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L'intervento

Possiamo goderci una grande Bohème anche senza la neve di Zeffirelli

Federico Freni

L’opera si può fare dove si vuole, si può ambientare al mare, in montagna, in città, sulla luna e, perché no, anche nel ’68. Ma per apprezzarla dobbiamo essere in grado di andare oltre la scena e valutare la rappresentazione per ciò che l’autore intendeva comunicare

In uno dei molti tentativi che misi in opera per conquistare mia moglie, ricordo che la portai a sentire una Bohème che si rappresentava allora con la sempiterna regia di Zeffirelli (si, quella con la neve, la stessa del video con Karajan, anno Domini 1965): ricordo il suo felice stupore all’apertura del secondo atto, con la scena del caffè Momus; lo stesso stupore l’ho letto, giusto qualche mese fa, nel viso delle mie figlie difronte alla scena allestita per i Pagliacci (sempre Zeffirelli) qui a Roma. L’immagine, la scena, i colori: così centrali da determinare il successo o l’insuccesso di una rappresentazione. A Parigi ricordo però un Don Carlos con una regia distopica fastidiosissima (fu buato, alla prima, addirittura il fermo immagine proiettato sul sipario nell’intervallo…) ma musicalmente affascinante, o una Bohème (ahi, ancora lei) con la regia di Claus Guth ambientata addirittura sulla Luna (l’allestimento è del 2017, ma torna ciclicamente in cartellone). O ancora, lo storico e dirompente Don Giovanni in pedana di Peter Brook ad Aix-en-Provence con Claudio Abbado: una pietra miliare di ogni interpretazione recente di quell’opera, ma certo non una scena tradizionale. E il catalogo potrebbe continuare, credo, all’infinito o quasi. Ma la domanda al fondo di tutto è una sola: siamo capaci di andare oltre la scena? Siamo (ancora) capaci di valutare la rappresentazione per ciò che l’autore intendeva comunicare a prescindere dall’epoca in cui il dramma è incidentalmente ambientato?

Insomma, per dirla tutta, l’opera si può fare dove si vuole, si può ambientare al mare, in montagna, in città, sulla luna e, perché no, anche nel ’68. Basta chiedersi (a condizione, ovviamente, di conoscere la risposta) cosa volesse dirci davvero l’autore. Vogliamo parlare di un amore impossibile osteggiato dal potere, dalla razza e dalla famiglia? Benissimo! Ma siamo sicuri serva per forza l’Egitto dei faraoni, con annessi e connessi? Siamo poi così sicuri che il dramma dell’incomunicabilità abbia il suo alveo necessario (solo) nella soffocante corte di Filippo II? O, ancora, che l’amore tra due (quattro, per esser precisi) giovani squattrinati sia nato e morto nella sola Parigi di metà 800? Personalmente mi turba molto di più una esecuzione mediocre che una regia non convenzionale o ambientata sulla luna (come pure, incidentalmente, mi turba che si possa valutare la capacità di un musicista alla luce delle sue frequentazioni politiche: dirige male? A casa. Vota Tizio o Caio? Saranno ben affari suoi…).

Perché poi, in ultima analisi, (ed è il vero senso, il più profondo, del teatro d’opera) non si amava, non ci si lasciava, non si soffriva a Parigi nell’ottocento come anche nel ’68 e come pure, chissà, sulla Luna?

 

Federico Freni è sottosegretario al ministero dell’Economia e delle Finanze

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