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Il concerto

Una luce in fondo al tragico. L'emozione kolossal di Mahler alla Scala

Alberto Mattioli

Cori, solisti e orchestra: Riccardo Chailly dirige la Sinfonia dei Mille e per l'occasione debutta la nuova camera acustica. Sold out per le tre serate in programma

Il colpo d’occhio è impressionante: una muraglia umana satura il palcoscenico della Scala, affollato come la metro di Tokyo all’ora di punta. Diamo i numeri, allora. Davanti al podio di Riccardo Chailly sono in 364: 105 coristi della Scala, 72 della Fenice, 50 voci bianche, 129 orchestrali, otto solisti. A questo punto, chi mastica un po’ di musica “classica” ha già capito di che si tratta: l’Ottava di Mahler, detta “Sinfonia dei Mille” per gli organici smisurati che richiede, anche se poi alla fine gli esecutori mille non sono mai. Lo stesso Mahler, al debutto a Monaco nel 1910 davanti a un parterre de rois dove c’erano davvero tutti, compreso, chissà perché, Henry Ford, di musicisti ne ebbe “appena” 850. Sta di fatto che nel repertorio non esiste brano più kolossal quindi problematico, con la conseguenza che l’Ottava la si esegue sempre meno di quel che si dovrebbe o vorrebbe. Alla Scala, finora, soltanto due volte: nel 1962 con Hermann Scherchen e nel ’70 con Seiji Ozawa. “Io a sentire Ozawa c’ero – ricorda adesso Chailly –. In italiano sapeva dire soltanto “buongiorno” e “da capo”, questo sempre toccandosi la testa, anzi il capo: eppure fu un’esecuzione meravigliosa. Rivivo ancora l’emozione sconvolgente di ascoltare per la prima volta questo pezzo”.

 

Mahleriano di lungo corso e provata fede, Chailly la Sinfonia dei Mille l’ha diretta già sette volte, la prima proprio a Milano, nel 1986 ma non alla Scala, l’ultima a Lucerna nel 2014. Adesso tocca al Tempio, dove per l’occasione debutta la nuova camera acustica che permette di far stare in palcoscenico quel po’ po’ di organico e di migliorare l’acustica sempre bizzarra della sala: si conta molto sul legno di okumé che arriva dall’Africa occidentale, densità ideale, fono-riflettente e, facendo le corna, anche ignifugo come nessun altro albero. Ma, naturalmente, per “mettere su” una macchina del genere l’acustica è la condizione necessaria ma non sufficiente. Noialtri della kasta giornalistica siamo stati ammessi alla prova di ieri: orchestra in gran forma, cori idem ma con ancora da risolvere il problema della distanza dal podio, da lì all’ultima fila lassù in alto son trenta metri, quindi occorre anticipare gli attacchi, tipo Arena o buca abissale di Bayreuth; già a regime i bambini. Però dietro l’orchestra i solisti non si sentono abbastanza, quindi da stamattina si riprova con i cantanti accanto al direttore. Poi tre concerti, domani, venerdì e sabato, ma lasciate ogni speranza o voi che vorreste entrare perché sono sold out, e per forza, continuando con questi ritmi alla Scala l’Ottava si risentirà nel 2076, quindi guai perderla (però c’è la diretta su Rai Radiotre giovedì e sulla tivù del teatro sabato).

 

Chailly, lui, è evidentemente felice di dirigerla, e nel suo teatro: “E’ musica al limite dell’umano pensiero – dice – dove il rischio è quello dell’emozione viscerale, di un’ondata di suono che ti prende allo stomaco e ti fa perdere il controllo. E’ un brano che stordisce tutti, anche il direttore che invece il controllo deve mantenerlo sempre”. Poi, naturalmente, c’è la questione controversa del “messaggio” di questa sinfonia che è quasi un’opera o magari un oratorio, tutta cantata, il Veni Creator Spiritus nella prima parte e la scena finale del Faust di Goethe nella seconda. Nel radicale, tragico pessimismo di Mahler, un messaggio di speranza, anzi, preferisce Chailly, “una luce. Nessun’altra partitura di Mahler l’ha”. La critica, da sempre, è divisa. Lo stesso Mahler scrisse a Wilhelm Mengelberg che l’Ottava era “talmente singolare e nella forma e nel contenuto che non è possibile scriverne”, quindi ci fermiamo qui.