la kermesse
Tutto quello che è successo nella seconda (soporifera) serata di Sanremo
Al secondo giorno si capisce il senso del Festival voluto da Amadeus: puoi fare lo strano, ma senza fare lo strano. Si gioca in difesa senza guizzi. Riepilogo
Seconda serata. Le premesse sono un filo ridotte rispetto all’esordio presidenziale e al disciogliersi sul piccolo schermo di Chiara & i Suoi Algoritmi. Al posto di lei c’è Francesca Fagnani e il ruolo comico istituzionale di Benigni sul tardi viene rilevato dal palermitano Angelo Duro, che la mette sullo scorretto, nemmeno che Lenny Bruce non fosse mai nato. E poi, arrivati alla seconda, è tempo della domanda: ma il senso generale della kermesse qual è, nella proposta di Amadeus che la governa? Ci arriviamo.
In crescita le azioni di Morandi: lui funziona comunque, non ne sbaglia nessuna e ha un animalesco senso della misura – sa tagliar corto. Partenza sonnolenta, revival Nilla Pizzi, un barbuto della prima fila alle 20.50 già compulsa nervosamente il Rolex, comunque via con le seconde 14 canzoni di quest’edizione. Il novellino Will è spaurito, emozionato e si sbriga (ci risiamo: se vai a Sanremo cerca d’essere speciale, sennò perché?). I Modà salgono sul palco come per una festa marinara d’agosto, quando siamo tutti più ben disposti. Kekko canta di situazioni acide e, lette le interviste, il quadro è coerente coi problemi personali, in un pezzo dignitoso, collocabile in qualsiasi Italia degli ultimi 40 anni, ultimi dieci esclusi. Quando subentra la promozione di uno sceneggiato di poliziotti, la scaletta scricchiola sul serio. Chissà quello del Rolex come la vive. Anche gli spot non sono quelli speciali della prima sera, ci eravamo abituati male. Possibile che già ci manchi la fragile souplesse di Chiara? Aiuto: se prende il sopravvento la routine sanremese, si rischia il soffocamento.
Entra Fagnani, non si esime dalla lettura del cartoncino e toppa subito il primo nome - Sethu, uno che somiglia a Ultimo, ma non si capisce bene di cosa canti. È un istante e già si approda al clou vintage della serata, l’invenzione del trio Morandi-Ranieri-Al Bano, età media 76, per cui potevano esserci timori. Miscredenti: una volta Al Bano mi disse giovialmente, indicando le corde vocali, “io qua ciò na canna”. Sante parole. In misura minore vale anche per Massimo, Gianni di suo la porta sempre a casa. Il trio macina, inciampa, riparte, sgasa, insomma va bene, con l’odore di sagra paesana che trasuda dallo schermo, ma stavolta l’aria è questa, quella dell’Italiona-karaoke, lacrimosa, turgida e gradassa. Al Bano, con la sua canna s’allarga pure un tantino e gli altri due alzano gli occhi al cielo, ma “Perdere l’amore”, in cui si prendono “a sassate tutti sogni ancora in volo”, è un pezzone che Puccini ci avrebbe messo la firma, per non parlare dell’omaggio a Umberto Bindi, sgangherato ma affettuoso. La serata finalmente s’è alzata da terra. Riparte il concorso con gli Articolo 31 che non ne approfittano, col un nostalgico pezzaccio autoreferenziale, di biancovestiti come i Leftovers (la serie). Molto meglio Lazza, scontroso, estroso, verace, anche se il pezzo è un po’ scorticato. Giorgia invece non funziona e se il virtuosismo è la tua cosa, questo è un guaio - magari si rifarà nelle repliche.
A questo punto d’un tratto, a freddo, ecco calare la testimonianza anti-iraniana di Pegah Moshir Pour, dritta, secca, imprevedibile nel torpore del momento, destabilizzante, non per la sintesi dell’orrore pronunciato con la complicità di Drusilla Foer, ma per lo stile paracadutato che odora d’incidente internazionale dietro l’angolo - e, a peggiorare la situazione ci si mette Amadeus che, per sdrammatizzare, parla di Grammys assegnati alla musica iraniana, come se quella fosse la notizia. Quando, straniti, si ricomincia, per fortuna Colapesce e Di Martino riescono a riscuoterci, azzeccando un nuovo sinuoso tormentone pop che ci accompagnerà fino alle vacanze, in quel mare che loro già evocano con “Splash”. Neanche malaccio la successiva verve sfacciata di Shari, con un melodic rap scritto da Salmo e un vestito fatto da uno stilista pazzo. Il botto successivo però prova a farlo Fedez, ospite navigante, stavolta in scena con aria truce e un ganzo rap autobiografico anti-Codacons, da cui cola il versetto “Decido io quando venire / però me lo preparo / come Matteo Messina Denaro”. Apriti cielo: social in subbuglio. Si? No? Telefonato? Sì. Necessario? No. Revolverata a salve? Sicuro. Di lui – forse mal consigliato - toccherà occuparsi presto. Ma già si torna all’Ariston, parlando di sesso a pagamento nel buon pezzo di Madame e di sogno erotico in quello di Levante, che insegue Madonna ma è destinata a diventare la Bertè. Quindi Tananai, che ha una grazia già un po’ appassita, Rosa Chemical che riduce lo scandalo a marcetta, LDA che per ora è acqua fresca, e Paola e Chiara per le quali l’effetto-scongelamento è fallito. A margine, la Fagnani nel monologo rispolvera un’inchiesta nel carcere minorile di Nisida, e nella ossessiva ricerca della frase memorabile spara un “lo stato deve essere più sexy dell’illegalità” su cui ci stiamo ancora interrogando.
Morale: Mattarella-Benigni-Ferragni, dream team che vince e non si cambia, solo si potesse. Con le riserva si gioca in difesa e senza guizzi. I migliori dell’intero lotto? Coma Cose, Ariete, Madame, Lazza, Colapesce-Di Martino. Dicono che vincerà Mengoni: pazienza. Dicevamo del senso generale, versione-Amadeus: per lui cantare resta un antico mestiere di radice popolare, che non può permettersi fughe nell’élite. Puoi fare lo strano, ma non farlo strano e i conti canzonettistici devono tornare. Perciò una kermesse ecumenica, con la melodia, il salottino, l’insalatina e giusto mezzo bicchiere di vino rosso. Non di più, sennò viene il mal di testa. L’effetto? Grandi numeri e riflessi di narcolessia. Ma andate in pace, oggi, qui da noi, il catalogo è questo.