La tournèe
Chi vuol essere Bob Dylan
In attesa dei concerti in Italia, c’è una lunga fila per entrare nella testa del Menestrello. Che ancora riserva sorprese
Un bel po’ di anni fa, quasi un quarto di secolo, uscì un film piuttosto particolare, al limite del realismo magico. Si chiamava “Essere John Malkovich” e nella storia accadeva che, attraverso un passaggio segreto, alcune persone entravano nella testa del famoso attore e s’immedesimavano nel suo modo di pensare e d’agire. Se anche per i musicisti più celebrati esistesse codesto passaggio segreto e fosse accessibile, non ci sarebbe alcun dubbio: il cunicolo con la maggior coda all’entrata, persino più lunga della colonna il venerdì sera alla barriera di Milano Est, sarebbe quello che conduce in profondità nell’intelletto di Bob Dylan.
In Italia, oggi più che mai, ci sarebbe un gran spingi-spingi perché l’artista fra pochi giorni, tra il 3 e il 9 luglio, si esibirà in cinque concerti (Milano due volte, Lucca, Perugia, Roma), e così ognuno si accalcherebbe all’ingresso del passaggio segreto per cercare di trovare una risposta a delle domande tenute in serbo per così tanto tempo. Le più gettonate sono molto ben conosciute: “Signor Dylan, per piacere, ci direbbe una volta per tutte chi è realmente il Mister Jones di cui si parla in ‘Ballad Of A Thin Man’?”, oppure: “Ma l’incidente motociclistico del 1965 è vero oppure era un’invenzione per poter sparire per un po’ di tempo dalla calca molesta dei fan?”. Finalmente, una volta entrati nella testa di Dylan, queste domande avrebbero una definitiva risposta e tante persone smetterebbero di struggersi. Certo, molti passanti osserverebbero la calca all’ingresso del cunicolo e sghignazzerebbero: “Siete così accalcati per conoscere le risposte a delle domande su questioni vecchie del 1965?” (“Ballad Of A Thin Man” è contenuta nel leggendario “Highway 61 Revisited”, uscito appunto nel 1965). “Ma davvero credete che la testa di Dylan sia ancora ferma a 58 anni fa?”. Purtroppo per gli osservatori casuali, perciò un tantino superficiali, è la semplice evidenza che testimonia la vacuità della domanda. Certo, la testa di Dylan è sempre ancorata al 1965, ma si trova perfettamente a suo agio anche nel 2023. La testimonianza decisiva viene dall’album che dovrebbe fornire una buona parte delle canzoni dei concerti dell’imminentissimo tour italiano (il condizionale è d’obbligo, “Cristo santo, avevamo preparato la tournée per un mese, provando un certo numero di canzoni. Ma al primo concerto Dylan non attacca un pezzo che non avevamo mai provato?”, cit. Tom Petty). Il disco è appena uscito, s’intitola “Shadow Kingdom” e contiene, per esempio, il rifacimento di ben tre canzoni di “Highway 61 Revisited”, riproposte con una classe infinita che costringono tutti, anche nel 2023, cinquantotto anni dopo l’uscita, all’ennesimo omaggio a Sua Maestà. Ma anche altri vecchi brani come “Forever Young” (1974) e “It’s All Over Now, Baby Blue” (1965) sono reinterpretati in “Shadow Kingdom” e, dopo così tanto tempo, suonano come se fossero le precisissime figlie di questi tempi.
“Lascia quello che hai fatto alle spalle / C’è qualcosa che ti chiama / Dimentica i tuoi morti / Non ti accompagneranno / Il vagabondo che bussa alla tua porta / Indossa i panni che portavi tu / Forza, accendi una luce nuova / Perché adesso qui tutto è finito, Ragazza triste”.
Perché Dylan, per motivi che hanno probabilmente a che fare col soprannaturale, è diverso da tutti gli artisti di cui, di tanto in tanto, parliamo in queste pagine. Dylan non ha bisogno delle indispensabili lunghe pause di riflessione per produrre album che siano alla sua altezza, come Tom Waits o Paul Simon per esempio, e neppure, producendo ellepì con una certa frequenza, rischia di incappare in piuttosto evidenti passi falsi, come, inutile negarlo, è accaduto a Bruce Springsteen. Così pure, come si diceva, se decide di reincidere canzoni come “Just Like Tom Thumb’s Blues”, che fecero impazzire i giovinastri di quasi tre generazioni fa, i brani si riascoltano col medesimo gusto e con lo stesso apprezzamento intervenuti allora. Forse persino, che Dio mi perdoni, con ancor più gusto e apprezzamento, visto e considerato che la serie degli album che propongono versioni alternative delle canzoni contenute negli album ufficiali (“The Bootleg Series”, arrivate recentemente al diciassettesimo volume) sono spessissimo a tutti gli effetti dei capolavori.
Credo che ciò accada perché, come Obelix da bambino è caduto nel vascone della pozione magica, Bob Dylan è finito, nessuno ne conosce la ragione precisa ed è questo il motivo per cui in così tanti s’accalcano nel cunicolo segreto per “Essere Bob Dylan”, dentro alla sorgente cristallina dell’eterna ispirazione. Ciò era già chiarissimo a metà degli anni Sessanta. “La prima volta che ho ascoltato alla radio ‘Positively 4th Street’, era il 1965 o forse il 1966, sono caduta dalla sedia. Di colpo mi sono resa conto che la canzone americana non solo era cresciuta, ma era diventata altissima. Prima non me n’ero mai resa conto. Così ho pensato che fosse diventato legittimo scrivere testi che trattassero temi che avevano a che fare la letteratura e che questo conducesse ad aprire tantissime nuove strade alla musica americana. Prima di Dylan le canzoni erano limitate a cose del tipo: ‘Baby sono pazzo di te!’, poi è cambiato tutto”. Così Joni Mitchell ha risposto a Bill Flanagan in merito alla fatidica domanda: “Cos’ha rappresentato Bob Dylan per te?”.
Ma c’è soprattutto una questione alla quale, una volta saltati fuori dall’altra parte del cunicolo e finiti nella testa di Bob Dylan, è necessario trovare una risposta: “Ma perché signor Dylan, a ottantadue anni, lei continua a suonare, dopo più di sessant’anni di carriera e quaranta album incisi? Perché continuare a imbarcarsi in tournée faticosissime che, tra l’altro, continuano senza interruzioni da così tanto tempo?”. In realtà questa domanda gli era stata posta molto tempo fa, quando già appariva urgente, per motivi anagrafici, una certa riduzione dell’attività concertistica.
“Credo di suonare dal 1960. Forse anche prima. Certamente almeno un anno prima di arrivare a New York, nel Greenwich Village. Perciò posso dire che suono le mie canzoni da più di cinquant’anni (che adesso sono più di sessanta). E’ la mia professione. Io suono. Se fossi un carpentiere e mi piacesse fare quel lavoro, continuerei a costruire case. Invece sono un musicista e quindi suono e suonerò finché sarà possibile”. Certo, ci si attenderebbe una risposta un po’ più complessa da parte di un Premio Nobel per la letteratura “per aver creato una nuova espressione poetica nell’ambito della grande tradizione americana”, qualcosa di filosoficamente legato all’arte della musica. Invece: “Continuo a suonare perché è il mio lavoro”. Piuttosto lontanuccio dai desideri e dalle attese di chi pazienta in colonna aspettando il suo turno per “Essere Bob Dylan”. Così le cinque date italiane sono una nuova occasione per ammirare un artista unico, ma non per rimbalzare i modi di dire che vengono di solito strombazzati dalle agenzie e dai promoter. Davvero Bob Dylan è unico. E’ un uomo che, facendo finta di niente, porta da quasi sessant’anni sulle spalle la responsabilità d’aver scritto e inciso la principale canzone – prendendo di nuovo a prestito Joni Mitchell – che “in musica, trattava argomenti che avevano a che fare con la letteratura”: “Like A Rolling Stone”, che fino al 2021 è stata considerata dalla rivista americana Rolling Stone (secondo la tradizione il nome del giornale non deriva dalla canzone di Dylan, bensì dal brano “Rolling Stone” di Muddy Waters) la canzone più importante di tutti i tempi. Dylan ha sempre portato con nonchalance codesta responsabilità e sono sicuro che non gli sia importato un accidente se dal 2021 è stata scalzata al quarto posto della medesima graduatoria. Mi pare di sentirlo dire: “Beh io faccio il musicista. Suono in giro per il mondo. Mica ho il tempo di guardare le classifiche di Rolling Stone”. Tuttavia, da grande appassionato di musica nera quale sono, mi prendo la gravosa responsabilità di affermare che provoca un certo imbarazzo vedere “Like a Rolling Stone” scavalcata da – in ordine dal primo al terzo posto – “Respect” di Aretha Franklin, “Fight The Power” dei Public Enemy e “A Change Is Gonna Come” di Sam Cooke. Certo, ora come allora la lotta per i diritti degli afroamericani è legittimissima, da condividere in ogni suo aspetto, tuttavia sarebbe meglio non assecondare a ogni costo codesti princìpi e così precipitare nel ridicolo musicale.
Perciò tentare di “Essere Bob Dylan” potrebbe rivelarsi un’inarrestabile orbita nel pozzo senza fondo dell’ispirazione artistica, una specie di vortice in cui si incappa nel libro dei Salmi, nell’Apocalisse, in Arthur Rimbaud e in William Blake. Al contrario, però, potrebbe rivelarsi un ingresso nella mente semplice d’un uomo che ammette candidamente: “Se non ci fosse la musica francamente non saprei che altro lavoro fare”. Quindi per evitare spiacevoli sorprese molto meglio rinunciare all’idea d’accalcarsi all’ingresso del passaggio che attraversa da una parte all’altra la mente di Bob Dylan. Piuttosto è preferibile approfittare d’una delle cinque date italiane del “Rough and Rowdy Ways World Wide Tour” e apprezzare tutta l’immutata riservatezza dylaniana sul palco. Tuttavia se qualcuno non potesse resistere al prurito di porgli la fatidica domanda: “Signor Dylan, per piacere, ci direbbe una volta per tutte chi è realmente il Mister Jones di cui parla in ‘Ballad Of A Thin Man’?”, è possibile arginare la prurigine.
“Un giorno m’hanno raccontato che, di punto in bianco, un giornalista di Time che si chiamava Jones aveva cominciato a dire in giro che era stato la fonte d’ispirazione per ‘Ballad Of A Thin Man’. Anche se lo fosse stato, non credo ci fosse granché motivo di vantarsi. Non è che Mister Jones sia stato trattato in modo molto benevolo nella canzone. In realtà in quel momento c’erano tantissimi Mister Jones che incontravo ogni giorno e tutti insieme andavano a formare il signore del brano, perché solo l’influenza di tante persone che fanno una certa cosa rappresentano per me un importante stimolo creativo. Perciò non si trattava di una sola persona. Era più una cosa del genere ‘Ecco qua il millesimo signor Jones’, ma nella mia testa ero assolutamente convinto che ce ne fossero ancora altri da raccogliere lungo la strada. Tutti che senza alcuna distinzione si specchiavano in quella canzone e ammiravano la propria immagine riflessa in un disco che girava a trentatré giri”.