Dieci anni senza Lou Reed, dandy rumoroso
Il trasgressivo del rock. Oggi lo imitano, una volta faceva scappare il pubblico. Come nel 2002 a Venezia
Fa indubbiamente piacere che, col passare del tempo, nelle stanze d’avorio della “cultura alta” si sentano citare nomi che fino a un po’ di anni fa era francamente impossibile immaginare potessero essere pronunciati. Credo che ciò accada perché molti devono essersi resi conto che è impossibile frenare con le mani, nonostante i numerosi tentativi, l’inondazione d’un genere musicale come il rock ’n’ roll che, attraverso le sue mutazioni genetiche, è diventato parte integrante del pavimento pelvico di ciò che chiamiamo “musica contemporanea”. Perciò non può che dare soddisfazione, per esempio, sentir citare sovente Lou Reed lungo il palinsesto giornaliero di Radio 3. Ciò avviene perché nel 2023 ricorrono i dieci anni dalla morte dell’artista e questi dieci anni di assenza sono serviti a far comprendere appieno che la sua musica, è anacronistico negarlo, ha sonoramente contaminato gran parte di tutto ciò che, volenti o nolenti, oggi stiamo ascoltando e, considerato che la musica è sempre più legata a un certo apparato visuale, che stiamo vedendo.
Mi auguro davvero che Achille Lauro e i Maneskin non si considerino esploratori dell’ignoto. Dal ’74 sono passati 45 anni
Se, per esempio, coloro che hanno provato un senso di sconcerto osservando l’esibizione di Achille Lauro al Festival di Sanremo 2019 o i supposti scandalosi live-act dei Maneskin avessero ascoltato uno dei due primi dischi dei Velvet Underground, la band di cui Lou Reed era l’anima indiscussa, oppure si fossero accostati a un video dei suoi concerti del ’74, beh, invece di sconcertarsi avrebbero sorriso con un certo allegro compatimento. “Certo, a questi ragazzotti piace fare i rivoluzionari dell’immagine, ma sono proprio uguali a Lou Reed quando saliva sul palco nel 1974 durante la tournée di ‘Rock ’n’ Roll Animal’. Anzi, Lou Reed allora era molto più provocatorio. Spero proprio che Achille Lauro e i Maneskin si siano accorti che dal 1974 sono passati 45 anni e mi auguro davvero che non si considerino degli esploratori dell’ignoto”.
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Soprattutto poi, nel 1974 (per la precisione nel 1972, perché allora uscì “Transformer”), pochi avrebbero avuto il coraggio di cantare: “Holly è arrivata da Miami, Florida. Ha attraversato gli Stati Uniti in autostop. Si è fatta le sopracciglia lungo la strada. Si è depilata le gambe, così ora lui è diventato una lei, perciò adesso dice: ‘Ehi piccolo, fatti un giro sul lato selvaggio. Dai piccolo, fatti un giro sul lato selvaggio’”. Per tacere delle altre strofe di “Walk On The Wild Side”, che sono ancora più esplicite e che descrivono con dovizia certi luoghi, certe situazioni e attitudini di New York City. Sono cose che oggi è ancora piuttosto difficile raccontare, anche per i rapper più sfrontati. D’altro canto per farlo, ora come allora, come dice la canzone, “ci vuole un fisico bestiale” e Lewis Allan “Lou” Reed quel fisico l’ha posseduto molto presto. La prova della sua precocità artistica è persino fiammeggiante. Scrisse l’emblematica “Heroin” già nel 1964 e, contrariamente ai Beatles in “Lucy In The Sky With Diamonds” (del 1967 e col titolo che è un acronimo di Lsd) non parlò di “alberi di mandarini e cieli di marmellata” o “ragazze dagli occhi caleidoscopici”. Niente affatto.
Lou Reed non concesse nessuna dolce metafora: andò diritto al punto. Così diritto che, francamente, è un grattacapo riportare qui le strofe della canzone, perché per alcuni le similitudini potrebbero inoltrarsi nel realismo troppo esplicito, anche se, di fatto, proprio questa era la realtà. Tuttavia vale ancora una volta la pena sottolineare che quel brano esisteva, con tutta la sua ferocissima concretezza, nel 1964, quando, per dire, i Rolling Stones incidevano nei loro dischi le proprie riproposizioni dei brani di Muddy Waters, Chuck Berry e Solomon Burke. Allora Lou Reed aveva solo ventidue anni, conosceva molti lati oscuri della vita e non aveva alcun timore a raccontarli nelle canzoni.
L’accordo con il proprietario del locale di non suonare “The Black Angel Death Song”. Fu la prima canzone del concerto
“C’era chi aveva già ascoltato ‘The Black Angel Death Song’ (uno dei brani del primo album dei Velvet Underground, il leggendario “The Velvet Underground and Nico”) e s’era sparsa la voce che era una specie di canzone di Bob Dylan, ma con un testo abbastanza blasfemo e con l’accompagnamento della viola di John Cale che la rendeva ancora più lancinante. Così quando ci mettemmo d’accordo per un concerto al Greenwich Village il proprietario del locale disse: ‘Certo, non c’è problema, basta che non suonate quella canzone maledetta: quella della morte di Lucifero. Non voglio roba diabolica qui dentro’. Noi gli abbiamo risposto di stare tranquillo, che di certo non l’avremmo fatta. Poi abbiamo montato gli strumenti e abbiamo iniziato il concerto proprio con ‘The Black Angel Death Song’. Il tipo s’è incazzato come una biscia, ha tirato giù la leva della corrente e c’ha buttato fuori dal bar che non avevamo ancora finito di suonare la canzone che, appunto, era la prima della serata. Credo sia stato il concerto più veloce della storia”.
Un simile progetto e una tale sfrontatezza non potevano che attirare l’attenzione di Andy Warhol che, pur con i diffusi storcimenti di naso a proposito del suo linguaggio artistico, non si può affatto considerare un inesperto nell’arte della provocazione. D’altro canto la copertina warholiana (cioè composta da lui medesimo) di “The Velvet Underground and Nico” – la famosa banana gialla in campo bianco – è una delle copertine più celebri e identificative della lunghissima storia del rock ’n’ roll. Talmente identificativa che non si può fare a meno di focalizzare quell’immagine quando s’ascoltano pezzi celeberrimi come “Heroin”, “I’m Waiting For My Man” o “Sunday Morning” e magari canzoni come “Sweet Jane” che non appartengono affatto all’album della banana, tanto la musica dei Velvet Underground e quel frutto giallo sono avvinghiati una all’altro, con buona pace di tutti i detrattori di Andy Warhol.
Già nel ’67 Reed comprese che il concetto di alta fedeltà musicale si sarebbe rivelato un limite per l’artista: andava scavalcato
John Cale, l’altro fondatore dei Velvet Underground, fornisce un’immagine molto precisa dell’ambiente infuocato all’interno della band in quel periodo. “La forza creativa di Lou Reed era devastante e per come avevamo progettato il secondo album (“White Light/White Heat”), cioè basandoci talvolta su lunghe suite, quella forza proseguiva durante le esecuzioni. Così quando arrivammo a incidere ‘Sister Ray’, che è un brano di diciotto minuti che registravamo in diretta, io e Lou ingaggiammo una specie di duello – lui alla chitarra e io alla tastiera – per sopraffare l’altro col volume del proprio strumento. Lo studio, a un certo punto, pareva esplodere da quanto il frastuono degli amplificatori era spaventoso. Pareva che un aereo stesse atterrando sopra il tetto. E’ stato in quel momento che ho pensato ‘ma che accidenti stai facendo, John? Stai suonando o stai provocando un uragano sulla costa?’. E’ esattamente allora, durante l’incisione di ‘Sister Ray’, che ho deciso di lasciare la band. Era una situazione in cui non si capiva un accidente e non c’era più niente che fosse sotto controllo”. In effetti tutto poteva apparire in preda alla più completa anarchia, tanto che Gary Kellgren, il fonico, abbandonò la sala di registrazione perché tutti gli indicatori di potenza del suono erano in saturazione da dieci minuti: “Maledizione, ma cosa accidenti c’entra questa roba con la musica? Andatevene tutti all’inferno!”.
Tuttavia oggi l’ascolto di “Sister Ray” è davvero sorprendente. Alla luce delle mutazioni che, nel corso del tempo, sono intervenute nell’arte della riproduzione della musica, sembra che, già nel 1967, Lou Reed fosse giunto a comprendere che, a un certo punto, il concetto di alta fedeltà musicale si sarebbe rivelato un limite per l’artista e che perciò già allora rappresentasse uno steccato da oltrepassare. Perciò perché non tentare di scavalcarlo? In più, proprio nel bel mezzo della canzone, dove John Cale e Gary Kellgren non trovavano altro che delirio, gli appassionati e anche i critici musicali hanno riscontrato il primo punto di contatto, forse l’unico, tra la rivoluzione del free jazz e il rock ’n’ roll. Ciò nonostante è naturale l’immanenza d’una domanda: questa intuizione è davvero la testimonianza d’un genio precoce o è solo un’improvvisa botta di fortuna in cui tutti i musicisti prima o poi possono incappare? Per rispondere è necessario tornare al 1974.
Lou Reed quell’anno incise un disco dal vivo memorabile, il già citato “Rock ’n’ Roll Animal”, che fu davvero la colonna sonora, anche in Italia, di quegli anni tanto difficoltosi, e poi uscì con “Sally Can’t Dance” che confermò il successo commerciale del suo predecessore. Inutile perciò sottolineare l’attesa che circondava l’imminente uscita d’un nuovo ellepì nel 1975. Così, in luglio, Lou Reed uscì con un doppio album – pubblicazione che lasciava intendere una strabordante urgenza artistica – che s’intitolava “Metal Machine Music”. La recensione più famosa, quella di Rolling Stone, sosteneva che quella musica (ammesso che fosse da considerare musica un effetto incontrollato d’un amplificatore di chitarra, mescolato a delle frequenze radio che durava complessivamente più di un’ora) ricordava “il gemere dei tubi d’un frigorifero intergalattico” e lasciava una sensazione di quando “si trascorre una notte in un terminal degli autobus”. Così accadde che moltissimi fan tornarono nel negozio dove l’avevano comprato sostenendo che la copia in loro possesso era senza dubbio difettosa e che, perciò, il negoziante dovesse per forza sostituirla. Il risultato fu che, tre settimane dopo l’uscita, il disco venne ritirato dal commercio. Per molti si trattò senza dubbio d’una gigantesca burla orchestrata magistralmente da Lou Reed, non fosse che – a distanza di 48 anni – se si ascoltano i programmi della radio dedicati alla musica elettronica, una frontiera ormai non più trascurabile, ci si rende conto di quanto oggi ogni composizione di quel genere musicale sia enormemente debitrice a quel supposto disco difettoso: “Metal Machine Music”.
Al teatro Malibran non tennero conto che si trattava di un tour che riproponeva “Metal Machine Music”. Qualcuno chiese il rimborso
Così accadde che anni fa, nel 2002, Lou Reed ripropose dal vivo questo disco insieme a una band berlinese di musica sperimentale: gli Zeitkratzer. La tournée arrivò in Italia in marzo e toccò il teatro Malibran di Venezia. Ovviamente il nome di Lou Reed sui manifesti indusse molti ad accorrere, che non tennero però conto che si trattava d’un tour dedicato alla riproposizione di “Metal Machine Music” e perciò vennero inopinatamente travolti dal famoso suono che ricordava “il gemere dei tubi d’un frigorifero intergalattico”. Un po’ di gente s’alzò infastidita e si recò dalle maschere del teatro per pretendere la restituzione del prezzo del biglietto. Ero presente quando uno di questi inservienti, col volto segnato da una certa esperienza di vita e con la erre arrotata dalla venezianità, rispose con pacatezza a una spettatrice chiaramente insoddisfatta: “Fa male ad andarsene, signora. Il significato di questa musica lo capirà più avanti. Non so dirle fra quanto, ma quando lo capirà si pentirà d’essersene andata”.
A dieci anni di distanza dalla morte di Lou Reed si può solo dire che quella improbabile e allampanata maschera veneziana di musica se ne intendeva davvero.