il foglio del weekend
Sergio Bruni è ancora la voce di Napoli a 20 anni dalla morte
Celebrato da Raiz, star della serie “Mare fuori”. Nato nel 1921, morto nel 2003, nel ventennale della scomparsa gode gli onori del rivival
“Ai miei allievi dico che per imparare il canto bisogna studiare Sergio Bruni”.
Riccardo Muti
Chiese e ottenne che un tram pieno di passeggeri, transitando per una festa di piazza, si fermasse finché lui non finiva di cantare. Chiese e ottenne che la casa discografica Pathé incidesse il primo 78 giri di un complessino che nessuno aveva preso sul serio, di tal Renato Carosone. Chiese, e venne accontentato, che uno scugnizzo tredicenne fosse ingaggiato con lui in una tournée americana, sicché l’implume Giovanni Calone, alias Massimo Ranieri, varcò per la prima volta l’oceano e la barriera dell’anonimato. Chi osava contrariarlo se ne sarebbe ricordato a lungo: quando a un Festival di Napoli scoprì che il conduttore Mike Bongiorno stava per annunciare un concorrente dal nome simile al suo, abbandonò la gara sordo a ogni preghiera. Quando, molti anni dopo, la decaduta manifestazione canora fu rilanciata da Mediaset, apostrofò in diretta la presentatrice Barbara D’Urso che lo esortava a “stringere” l’ospitata: “Stai zitta, come sei ignorante!” (cui aggiunse, pare, un’aggravante dialettale). Per dirla con un eufemismo, non aveva carattere facile Guglielmo Chianese, che con il nome d’arte di Sergio Bruni assurse alla storia della canzone e di più: a quella della musica.
Ultimo di nove figli, Guglielmo/Sergio sommava alla clamorosa povertà della famiglia lo svantaggio dell’origine rurale a Villaricca, paesotto del contado napoletano che fino all’unità d’Italia si chiamava Panecocoli a cagione dei tanti fornai, nome sopravvissuto in locuzione dialettale per indicare un luogo fantomatico a chi pretende qualcosa d’improbabile (“e dove te la vado a prendere, a Panecuocolo?”). Nato nel 1921, morto nel 2003, Sergio Bruni nel ventennale della scomparsa gode gli onori del revival. Il cantante e attore Raiz gli ha dedicato un cd in cui ripropone i suoi successi e un tour con cui sta riportando il maestro in concerto dopo avere spopolato nella serie tv Mare fuori 3. Un inchino al passato mentre il pubblico nazionale, che apprende con i rap e dagli schermi la parlata cruda della Napoli attuale, rischia di obliare o ignorare le cesellate bellezze di un idioma di cui s’è quasi smarrita la regola di scrittura, che bisognerebbe ristudiare con una delle migliori guide della materia, redatta guarda caso da un altro illustre cantante del passato: la Grammatica della lingua napoletana di Aurelio Fierro. Ma è già fortuna che Bruni, postumo, torni a insegnare.
Era “la voce di Napoli” secondo Eduardo De Filippo, che lo visitava spesso per gustare il ragù della moglie Maria; fu per Roberto De Simone “il principe sdegnoso”; Goffredo Fofi lo definì “più originale e più bravo di Frank Sinatra, ma col difetto di non essere americano”; Billy Wilder lo onorò della pazienza quando girava la commedia Avanti! con Jack Lemmon, ambientata a Ischia: Sergio Bruni interpretava se stesso intonando Core ‘ngrato e mise alla prova il regista americano obbligandolo a molteplici ciak, poiché afflitto o benedetto da costante perfezionismo non si reputava mai contento. E fu proprio dopo averlo sentito in Core ‘ngrato che Alberto Moravia proclamò: “Ho avuto voglia di rispedire il disco di ’O sole mio a Elvis Presley”. Al cospetto di Bruni tremò per soggezione, benché all’apice del successo, Nino D’Angelo che lo venerava e avrebbe inciso l’album DangelocantaBruni; s’intimidiva Pino Daniele; si sdilinquiva Charles Aznavour, che lo riconobbe come “caposcuola al livello di Sinatra, Trenet, Chevalier”.
Soltanto un uomo riuscì a smontare il temibile ex Chianese, essendo ancora più tosto di lui: Padre Pio. Fervido cattolico quanto fervente comunista, e ormai noto come Sergio Bruni, ottenne finalmente nel periodo della massima popolarità un incontro a San Giovanni Rotondo. “Io sono Bruni”, si presentò al santo, il quale brusco ribatté: “E io sono bianco”. Crollata subito qualsiasi vanità, gli s’inginocchiò davanti: “Vorrei essere vostro figlio spirituale”. Padre Pio, mutando umore, con repentina dolcezza lo rassicurò: “Già lo sei, figliolo, già lo sei”. Lui si sentì felice come il giorno che da bambino aveva esordito con il clarinetto nella banda per la festa patronale. Assegnato dal destino allo stesso strumento musicale e al medesimo futuro di campagna del Nuto pavesiano di La luna e i falò, Guglielmo Chianese ne sfuggì tuttavia a quindici anni, quando la famiglia si trasferì a Napoli e lui si scoprì – unica guida lo specchio – talento e smania di cantare.
Quando incontrò il mare del Golfo acquisì una quotidiana dipendenza dalla brezza iodata di via Caracciolo, eppure fu la grama terra di Panecuocolo che gli porse in dote la peculiarità artistica. “Bruni rappresentava il più felice innesto vocale tra cultura popolare delle campagne e tradizione urbana”, scrisse nell’obituary Roberto De Simone, che aveva realizzato con lui un’imponente silloge della canzone napoletana. Le particolarità del suo stile “consistevano nel saper cantare le sillabe mute del nostro dialetto, nell’emettere suoni a bocca chiusa, nello strisciare le vocali senza mai inficiare l’intonazione o gli equilibri nei passaggi di registro, nel mutare frequentemente timbro e appoggio, nell’impiegare sapientemente suoni di petto, di gola, di testa, in una personalissima, mirifica e strabiliante arte del cantare”. Ce lo ribadisce vent’anni dopo la musicologa Simona Frasca: “Bruni sovrappose al contesto canoro cittadino tutti gli aspetti più etnici della vocalità: fioriture, suoni vibrati, tremoli, uso del falsetto, ossia il bagaglio tipico del canto tradizionale. Fu tra gli ultimi depositari di uno stile destinato a scomparire, perché scompariva quella dinamica di scambio tra città e campagna che aveva alimentato per tantissimo tempo il repertorio della canzone napoletana”.
Il bruco Guglielmo Chianese diventò farfalla Sergio Bruni dopo un drammatico evento, che lo avrebbe segnato con una permanente menomazione. Chiamato alle armi nel 32° reggimento fanteria di stanza a Caserta, a fine settembre ’43 si unì alla rivolta napoletana contro le truppe naziste e rimase ferito dopo avere sminato il ponte di Chiaiano che gli occupanti volevano distruggere. Quando i tedeschi fecero fuoco, una pallottola gli graffiò il viso e un’altra gli spaccò un femore. Operato frettolosamente, l’osso si saldò male e Guglielmo, con il coraggio spaventoso di un sant’Ignazio soldato, pretese che gli fratturassero di nuovo la gamba per ricomporla meglio malgrado la mancanza di anestetici. L’intervento fallì ma non sorprende, se la terapia fu quella raccontata da Bruna Chianese nella biografia del padre: i medici gli ordinarono di poggiare sull’arto “un grosso sacco di patate per esercitare una pressione e far rinsaldare l’osso nel modo più lineare possibile”. Risultato: Guglielmo restò claudicante, col femore destro più corto di circa dieci centimetri. “In famiglia abbiamo sempre saputo”, spiegò Bruna, “che i suoi scatti d’ira erano dovuti in parte allo scombussolamento provocato al suo sistema nervoso da tanti patimenti. Ma anche la sua sensibilità artistica fu forgiata da tutto questo”. E ne fu forgiato il futuro: in ospedale conobbe il famoso cantante napoletano Vittorio Parisi, che ne intuì da subito il talento. Due anni dopo il ragazzo zoppo vinse un concorso canoro alla radio e s’imbatté nel maestro Gino Campese, il quale gl’impartì la nuova identità di Sergio Bruni, con cui magicamente si schiuse la strada del successo e dell’agiatezza.
“Il denaro non l’ho cercato, ha spinto la porta ed è entrato a casa mia”, avrebbe ricordato nella maturità. Non era questa l’intera verità: la porta l’aveva spalancata lui con dedizione monacale. Persino mentre si radeva, ripassava le canzoni appuntate su foglietti attaccati allo specchio; avendo il solo diploma di terza elementare andò a lezioni private dal colto pubblicista Romualdo Marrone, studiò accanitamente la chitarra e acquistò le più eleganti collane dei classici letterari diventando lettore vorace. Prima di lui nel mondo della musica soltanto Enrico Caruso, di nascita ugualmente poverissima, aveva praticato con analoga tenacia la disciplina del riscatto. Col tempo, gli prese la mania di trascrivere con un pennarello indelebile le frasi dei libri che più lo colpivano sulle mattonelle delle stanze da bagno, che nella sua villa al corso Vittorio Emanuele erano addirittura sei, sempre a compensazione della miseria di Panecuocolo da cui s’era emancipato marciando dritto, malgrado l’osso offeso, e senza mai versare lacrime. Solo una volta a casa lo videro piangere, rammentò la figlia Bruna: fu per la morte di Totò, al quale il comunista Bruni si rivolgeva con l’appellativo di “principe”.
Nel paese diviso fra i Coppi e i Bartali, nella città che sempre s’appassiona ai rivali, fu inevitabile la contrapposizione di Bruni a un altro speciale cantore della tradizione: Roberto Murolo, agli antipodi non solo per lo stile “cittadino”, da fine dicitore d’impronta baritonale, ma anche per provenienza e formazione. Era cresciuto nell’agiatezza borghese, in un salotto frequentato dagli intellettuali sull’elegante collina del Vomero, spensierato rampollo del poeta Ernesto, che fu autore di famose canzoni e figlio naturale dell’indiscusso re delle scene Eduardo Scarpetta, fratellastro dunque dei tre De Filippo. (Bruni sarebbe morto solo tre mesi dopo Murolo, come per un entanglement durato fino alla fine).
Chiediamo a Raiz di chiarirci la dicotomia: “Murolo nacque intra moenia e addolcì la tradizione cui si riferiva porgendo il canto delicatamente, con dizione distaccata e comprensibile, più apprezzata dalla borghesia napoletana che cercava una lingua congeniale e considerava ‘volgare’ quella di Bruni, intrisa degli echi rurali che s’erano perduti con la raffinazione dello spartito e del conservatorio. Ma sono proprio quelli gli elementi che ne sanciscono la modernità”, spiega l’artista. “Bruni può essere paragonato ai cantori mediterranei. Che siano turchi, greci o nordafricani, nulla ha da invidiare ai maggiori esponenti della world music”. Perché, a vent’anni dalla morte, riproporne i brani emblematici? “Per mettermi alla prova e capire quanto fossi debitore a Bruni della sua lezione. Una volta terminato l’album, la risposta è stata che gli dovevo tanto. Con le mie sperimentazioni avevo seguito il suo tracciato anche quando non me ne rendevo conto. Conoscendo il suo tremendo carattere, se oggi mi trovassi al suo cospetto gli direi: ‘Caro maestro, sei la voce di Napoli, perciò i tuoi pezzi sono anche i miei e ormai appartengono a un patrimonio condiviso’. Niente di più bello, per un artista, che stemperarsi nella collettività”.
Si ll’ammore è ‘o ccuntrario d’’a morte, che dà il titolo al cd e al tour di Raiz, è un verso tratto dalla canzone forse più suggestiva di Bruni: Carmela, pubblicata nel 1976, perse subito ogni connotazione cronologica per collocarsi nella nube senza tempo dei classici napoletani, precedendo di poco l’uscita dell’album Terra mia del grande innovatore Pino Daniele, come se passato e futuro si condensassero nella vitalità della tradizione. Non è un caso che la donna cui è intitolato il brano celi sotto le spoglie di un nome antico l’autentico oggetto della dedica, ossia la città stessa. Che è “rosa, pietra e stella” e nella propria dignità nascosta “piange solo se nessuno sente”. L’ambientazione non è più l’idilliaco sfondo del mare o del Vesuvio, ma un vicolo scuro come quelli da cui Pino Daniele aveva cominciato a suonare. Fu il poeta Salvatore Palomba, che con Bruni firmò numerose canzoni, a comporre le parole di Carmela e adesso ancora ricorda e rimpiange la magia creativa del sodalizio: “Mi chiedeva se avessi qualcosa per lui e quando gli passavo una poesia s’infilava il foglietto in tasca rileggendolo ogni tanto”, racconta Palomba. “Guardava e riguardava le parole, cominciava a canticchiarle, poi mi richiamava dopo qualche giorno per farmi ascoltare il brano alla chitarra. Quasi sempre, ed era il suo vanto, musicava senza toccare una virgola del testo”.
Quando fu costretto, nell’ultimo scorcio della vita, a trasferirsi a Roma dalle figlie per problemi di salute che gli ottundevano di tanto in tanto la lucidità, gli amici napoletani dolcemente assecondavano i suoi inviti telefonici a prendere un caffè da lui, di lì a pochi minuti, nella splendida casa riempita di aforismi a pennarello di corso Vittorio Emanuele che non c’era più. Guglielmo/Sergio non sempre ricordava chi fosse Carmela o che l’avesse cantata, proprio mentre quel nome si faceva indimenticabile per tutti quanti gli altri.