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Aridatece gli Inti Illimani

Pierluigi Battista

Che fine ha fatto il gruppo folk che per anni ha girato le piazze d’Italia per tenerci legati alla resistenza cilena? Furono anni di impegno, di lotta, di noia. Poi pure loro si diedero allo sport preferito dalla sinistra: la scissione

Prima dell’11 settembre del 2001, il nostro vero e sofferto 11 settembre è stato quello del 1973 recitato sul cupo palcoscenico di Santiago del Cile, esattamente cinquant’anni fa. E’ stato l’11 settembre del compañero presidente Salvador Allende che, con una pattuglia di fedelissimi votati alla morte, difendeva armi in pugno e con l’elmetto calzato sulla testa il Palazzo della Moneda bombardato dai golpisti del generale Augusto Pinochet Ugarte. Era l’11 settembre del drammatico annuncio di Allende: “Sicuramente Radio Magallanes sarà zittita e il metallo tranquillo della mia voce non vi giungerà più. Non importa. Continuerete a sentirla. Starò sempre insieme a voi. Il mio ricordo sarà almeno quello di un uomo degno che fu leale con la Patria. Il popolo non deve farsi annientare né crivellare, ma non può nemmeno umiliarsi”. Parole oggi incomprensibili alle orecchie degli zelanti odiatori del presidente Zelensky nell’Ucraina stuprata dai russi. Ma che allora diedero vigore e slancio all’epopea di una generazione che visse la Moneda conquistata dai bruti della junta sempre con indosso gli occhiali fumé come l’ultima trincea simbolica per cui valesse la pena essere travolti dall’emozione. Il teatro di una resa dei conti. La nuova reincarnazione dello sfolgorante ma già appannato mito latino-americano, quando la sinistra malata di esotismo si era già stufata di Cuba e delle tracimazioni logorroiche di Fidel Castro che in Italia non incantavano più nessuno, a parte Gianni Minà e i lettori compulsivi di Luis Sepúlveda, allendista della primissima ora. 

Un altro 11 settembre rispetto quello delle Twin Towers, il primo che ferì, spezzò il cuore, prese alle viscere molti di noi. Oggi non se lo ricorda quasi nessuno sotto una certa soglia di età, tanto che un ex ministro degli Esteri a corto di letture come Luigi Di Maio ha dedicato parole di fuoco contro Augusto Pinochet, prendendolo sciaguratamente per un venezuelano e non per il cileno che ovviamente era. Ma allora, quell’11 settembre, era tutta un’altra storia.

La luminosità del mito, del simbolo, dell’epica. Questo spiega l’incontenibile afflato con cui la vicenda cilena fu vissuta da chi riempì di pianti e di slogan le piazze italiane. Non che il continente latino-americano non si fosse già presentato come una fornace instancabile di feroci dittature militari, di golpisti assassini (e con indosso gli occhiali fumé). Ma mai le reazioni alle carneficine scatenate dai “nostri figli di puttana”, come si diceva nelle stanze più ciniche e spregiudicate dell’establishment statunitense, raggiunsero nemmeno la metà dell’indignazione suscitata dal triste destino cileno. Non il Brasile plumbeo del golpe del maresciallo Humberto de Alencar Castelo Branco e del lungo regime militare che ne seguì, e le cui malefatte – torture, massacri, esecuzioni sommarie – saranno smascherate molto più tardi da una “Commissione per la verità” che avrebbe messo sotto accusa decenni di repressione terribile (purtroppo assecondate con una certa indulgenza da una stella irraggiungibile come Pelé). Non l’Uruguay, le cui vittime si contarono a quasi diecimila con la scusa della presenza dei guerriglieri Tupamaros, e il cui capo “torturador” Jorge Nestor Fernandez Troccoli, poi temporaneamente riparato in Italia con nostra somma vergogna, ammetterà in un’intervista di “aver trattato in modo inumano i miei nemici, ma senza odio”. Non il Paraguay dello spietato generale Alfredo Stroessner che assassinò quasi 20 mila persone (accertate) e nella cui residenza estiva di Ciudad del Este, detta la “casa degli orrori”, sono state ritrovate le ossa di molti oppositori ammazzati. Non la Bolivia dove le bande militari tesero un agguato mortale a Ernesto “Che” Guevara. Non l’Argentina dei gorilla del generale Videla, che raggiunse il record delle nefandezze, specializzata nei “voli della morte” con cui centinaia di ragazze e di ragazzi venivano scaraventati vivi dagli aerei in alta quota, nel rapimento dei bambini da offrire ai farabutti legati alla giunta militare, nell’affollamento di oltre ventimila persone schiacciate nelle stanze della tortura dell’Escuela Mécanica della Marina, dove venivano inghiottiti i desaparecidos. E ovviamente, come ha più volte denunciato Mario Vargas Llosa, non faranno molto rumore le gesta truci dei “figli di puttana” sì, ma quelli degli altri, i “figli di puttana” contro “l’imperialismo yanqui”, quelli che la sinistra considerava più o meno “nostri”: dalla Cuba che apriva i campi di concentramento per i “maricones” (copyright Ernesto Guevara) al Venezuela di Hugo Chávez e del suo successore Maduro seguace del guru indiano Sai Baba (quello trash delle apparizioni a distanza e delle sfere di metallo che vomitava dalla bocca), convinto che Chávez fosse stato accoppato dagli odiati americani tramite inoculazione di cellule cancerose nell’organismo del glorioso presidente. Dal Nicaragua degli arresti, delle sparizioni, delle esecuzioni sommarie messe in opera dai seguaci del dittatore Ortega alla Bolivia ridotta alla fame e alla disperazione sociale da Evo Morales, il dittatore ancora che tanto piace nella realtà parallela dei Cinque stelle.

Con il Cile era tutta un’altra storia. Anzi, tutta un’altra emozione collettiva, tutta un’altra musica: la musica degli Inti Illimani. Il gruppo musicale cileno che nel 1973 si sfiniva nei tour europei per far conoscere i ritmi e le melodie andine e che l’11 settembre, mentre il golpe di Pinochet martoriava Santiago, girava spensierato con le folle dei turisti nella Basilica di San Pietro. Fu un colpo di fulmine, un’opportunità nella sciagura: si stabilirono in Italia (a Genzano, frutto di una liaison diplomatica tra il Vaticano e il Pci di Gian Carlo Pajetta) e diventarono i nostri eroi. Non c’era festival, manifestazione, happening di protesta che non li ospitasse, con indosso il loro poncho color mattone (o vinaccia, ci vorrebbe l’armocromista per dirimere la questione) e le melodie che suonavano tanto romantiche. Ci familiarizzammo con strumenti dai nomi evocativi, dalle atmosfere suggestive: la chitarra ovvio, però soprattutto charango e rondador, quena, maracas e zampoña (molto simile alla nostra zampogna, ma meno natalizia). Per la verità non ci divertivamo tanto con le nenie andine, sebbene dovessimo presenziare al rito con solidale assiduità, e non avevamo il coraggio, malgrado qualche sbadiglio a stento trattenuto, di confessare una certa scorretta insofferenza dopo ore di lamentazioni latino-americane. Lo fece per noi Lucio Dalla, che se lo poteva permettere, nel “Cucciolo Alfredo”: “Il complesso cileno / affisso sul muro / promette spettacolo / un colpo sicuro / La musica andina / la noia mortale / sono più di tre anni che si ripete sempre uguale”. Poi, un po’ assopiti, ci risvegliavamo di soprassalto, tutti in piedi e pugno chiuso levato in alto nella canzone di lotta, ed esplodevamo, senza rondador né zampoña, nell’urlo di battaglia “El pueblo unido jamás será vencido”, che poi portava pure un po’ male perché el pueblo era stato appena rovinosamente sconfitto nella tragedia. 

Tutti volevano gli Inti Illimani, che erano bravi ma non avevano il dono dell’ubiquità, e perciò al loro posto veniva spesso chiamato il complesso cileno dei “Quilapayun” che i più maligni e cinici chiamavano i “Finti Illimani”. Poi gli Inti Illimani, di sinistra, si eserciteranno nello sport preferito e irrinunciabile nella sinistra: si scinderanno. E dalla scissione nascerà, nei primi anni Duemila, il frammento eretico degli Inti Illimani Historico. Differenze? Boh. Ma intanto dell’epopea cilena nessuno ricordava più niente e gli inviti cominciarono mestamente a scarseggiare. Perciò un esponente illustre degli Inti Illimani di recente ha voluto esibirsi durante un’intervista in un esercizio acrobatico di autorevisionismo retroattivo: “C’è stato un equivoco. Noi siamo rimasti in Italia per sfuggire al golpe in Cile e abbiamo quindi assunto un significato politico che ha segnato un’epoca e questa nostra immagine ha prevalso sul significato musicale del gruppo. Canzoni naïf o semplici ninne nanne venivano prese come canti di resistenza mentre la nostra passione per la musica popolare è rimasta in secondo piano. Non rinneghiamo e non siamo pentiti però oggi il gruppo ha sempre quella radice”. Fine di un’epoca: viva il Cile.

Certo, viva il Cile. Ma viva il “Cile rosso” o viva il “Cile libero”? Nella contrapposizione di questi due slogan nella sinistra italiana si tracciò una linea di separazione radicale e definitiva (qualche assaggio si era già avuto con il Vietnam: “Vietnam rosso” o “Vietnam libero”?). Enrico Berlinguer affidò le sue celeberrime “Riflessioni dopo i fatti del Cile”, divise in tre parti, al settimanale del partito “Rinascita”, con cui venne messo a punto un cambiamento epocale nella strategia del Pci attraverso la teorizzazione del compromesso storico: una scelta molto coraggiosa, peccato per il fardello ideologico che si portava ancora addosso con la convinzione che “con il 51 per cento” non si potesse governare (come invece era ed è consuetudine in tutte le democrazie dell’occidente). La sinistra extraparlamentare, o “di classe”, o “nuova”, o “rivoluzionaria”, o comunque si chiamasse, imboccò invece il sentiero opposto: “compagno Berlinguer, ci dicono dal Cile, che il compromesso storico lo fanno col fucile”. Oppure: “armi al Mir” che poi era quel gruppo super-estremista del Movimiento de Izquierda Revolucionaria che si era sdegnosamente rifiutato di aderire alla richiesta di Allende di entrare nel governo perché non potevano inquinare con una semplice partecipazione ministeriale l’immacolatezza del loro programma che era la conquista “del poder por la vía insurreccional”. Ma il Cile era l’orizzonte che misurava emozioni, scelte politiche, campagne di stampa. Si festeggiò lo scambio tra il leader comunista Luis Corvalán con il dissidente sovietico Vladimir Bukovskij, anche se ovviamente i cuori battevano per Corvalán molto più che per il povero Bukovskij, che i compagni moscoviti di Corvalán avevano rinchiuso per ben sette anni nelle “psikhuska”, gli ospedali psichiatrici dove veniva segregato lo psico-dissenso. Ci si innamorò di Luis Sepúlveda, che si trovava nel palazzo presidenziale assaltato dagli sgherri di Pinochet e che anni prima si era laureato all’Università Lomonosov di Mosca. Una volta liberato, anziché recarsi in salvo nella tiepida e panciafichista Europa, raggiunse, novello Malraux, le Brigate internazionali a sostegno dei sandinisti in Nicaragua.

Ma poi, a dimostrazione dello statuto emotivamente speciale di cui l’epopea cilena godeva in Italia, ci fu il grande psicodramma della partecipazione alla finale della Coppa Davis di tennis che nel 1976 il destino volle che si giocasse a Santiago, proprio nell’Estadio Nacional dove gli aguzzini avevano rinchiuso migliaia di giovani nei giorni più bui del golpe. Dibattiti furiosi, richieste di boicottaggio, Panatta che decise di indossare la famosa maglietta rossa come tenuta da combattimento. C’era pure una canzone con un testo battagliero come “La ballata della Coppa Davis” di Domenico Modugno. “Non si giocano volée con il boia Pinochet”, cantava Modugno, “che facciamo? Andiamo da quel fascista / e gli diciamo ‘Señor, hasta la vista?”. Uno statuto emotivo speciale perché esattamente due anni dopo, per i Mondiali di calcio nell’Argentina sanguinaria dei gorilla di Videla le polemiche si smorzarono, il fervore della protesta sbiadì, l’ansia politica di sabotare un regime tra i più truci della storia novecentesca sbollì e nessun Modugno cantò. Ci fu certo l’eccezione di un gruppo francese “Boycott de la Coupe du Monde 1978”, formato da personaggi illustri (ma in umiliante minoranza) come Yves Montand e Georges Moustaki e il cui slogan suonava così: “Pas de football entre les camps de concentration”. E tuttavia il mondo dello sport divenne afono, tranne Paul Breitner, il mitico giocatore tedesco anarco-maoista che si rifiutò di partecipare al torneo di Buenos Aires, mettendo in imbarazzo la Germania, medagliata con tutti gli sponsor dei Mondiali, Mercedes e Telefunken, spiazzati dalla ribellione di un connazionale così famoso. Ma il democratico César Luis Menotti, allenatore dell’Argentina, non si rifiutò di sorridere trionfante davanti a Videla e alla giunta dei torturatori con la Coppa issata come trofeo della vittoria nazionale. Gianni Brera scrisse che le polemiche dovessero essere tenute “fuori degli stadi”. E a differenza del Cile del 1976, stavolta l’Unione sovietica decise di non boicottare il carnevale calcistico dell’Argentina dei desaparecidos. Per il Cile molto rumore, per l’Argentina nessuna. La potenza simbolica dei “fatti del Cile” come li aveva ribattezzati Enrico Berlinguer con formule che avrebbero fatto la storia politica dell’Italia, rendeva quell’11 settembre una data unica, inimitabile, che non si sarebbe mai più ripetuta. No, si è ripetuta 28 anni dopo, nel cuore di New York. Ma esattamente cinquant’anni fa nessuno avrebbe potuto prevederlo.

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