Flashback Righeira. Una canzone e il magnifico formicolare dei primi anni 80. Un saggio
“Vamos a la playa” fece del duo un fenomeno istantaneo. Con “Oh, Oh, Oh, Oh, Oh” (Nottetempo), il giornalista e dj Fabio De Luca ci proietta nell’Italia all’imbocco di un decennio spesso frainteso, del quale siamo figli legittimi e prodotti
Fabio De Luca, ottimo giornalista e dj, ha scritto un libro che veicola un’ambizione seducente: andare in cerca, nel suo/nostro passato, dei motivi, dei motori e dello svolgimento di una minuscola infatuazione, che contiene però il senso e la formazione di un’intera cultura. Il nesso, dunque, è soltanto una canzone del 1983, popolarissima allora e anche adesso, la famigerata “Vamos a la playa” che fece dei Righeira un fenomeno istantaneo che si è poi protratto nel tempo arrivando fino a oggi, costituendo una sorta di genere a sé.
Il saggio si chiama “Oh, Oh, Oh, Oh, Oh” (Nottetempo), come recitava il ritornello del pezzo – e al titolo già assegniamo il relativo premio annuale al valore. Il suo lungo flashback ci proietta esattamente quarant’anni indietro, nell’Italia all’imbocco di un decennio, gli Ottanta, che sarebbe stato ampiamente frainteso, banalizzato, perfino falsificato. De Luca racconta, a beneficio di chi c’era e ha dimenticato e di chi non c’era e vuol sapere, la temperie del momento, l’aria che tirava, le cose che si facevano, i pensieri vaganti, i costumi vigenti e quelli montanti. Un lodevole sforzo che rappresenta, oltre che una piacevole e ironica lettura, una preziosa occasione per paragonare le nostre relative sensazioni a quelle dell’autore e quindi contribuire a costruire – senza uno scopo preciso, ma per il gusto di mettere in ordine le ricostruzioni e stabilizzare delle sensazioni – un quadro largo e profondo di cosa sia stata un’epoca, della quale siamo figli legittimi e prodotti.
De Luca è provvisto di uno strumento investigativo indispensabile per trasformare un’operazione come “Oh, Oh, Oh, Oh, Oh” in un realistico oggetto culturale: vive fino in fondo il culto dell’istante, ovvero prova un percepibile piacere, perfino un desiderio, nel ricostruire con la massima esattezza possibile, nel provare ad assaporare, nel rendere visibile ed esplorabile un momento magico. Ad esempio, il giorno in cui Stefano Righi (Johnson Righeira) e Stefano Rota (Michael Righeira) creano la connessione (Michael stava sfogliando una copia di “Uomo Vogue” a scuola e la cosa impressionò Johnson), o quando nella testa del giovane inconsapevole situazionista Johnson si fece strada il germe creativo di “Vamos a la playa”, con tutto quello che avrebbe comportato. Cogliere il bliss, la congiunzione silenziosa, l’allineamento di circostanze e figure, nello spazio e nel tempo. E poi arricchire il quadro con tutti i corredi necessari, curando minuziosamente il particolare, i rumori d’epoca, i colori di moda, il design delle auto e naturalmente il corrente flusso musicale che dava un suono a tutto ciò – lo stesso suono su cui l’imberbe Righeira sentiva voglia d’intervenire, picchiando giù sul tavolo il suo Settebello. Pagina per pagina, l’autore dell’indagine si aggira con massimo godimento tra una moltitudine di fantasmi un po’ qualsiasi, i proprietari dei negozi nella strada dove Righi è venuto su, il padrone della prima radio che gli ha offerto un microfono, i professori e i vicini di casa del Righi, quella strana canicola torinese, i viali infiniti, la dignità operaia.
La fortuna e l’intelligenza di questo lavoro sta nell’aver scelto un soggetto disponile e abbordabile, e al tempo stesso distaccato e un filo sospettoso. Nel senso che Johnson accondiscende magnanimamente al maniacale lavoro archeologico architettato dallo studioso, ma ne intuisce la doppia finalità: certo, De Luca è affezionato al celebre motivetto e di sicuro lo colloca tra i prediletti da cui non separarsi mai, però alla fine ciò di cui va in cerca è altro, quel qualcosa per cui si decide a scrivere un libro e condividerlo: è il come eravamo, ovviamente, com’era quell’Italia, quella città del nordest, come bolliva e oscillava vorticosamente la società culturale giovanile appena un centimetro sotto l’ufficialità, dove si covavano i progetti buoni e il nuovo che avanza, che presto avrebbe richiamato l’attenzione di una generazione e fatto battere i cuoricini, eccitando i creativi, i programmatici e gli improvvisati. E il bello di questo saggio è che leggendolo tutto ciò arriva chiaramente, si vede e si sente, risveglia e ricorda, cataloga e ordina, suscitando imprevedibili effetti-domino. Davvero nell’estate dell’83 sottotraccia c’era questo magnifico formicolare, davvero si era così analogicamente elettrici, pronti alla mossa, attenti ai segnali? Quanta roba circolava, quante idee s’intersecavano, quanti storie arrivavano al cortocircuito, prima che internet fosse un’ipotesi e che gli smartphone ci appesantissero le tasche? Che ritmo, che energia, che attenzione, quanta passione vibrava, con una sana declinazione degli stili e dopo le precedenti scalmane, quando ci si era proiettati a fare chissà che. Come sarebbe poi finita è qua attorno a noi, sia la paglia, che il fieno. E ciascuno può procedere alle personali conclusioni, secondo la propria metrica. Sapendo che un contributo letterario come questo, umile, certosino, estetico, vi sarà utile e carissimo.