Circo "Elvis". La stucchevole ma impeccabile via dei Baustelle fra rock e ambizioni intellettuali

Stefano Pistolini

Oggi non è discussione se i Baustelle siano “bravi” o significativi, ma è interessante capire cosa li abbia portati a imboccare una via così estetizzante, quale ragionamento li abbia convinti a tirare su un teatro coi suoi costumi, il suo copione e le sue battute a effetto

Sovraccarico, a tratti ridondante, carico di artifizi, “Elvis”, il nuovo album dei Baustelle, non è un ascolto facile. Presentato da Francesco Bianconi, come il lavoro della ripartenza, dopo una crisi che sembrava condurre alla dissoluzione della band, è un disco che suggerisce, man mano si procede nell’ascolto, la cura del suo allestimento ma anche l’assenza di naturalezza dell’operazione, l’evidente distribuzione dei dosaggi di genere, l’utilizzo di citazioni risonanti eppure non sempre indispensabili.

  

Le molteplici recensioni del nono lavoro di studio del trio di Montepulciano (adesso con un organico nuovo, allargato a una decina di membri) sostengono che in “Elvis” si tratti molto di anni Settanta, ma la connessione francamente non appare lampante, al di là di certi echi glam peraltro onnipresenti nel post-modernariato che ispira da sempre la scrittura di Bianconi. Qui, piuttosto, a tener corto il guinzaglio alla creatività dei Baustelle è la tensione tra l’appartenenza a uno smagliante passato aristocratico e un presente che pare scivolare antipaticamente sotto i loro piedi, come il nastro d’un tapis-roulant. E a noi “Elvis”, più che ai mostri sacri dei Seventies, fa pensare ai Baustelle della prima ora, quando questa cosa è stata originale ed elettrizzante perché dalle nostre parti non s’era mai sentito niente del genere. Baustelle e coolness divennero sinonimi irrinunciabili per i titolari della ditta, in un discorso esteso ai suoni, agli arrangiamenti, alle modalità vocali, all’insieme del loro mondo.

 

Prendiamo i testi, ad esempio, riguardo ai quali nel 2023 l’insistita, a volte irritante ricerca del versetto d’irriverente cronaca sessuale fa un effetto diverso da prima, perché ormai la provocazione è stata assimilata: tra ciò che diciamo, o poetiamo, e quel che davvero ci passa per la testa, sostiene Bianconi, c’è un abisso, una voragine colma di pensieri loschi e di perbenismi, gravida di voglie inconfessabili, una bolla ormonale che il pop non ha mai sdoganato. Si tratta di un illuminante, meritevole assunto storico di questo autore, che qui però riscopriamo a frugare ancora nello stesso torbido-normale, tra le pieghe dei pensieri cattolicamente peccaminosi che da sempre ha avuto l’aplomb di dissacrare – De André li sottintendeva, Bianconi li spia e ci si sofferma come un voyeur, prima d’imboccare un garrulo ritornello. Tutto ciò lascia un senso di staticità, di ripetizione e di riuso.

  

Ma alla fine queste vanno considerate come osservazioni di metodo, perché qui ci sono soprattutto dieci canzoni – suonate e cantate alla perfezione, con una particolare nota di ammirazione per le performance di Rachele Bastreghi – in un campionario a cui portare rispetto, perché scrittura ed esecuzione mantengono standard elevatissimi. Permane solo la sensazione che Bianconi sia rimasto sommerso dalle tante mediazioni tramite cui vive la propria dimensione artistica e che perciò, pressati nello stesso lavoro, ci siano il lui scrittore, il lui osservatore di costume, il lui eterno provinciale abbagliato dalle luci della metropoli e ovviamente il lui venuto su a pane e chitarra, in un angolo qualsiasi della penisola. E che il bisogno di comporre questa ridda di vocazioni abbia soffocato la spontaneità del risultato, dando al tutto un’aria progettata, controsenso della vocazione rock che il capobanda dice d’aver riscoperto.

 

Tutto ciò non fa comunque di “Elvis” un’opera sbagliata, che anzi è interessante ascoltare, cogliendo il malessere che la abita e la rende viva. E sarà del tutto personale il modo di adattarsi ai testi delle sue canzoni che, pur nel solco della scrittura di Bianconi, ne rappresentano una specie di versione aumentata, dominata dalle luci crepuscolari e dalla contemplazione di decadenze adulte, periferiche e irregolari, in una sequela di quadri di vite perdenti, brutte, ma non inaridite. 

  
Da queste osservazioni si potrebbe poi passare ad altre più generali, riguardo a come sia difficile oggi far convivere delle serie ambizioni intellettuali e una credibile rivisitazione dell’icona rock, cristallizzata ormai tra passatismi e ammiccamenti. Perché oggi non è discussione se i Baustelle siano “bravi” o significativi, o se le loro canzoni siano sufficientemente ruffiane per il consumo presente. Piuttosto è interessante capire cosa li abbia portati a imboccare una via così estetizzante, quale ragionamento li abbia convinti, Francesco in testa, a tirare su un teatro, anzi un tendone da circo come “Elvis”, coi suoi costumi, il suo copione e le sue battute a effetto. Cosa li abbia spinti a scegliere proprio questo come nuovo passo nell’incedere di una carriera luminosa, verso cui resta immutata la nostra stima, e con essa l’ammirazione e l’interesse.