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musica

Addio al laureato. La metamorfosi di Paul Simon in “Seven Psalms”

Marco Ballestracci

Il nuovo disco del cantautore statunitense lo stacca definitivamente dal personaggio impacciato ed esitante di Dustin Hoffman. A ottantadue anni si è immerso nei versetti biblici, come prima di lui avevano fatto Nick Cave e Bob Dylan

Non credo che Paul Simon quando ha battezzato col nome che riteneva più ispirato il suo nuovo album, cinque anni dopo il precedente “In The Blue Light”, fosse a conoscenza che Nick Cave, giusto un anno fa, aveva già fatto uscire un piccolissimo lavoro (solo sette brevissime tracce di musica e recitazione, più un lungo strumentale) intitolato “Seven Psalms”. Non credo proprio. Non credo volesse trovarsi tra i piedi l’insidiosa pietra d’inciampo che molto di rado rotola malauguratamente sul cammino degli artisti più importanti: l’invito al confronto tra due opere. E’ uno dei comandamenti fondamentali di chi sta nel music business: evitare in tutti i modi di creare situazioni che inducano gli appassionati a considerazioni del tipo: “Toh, guarda: due album che hanno proprio lo stesso titolo e pubblicati da due grandissimi artisti. Beh, vista la pazzesca coincidenza, ascoltiamoli e confrontiamoli!”. No, è impossibile che sia incorso in una simile svista. Paul Simon è sulla breccia musicale dal 1966: è un fabbricatore di lungo corso di hit e non può ignorare codesta norma della Legge. Perciò c’è solo una spiegazione che riguarda l’omonimia degli album: Paul Simon non conosce bene, oppure non conosce affatto, l’opera di Nick Cave. Anche se appare strano, in questo non c’è proprio nulla di male. E’ impossibile essere al corrente e quindi ascoltare l’intera produzione musicale dei colleghi, si corre il rischio d’impazzire. D’altro canto i grandi artisti hanno il talento di conoscere chiaramente la direzione della propria arte. Si potrebbe dire che conoscono il loro cammino ex ante: anche se le influenze altrui potrebbero far scavalcare più velocemente degli ostacoli sulla strada, la rotta è ben definita sin dall’inizio del viaggio. 

 

Piuttosto ci sarebbe da chiedersi come mai il Libro dei Salmi abbia incrociato la sensibilità di Paul Simon (e, ovviamente, di Nick Cave) tanto da averlo indotto, dopo così tanto silenzio e dopo aver percorso le strade di molte musiche del mondo, a pubblicare “Seven Psalm”, concependolo non come una serie di canzoni, ma come una lunga invocazione senza soluzione di continuità: una sorta di recitativo cantato. La risposta a codesto quesito s’incontra scritta in qualsiasi commentario della Bibbia ed è perciò piuttosto facile da scovare: “La ricchezza dei Salmi non si lascia rinchiudere in poche frasi: la loro stessa composizione, che si ripartisce lungo tutta la storia di Israele, non lo permetterebbe. Ma è questo che denota la loro ricchezza, la loro forza espressiva, la loro capacità di interpretare le situazioni attuali. I Salmi contengono una carica meravigliosa di teologia vissuta, di unzione spirituale: sono la preghiera dei poveri di Jahvé, di coloro che confidano in un Dio conosciuto come buono e fedele”. Ciò che c’è da comprendere del Libro dei Salmi sta davvero in questo commentario. Tuttavia non c’è dubbio che molti appassionati di Paul Simon si siano quantomeno stupiti all’inizio di “Seven Psalms” quando l’hanno sentito cantare: “Il Signore è il mio ingegnere / Il Signore è la terra su cui corro / Il Signore è il volto dell’atmosfera”. E’ anche possibile che si siano strofinati le orecchie dall’incredulità, perché, lo sanno tutti, è assai difficile sfuggire a ciò che canta un famoso cantautore italiano in una altrettanto famosa canzone di cinquant’anni fa, ma che, come i Salmi, continua a risuonare: “Ma nella fantasia ho l’immagine sua: gli eroi son tutti giovani e belli”. 

 

In fondo per tutti Paul Simon continua a essere l’alter ego di Dustin Hoffman ne “Il laureato”: ha la stessa corporatura e la medesima espressione impacciata. Tuttavia, nonostante la sua aria esitante, Dustin Hoffman, o meglio Benjamin Braddock, è riuscito in solo film a sedurre la madre (Mrs. Robinson) e la figlia (Elaine Robinson) e poi, alla fine della pellicola, persino a brandire minacciosamente un crocefisso per consentire la sua fuga insieme a Elaine dalla chiesa in cui la ragazza era appena convolata a nozze con un altro uomo. Un bel coacervo di prurigine in appena centocinque minuti d’un film uscito negli Stati Uniti nel 1967: un’autentica bomba culturale per l’America del tempo e ben oltre il limite dello scandalo. La musica di Paul Simon pervadeva talmente “Il laureato” che era impossibile separarla dal film e la canzone “Mrs. Robinson” era l’emblema di tanta sfacciataggine e irrequietezza. “Mrs. Robinson / Nascondilo in un posto dove non cerca nessuno / Nascondilo in dispensa con le torte / E’ un piccolo segreto, una questioncina della famiglia Robinson / Soprattutto devi nasconderlo ai bambini / Ma, Mrs. Robinson / Gesù ti ama più di quanto tu credi”. Non è dato sapere cosa Mrs. Robinson dovesse nascondere, ma il film lasciava intendere che si trattasse di qualcosa di senza dubbio sconveniente: da non svelare mai. Insomma, alla fine Paul Simon e la sua musica erano strettamente legati a questa sorta di “Buio oltre la siepe” ambientato tra i ricchi protestanti bianchi californiani. Agli occhi degli appassionati la sua musica trasfigurava sempre lo sguardo concupiscente di Anne Bancroft (Mrs. Robinson) e quello colmo d’odio di William Daniels (il signor Robinson). Un indelebile taglio artistico nonostante Paul Simon avesse successivamente partorito canzoni come “Heart And Bones” o “René and Georgette Magritte” e album senza dubbio grandi come “Graceland” e “The Rhythm Of The Saints” che andavano musicalmente dal Sud degli Stati Uniti sino all’Africa, rendendolo uno dei primi viaggiatori di mondi musicali ancora poco conosciuti.

 

Perciò è molto comprensibile il motivo per cui tanti fan si ritrovino straniti nell’ascoltarlo mentre racconta di come l’idea di incidere “Seven Psalms” gli sia venuta di notte, mentre dormiva, piuttosto che a bordo d’una decappottabile. Che è stata frutto d’un sogno. “Così, in qualche modo per rispettare e per mantenere l’ispirazione che mi è arrivata nel cuore della notte, mi son svegliato molte volte tra le tre e le cinque e mezza del mattino per lavorare sui testi delle canzoni. Ho continuato così finché non li ho ultimati. In questo modo ho cercato di mantenere tutto il grande raccoglimento che c’è nell’aria prima che il sole sorga”. Per i medesimi motivi è altrettanto giustificabile l’espressione stupefatta di chi, durante l’ascolto di “Seven Psalms”, ha sentito ripetere tre o quattro volte, come se fosse un mantra (oppure un gospel): “Il Signore è una foresta vergine / Il Signore è il guardiano della foresta / Il Signore è il cibo dei più poveri tra i poveri / Il benvenuto per lo straniero”. Si tratta della medesima e sorprendentissima scossa elettrica che aveva percorso il sistema nervoso degli irriducibili fan di Bob Dylan quando, alla fine dell’estate del 1979, ascoltarono “Gotta Serve Somebody” (la prima canzone dell’album “Slow Train Coming”) in cui cantava, preciso preciso: “Puoi essere l’ambasciatore d’Inghilterra o Francia / Ti può piacere giocare d’azzardo oppure ballare / Puoi essere il campione del mondo dei pesi massimi / Puoi essere una donna ricca con una lunga collana di perle / Ma devi servire qualcuno / Può essere il Diavolo o il Signore / Ma devi servire qualcuno”. L’artista intendeva, il proseguimento dell’album non lasciava alcun dubbio in proposito, che era necessario servire il Signore. Si racconta che l’ascolto di “Slow Train Coming” produsse crisi di nervi, mancamenti e pure incendi di intere collezioni di dischi di Bob Dylan da parte di fan che si sentirono vergognosamente raggirati e traditi dal musicista che fino ad allora avevano considerato un vate. Tuttavia la cosa curiosa è che, alla fine, il testo di “Gotta Serve Somebody” non era altro che l’interpretazione dylaniana del primissimo frammento del Libro dei Salmi: “Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi. Non va per la via dei peccatori e non siede in compagnia dei beffardi. Invece si compiace nella legge del Signore e la medita giorno e notte”. 

 

Anche se, nonostante le similitudini, c’è una poderosa differenza tra l’appello al Libro dei Salmi scaturito nelle canzoni di Bob Dylan, di Nick Cave e di Paul Simon. Ciascuno di loro è giunto a confrontarsi con quei versetti a un’età differente. Bob Dylan nel 1979, quando uscì “Slow Train Coming”, aveva poco meno di quarant’anni, Nick Cave lo scorso anno (“Seven Psalms” è uscito nel 2022) ha compiuto 65 anni, invece Paul Simon, l’eterno alter ego di Dustin Hoffman ne “Il laureato”, il prossimo 13 ottobre giungerà al ragguardevole traguardo degli 82 anni. E’ evidente che diverse considerazioni possono scaturire da realtà anagrafiche tanto differenti, tuttavia, per ciò che concerne Paul Simon le conclusioni dei giornalisti specializzati paiono essere univoche. “E’ la testimonianza (tuttavia testament significa anche testamento) di quanto possa essere profondo e impegnato un’artista così maturo. ‘Seven Psalms’ è un album differente da tutti gli altri album di Paul Simon da qualsiasi punto di vista lo si voglia esaminare”. Oppure: “A un primo ascolto l’album sembra una meditazione sulla mortalità e sulla spiritualità, invece poi si rivela un momento di grazia e di introspezione che fa comprendere come questo progetto conduca a qualcosa di molto vicino al sollievo”. Perciò si potrebbe desumere che, al termine d’una lunghissima carriera musicale, grazie a un libro scritto in ebraico, le cui origini sono perdute nella notte dei tempi e che è formato da 150 frammenti scritti in versi, Paul Simon sia finalmente riuscito a liberarsi dalla rappresentazione dustinhoffmaniana che l’avvinghiava e pure dal mito, diciamolo, piuttosto stantio che gli eroi sono sempre giovani e belli. Così a 82 anni appare libero dalla musica che aveva scritto per accompagnare Benjamin Braddock nelle corse a bordo della sua Alfa Duetto lungo le panoramicissime strade californiane a metà degli anni Sessanta.

 

E’ l’evidenza di un’impresa tanto titanica che fa presumere che, al di là di tutte le opinioni che ciascuno può coltivare a proposito delle Sacre Scritture, il Libro dei Salmi possegga dei particolari poteri d’ispirazione artistica. Perché se davvero gli appassionati, vista l’omonimia nei titoli degli album di Paul Simon e di Nick Cave, decidessero di confrontarli, non riuscirebbero sino alla proverbiale Fine dei Tempi ad arrivare a un giudizio definitivo: perché l’intensità spirituale dei due “Seven Psalms”, nonostante la grande diversità stilistica, è straordinaria. Così par di sentire risuonare alla fine degli ascolti un nuovo commentario dedicato a questo libro infilato tra il Libro di Giobbe e quello dei Proverbi: “Il valore dei Salmi è perenne. Hanno alimentato tre millenni di orazioni e la loro forza non si è mai spenta. Al contrario, il loro uso ne rinnova il vigore”. Oppure, se ci si vuol allontanare dagli un poco scomodi riferimenti religiosi e osservare molto laicamente i Sette Salmi di Nick Cave e di Paul Simon, potrebbe tornare utile un altro libro. Curiosamente, in apparenza, l’aura religiosa rimarrebbe perché il titolo dell’esile volume è uno dei motti in prima pagina dell’Osservatore romano, tuttavia “Unicuique Suum” è sopra ogni altra cosa “A ciascuno il suo” di Leonardo Sciascia. Ed è giusto che le cose stiano esattamente in questo modo: a ciascuno i propri sette splendidi salmi.

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