “Vita” di Dalla e Morandi era un’altra cosa): era tra i favoriti, stavolta ce la potrebbe fare. Vedono una nicchia sopra il podio, finalmente, i Coma Cose: per i maligni sono i nuovi Jalisse, integrati al nazionalpopolare. Chi li segue dagli albori li rivuole anime lattine e trova stucchevole la scioglievolezza di belle frasi come “l’addio non è una possibilità”: ma cantano anche “il nostro fuoco l’hanno visto tutti”, parlando del ba-cio! Ba- cio! terminale.

Un posto al sole, senza scandali al sole. Restano spiccioli del “Mostro” gIANMARIA, glabro stampino in serie e tv. Brandelli di Leo Gassmann: il padre abbandona il Pd, lui la voce. Rimasugli giovanilisti di Olly ormai fuori tempo, briciole di Mara Sattei a prova di respirazione in un’epica degna di miglior causa, la gigantesca scritta “perché?” appiccicata a Gianluca Grignani: se il direttore artistico ritiene che “Brividi” abbia già fatto la storia della musica italiana, non resta che aggrapparsi all’Umberto Eco ‘69 retwittato da Eddy Anselmi. Come farà l’archivista del 2000, si chiedeva cinquant’anni fa il semiologo, a riconoscere e classificare le edizioni del Festival di Sanremo, che restituisce la placida e falsa immagine di una terra dove tutti cantano e nessuno si lamenta, se non per inconsolabili pene d’amore?

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