dal film, Stand By me (foto wikipedia)

neverending

“Stand by me” e altre canzoni da subire

Stefano Pistolini

Fenomenologia di quelle melodie appiccicose, rimaste fuori dallo spazio-tempo. Una categoria musicale indistruttibile. Pezzi divenuti monoliti inscalfibili a cui non sarà mai possibile accordare una degna sepoltura

Grecia. Agosto. Si entra in acqua per uno di quei bagnetti da vacanzieri attempati. Ed ecco che dall’altoparlante dello stabilimento prescelto parte una delle solite, stereotipate playlist di Spotify. Mentre ci giriamo verso riva per rimirare i floridi arbusti che spuntano dalle dune, comincia “Stand By Me”. L’ascoltiamo, anzi, si direbbe la subiamo con rassegnazione: non abbiamo mai troppo amato la supplica melò gorgheggiata da Ben E. King  fin dall’anno 1961, dopo che lui stesso l’aveva ideata in collaborazione con Jerry Leiber e Mike Stoller, i Fruttero & Lucentini della canzone americana del secondo Novecento, a volte nascosti sotto lo pseudonimo di Elmo Glick, adottato quando giudicavano limitato il loro contributo creativo. Di fatto il pezzo l’aveva già impostato King qualche tempo prima, prendendo spunto da un omonimo inno gospel che musicava gli insegnamenti del Salmo 46: “Non avremo paura, anche se la Terra venisse spostata e le montagne finissero in mezzo al mare”. King (trapassato 77enne nel 2015) all’inizio pensava di affidare la canzone ai Drifters, commercialmente più forti di lui, ma dopo aver registrato “Spanish Harlem” proprio con la produzione di Leiber e Stoller, dal momento che gli avanzava un po’ di tempo di sala di registrazione, si fece convincere a dare forma, con la collaborazione dei due, a quello spunto che non aveva mai completato.

  

E’ l’inizio di uno strepitoso successo, grandi vendite, utilizzo in spot pubblicitari, perfino fonte d’ispirazione di un bel film adolescenziale diretto da Rob Reiner con lo stesso nome. Rolling Stone, in una delle sue cervellotiche classifiche, stabilisce che “Stand By Me” è la 122esima più bella canzone di tutti i tempi, mentre premi e riconoscimenti si sono moltiplicati nel tempo. Il punto è un altro: “Stand By Me” è entrato stabilmente nel novero di pezzi che si collocano oltre l’etichetta di “classici” o “evergreen”, ma che piuttosto vantano uno status di eternità garantita che ne prevede la riproposizione perenne, nei secoli dei secoli (due conti: il brano ha 62 anni d’età e oggi è onnipresente su qualsiasi spiaggia greca che si rispetti, almeno un paio di volte a mattinata. 62 anni prima del 1961 erano molto popolari i pezzi di Scott Joplin: fate conto che sulle spiagge della Ostia del boom italiano venisse bombardato “Maple Leaf Rag” come se non ci fosse un domani).

 

L’osservazione a cui vogliamo arrivare è che si è ormai generata una categoria musicale solida, florida, acritica e indistruttibile: quella delle canzoni persistenti, musiche che hanno perforato la dimensione spazio-temporale e si sono proiettate oltre il gradimento e l’affettività del pubblico, entrando in una sfera metafisica dell’eterna ripetizione, a dispetto della loro struttura elementare, del richiamo un po’ appiccicoso delle loro melodie, soprattutto dell’inerte modularità dell’esercizio di ascoltarle ancora una volta, archiviandole nel momento stesso del loro riconoscimento. In sostanza quei pezzi ci trapassano a ripetizione e noi subiamo diligentemente, perché nel frattempo abbiamo sviluppato i debiti anticorpi del non-ascolto e così le sorvoliamo in una rassegnata souplesse che ha dentro un bel coefficiente della decadenza del pop.

 

Ovviamente il ragionamento vale per molte canzoni come per “Stand By Me” – la questione personale e individuale è il tasso di passiva sopportazione che ciascuno di noi accorda all’ennesima esposizione alle musiche in questione.  Eppure, questi pezzi restano là, monoliti che nessuno può scalfire, capolavori defunti a cui sarà per sempre impossibile accordare degna sepoltura, perché tra altri sessant’anni, quando ci saranno le macchine volanti, su quella stessa spiaggia, alla stessa ora, partirà la solita playlist dei brani che non temono confronto, e a un certo punto arriverà Ben E. King a implorarci di stare con lui.

  

Alcune musiche – non altre, e su questo il discorso assumerebbe risvolti interessanti – hanno superato il problema dell’appartenenza, della collocazione, della rappresentatività, perfino dei significati. Sono e basta. Non sono né vecchie, né nuove, sfuggono a classificazioni di questo genere, esistono come plausibile e concordato riempitivo musicale dell’etere. Allora, forse, tutte le pop song di cui avevamo bisogno sono state già scritte, comunque in numero sufficiente per compilare le famose playlist che sonorizzano il nostro quotidiano impersonale.

 

Non serve altro: tutto può ancora essere composto e suonato, ma solo nella sfera del superfluo e dell’esperienza individuale, perché nel frattempo si sono definite le perfette compilation dell’immutabilità. In aeroporto o dal dentista, al supermercato o alla sagra del tartufo, il repertorio sarà quello, ci scivolerà addosso come acqua sui vetri, ci conforterà con la forza del conosciuto. C’è stato un tempo in cui… poi non più. L’ovvia sensazione d’essere ormai un po’ tutti attori d’un rabberciato reality show della modernità, è ampiamente autorizzata. 

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