al giro di boa
Il televoto stravolge la classifica di Sanremo ma Mengoni resta in testa
In groppa agli streaming e all’infanzia volano Mr.Rain e Ultimo. Scende inopinatamente Elodie. Stasera è la serata dei duetti: occhio a Coma_Cose e Baustelle, Leo Gasmann e Edoardo Bennato
Detto, fatto. Nel giorno che piange Burt Bacharach, genio universale del pensare canzoni pop, l’avvento del televoto ha mutato in modo significativo il volto della classifica generale al Festival di Sanremo, provvisoria com’era uscita dalla sala stampa: in groppa agli streaming e all’infanzia volano il sorprendente(?) Mr.Rain e l’ex favorito Ultimo, assieme allo sciantoso Rosa Chemical e ai sornioni Modà, che una via per risalire a galla la trovano sempre, appellandosi al pubblico. Scende invece inopinatamente Elodie, e con lei quattro offerte musicali che condividono o quasi le sillabe iniziali: Colapesce e Dimartino (tra i preferiti delle giornaliste e dei giornalisti). Coma_Cose, Colla Zio e Cugini di Campagna.
Bocciatissimi i bisillabi provenienti da Sanremo Giovani, tutti depositati al fondo della bottiglia; se gIANMARIA potrebbe finire per essere il Tananai di quest’anno - l’originale resta meritatamente nelle zone alte - la disapprovazione della platea ligure è tutta per il lieve arretramento in graduatoria di Madame, che ha dominato la sfida delle seconde interpretazioni ma non le voci incontrollate alle ore piccole, relative a presunti litigi in backstage. Il peso delle fanbase nutrite, coccolate, assidue era facilmente previsto e ha già impresso il suo pugno: non tanto però da scalzare Marco Mengoni dal vertice che, salvi cataclismi, gli sta donando la palma del bis. “Due vite” cresce, al suo interprete è stata riservata l’unica standing ovation spontanea: al di là della supremazia vocale, non tutto convince in un amore di plastica. Ma l’aria del sabato sera è da partita già chiusa, come per il Napoli nel campionato di calcio: non succedeva da anni di avere un quadro così risoluto alla boa di metà settimana, quando mancano “solo” i duetti e la passerella conclusiva.
Questione di feeling: sbaragliata la concorrente più pericolosa, una Giorgia che governa in vitino di vespa e ossa le sue “Parole dette male” (va ascoltata da studio, ma anche live si è rassettata), ora incombe lo schermo finale di Ultimo. Il quale, mai amato dalle avanguardie, sfodera un crescendo epico non troppo nelle sue corde: ma per la prima volta è senza l’assillo di “dover” vincere, forse un po’ più stanco ma più libero. Mai come quest’anno, quindi, importano i premi paralleli: come quello dedicato a Giancarlo Bigazzi, che riconosce il miglior arrangiamento. In chiave di contemporaneità se la possono giocare la dardustata di Lazza e la sciccheria di Madame: la “cosa” musicalmente più attuale passata dall’Ariston, che risolve problemi di espressione e latente alessitimìa facendo percepire il metronomo equalizzato del cuore. Invero, la migliore del lotto.
Quanto poco ormai c’entrano con quel palco i Måneskin, quasi una sala parrocchiale per lo status che hanno raggiunto: eppure ci tornano per riconoscenza, come grazia ricevuta. Apriranno sì ai Rolling Stones, ma rimangono di famiglia: Damiano da poco rasato, Victoria contenitiva deborda, lo Zeitgeist del postmoderno è l’immagine dalle ultime file della platea, che ritrae gli spettatori delle prime file tutti col telefono sguainato a registrare video in diretta. La gente continua a parlare e a non sapere di che cosa parla: Paola Egonu da Cittadella legge dal gobbo virtuale la propria biografia nel momento Lives Matter, ovvero il motivo per cui è stata chiamata a condurre una parte di scaletta. E pur acconciata sontuosamente, non è del tutto a proprio agio senza un pallone da schiacciare nei tre metri al di là della rete: si consoli, a essere efficace ha faticato anche Chiara Ferragni, che le relazioni mediatiche le mangia a colazione ma le manca l’abitudine alla concretezza del mezzo. Meglio Francesca Fagnani la sera prima: spigliata e asciutta, rodata da anni di conduzioni. La televisione non si improvvisa.
A brani già delibati e release di video ufficiali, la terza serata di competizione è adatta a commentare abbigliamenti, margini, dettagli meno in vista. “Mi è salito questo o quella”, è il leitmotiv delle chat sapute: si leggono pagelle di carta che sembrano oroscopi, nei testi ricorre il vocabolo aspettative, vocali troppo aperte e nessun rapporto di coppia che prometta di estendersi fino a naturale consunzione. Pochissime Ferrari ambite, piuttosto un garage di Twingo scambiste. “Tutti in piedi!”, urla Amadeus pensando di essere ancora animatore di un villaggio turistico in riva al mare: e poi i selfie tottiani con la curva, gli account dell’ultimo minuto per la prova-Propaganda, come se i boomer alle redini avessero davvero scoperto l’esistenza di un network nel 2023, a intelligenza artificiale già insediata. È l’UberSanremo dove suonano tutte e tutti: a teatro, tra gli ospiti (che per costume sono sempre super), al Suzuki stage, perfino gli spot riciclano -in cinque sfibranti ore e mezza- coloro che sono passati e ripassati in padella dalle recenti edizioni.
L’Ariston consente di svelarsi al massimo, là dove in altri luoghi di lavoro fioccherebbero punizioni per centimetri scoperti; l’eterno gioco di bambinoni in età da bisnonni, e se si parla di diritti bisogna comunque ricercare una narrazione potabile a tal contesto di lustrini e prodotti a buon mercato. Le esibizioni in gara consolidano o ridimensionano, quasi mai smentiscono i passaggi dei giorni precedenti: ci si sono messi in otto per scrivere l’algoritmo di “Furore” (sudore, pudore) e destinarla alle sorelle Iezzi, forse con due o quattro braccia in più si sarebbe potuto salvare qualcuno dalle macerie turche. Mara Sattei come Giorgia non perde respiro, ma sbadigliare già al secondo pezzo non è giusto; Grignani inceppa negli ormai soliti disguidi fonici e, a differenza del giardiniere Blanco, si comporta bene, chiede di ripetere (l’anno). Levante s’investe del ruolo pancino come doula o Moon mother, ma non è più lei: “Vivo il digitale / vivo l’uomo e l’animale” tra gli incisi più imbarazzanti, così come “per me le cose sono due / lacrime mie o lacrime tue” è già la frase del Festival, e nessuno la toglierà più di dosso alla dorata pelle di Elodie.
Nei panni di Quélo e negli scambi coi suoi musicisti, l’inquietante soma di Sethu dimostra che nella società dello spettacolo ognuno può essere per quindici minuti il Boss Doms di qualcun altro. Tenero e pulito invece il personaggio di Mr.Rain, consapevole che un canto di bambini fa stare bene anche il più incallito dei no kids: le ali d’angelo anche no, ma il resto funziona. Liete conferme giungono da Ariete, deliziosa disadattata twee con tutta l’idea di alzarsi a mezzogiorno, dai Cugini di Campagna che finalmente conoscono la modernità, Rosa Chemical in estasi fetish: ma cosa c’entra il “made in Italy” con le sue rivendicazioni? Resistono pure le mezze delusioni: più nessun calembour per Coma_Cose, che potrebbero premettere “Ex” all’insegna d’arte, visto lo scarto con i folgoranti esordi. E Anna Oxa rag doll: un brano firmato Bianconi e Kaballà che non riesce a emergere per testo, melodia, spirito è una rarità, OxArte né parte. Ma quanto è bello piangere come vitelli con il ritornello di Tananai, che ha appena riaccompagnato a casa la “Ragazza di campagna” di Claudio Baglioni: la melodia affonda nella storia della musica leggera nazionale, e infatti il giudizio demoscopico lo premia al pari di quello specializzato, mantenendolo entro la soglia aurea del quinto posto. E si continua ad asciugare le lacrime degli Articolo 31, che celebrano il bisogno di chiedersi scusa (lo strapaesano “se a me va male / godo perché a te va peggio”) dissando “Una storia italiana” del Cav. e scatenano container di ricordi: “Non volevamo crescere / ma è successo tutto a un tratto / e fai tutte le cose che / giuravi non avresti fatto”.
A proposito di storia: a day in the life degli affiatati Colapesce e Dimartino riassume in juke box epoche e stili a cavallo dei due secoli: Lucio Dalla e Post Nebbia, Enzo Carella e “Latte 70” nella lectio dei Baustelle, l’alienazione metropolitana di Luciano Bianciardi e l’autocitazione disco version, l’immanente Lucio Battisti e pure Piero Ciampi, “Quanti anni hai” di Vasco e i primi Matia Bazar. Ognuno ci sente quello che riesce: se ora si può parlare di una cifra distintiva del duo, è anche perché ci sono stati tutti costoro, e altri ancora. In tema, venerdì è deputato - da recente tradizione - al pegno da pagare nella partita con ispiratori e amici: di ventotto scelte, la metà saranno medley o cover di se stessi o degli artisti invitati, per pigrizia o royalties. Già questo schema consente di dividere salomonicamente chi individua un brano preciso e chi no: e magari chi cerca scorciatoie andrebbe un po’ penalizzato da regole più stringenti. Incuriosisce intanto la presenza di Edoardo Bennato, alle prese con il proprio repertorio di scorta a Leo Gassmann; tenta tre volte tanto l’abbinamento fra Coma_Cose e Baustelle - pure rivisitati da Sethu, “Charlie fa surf”- per esaltare fuori dagli stadi la dignità dell’ineffabile “Sarà perché ti amo”, quarant’anni e non sentirli. Fuori dal locale, meno male che qualcuno ancora sa riconoscere la propria genealogia sonora, il timbro e il gruppo sanguigno della canzone italiana: se ci si sorprende di certi esiti, significa che questo Paese lo conosciamo davvero poco.