Conte sì, Conte no
Nel dibattito su Conte alla Scala è in gioco il rapporto tra bellezza e mercato
Non si può liquidare la decisione sul concerto del 19 febbraio come una questione reazionaria o troppo sofisticata. C'è in ballo una precisa idea di rappresentazione musicale
Quando ho letto il titolo della lettera aperta di Piero Maranghi contro il concerto di Paolo Conte alla Scala, ho pensato che fosse una battaglia di retroguardia. Dopo averla letta sono pieno di dubbi che non sono stati dissipati, anzi, dal dibattito in corso (che comunque è uno dei più interessanti degli ultimi anni). Mi sembra insufficiente liquidare la questione come frutto di un riflesso reazionario e parruccone, oppure rimettersi ai gusti del pubblico o del sovrintendente (come se nella gestione di istituzioni così complesse, vedi Salone del libro di Torino, non entrassero spinte e interessi di altro tipo) o appellarsi alla distinzione tra buona e cattiva musica, problematica di per sé, impossibile tra i contemporanei. Mi pare necessario, invece, parlare di due temi cruciali che la lettera pone: il rapporto tra contenuto e contenitore e quello tra bellezza e mercato.
Il contenitore influisce sempre sul contenuto, e viceversa. Beethoven usato come sveglia telefonica, ha scritto Pierluigi Panza, o nello spot di Vecchia Romagna, aggiungo io, è diverso da quello ascoltato in concerto. Allo stesso modo un romanzo di Georges Simenon cambia se è pubblicato negli Oscar Mondadori o da Adelphi. È la stessa ragione per cui gli stessi spaghetti alle vongole sono più buoni mangiati in riva al mare che in un rifugio alpino o in una mensa aziendale. Il problema si acuisce se l’opera d’arte pretende una fruizione collettiva perché in quel caso la tensione tra contenitore e contenuto si carica di un elemento liturgico, per non dire sacrale, che rende il pubblico protagonista. Quando Maranghi scrive che la Scala offre a Paolo Conte più di quanto Conte possa restituire alla Scala, credo stia parlando di questo: eseguita in quel teatro quella musica diventerà ancora più grande, ma il teatro diventerà più normale. E così siamo arrivati al secondo problema, quello del rapporto tra bellezza e mercato, che banalmente si esplica nel numero di pezzi o biglietti venduti.
Mi pare di ricordare che molti anni fa Vittorio Sgarbi si scagliò in televisione contro il sovraffollamento dei musei che, accogliendo cani e porci (e naturalmente “capre!”), impedivano ai colti la giusta contemplazione. Era una provocazione paradossale ed elitaria, però poneva un tema reale. Perché è indubbio che oggi al Louvre non ci si possa più andare a vedere la Gioconda, ma a farsi vedere con la Gioconda. Non mi riferisco tanto ai selfie nel foyer, che facciamo un po’ tutti, e certo non propongo di limitare l’arte a qualcuno. Sto girando intorno al problema dell’attenzione. Quando vado alla Scala, spesso, mi annoio, non capisco quello che dicono, a volte dormo e russo, perfino. Insomma, faccio fatica. E come me fanno fatica, basta guardarli, quelli che alla Scala sono venuti per il teatro, ma sono disabituati all’opera. E però alla fine, ogni volta, esco sapendo che è solo grazie a quella fatica se ho avuto accesso a una bellezza a cui la mia epoca, per questioni di velocità e consumo, non mi permetterebbe mai di arrivare.
È per questo, credo, che nello statuto del Teatro alla Scala c’è la difesa della musica lirico-sinfonica, non quello della musica in generale. Forse dovremmo abbandonare l’opposizione tra musica classica e leggera, perché niente è leggero come un’ouverture di Rossini, un’aria di Mozart o di Verdi. Ma la leggerezza che si prova guardando la luce e le nuvole in basso, dopo avere fatto la fatica della scalata. Mi pare che la domanda di Piero Maranghi sia sul confine, quindi sui limiti del mercato e della massificazione, perché quello che è facile si vende sempre più facilmente, ma dopo il facile, viene il semplice e dopo l’ovvio e dopo niente. Ha ragione Alberto Mattioli a scrivere che alla Scala, fino alla fine dell’Ottocento, ci si ritrovava a mangiare, bere e fare casino, ma questo non riguarda la musica. Se per ragioni economiche il programma si allargherà a chi ha già un pubblico pronto ad accorrere, il contenuto renderà sempre meno speciale il contenitore fino a svalutarlo anche economicamente, e saranno sempre più rari quelli che avranno voglia di sobbarcarsi la fatica di Mahler, Wagner o Berio, ma neppure, temo, del maestro Paolo Conte (che comunque è nell’anima e dentro l’anima per sempre resterà).