l'album
Il ritorno dei Rolling Stones è una lezione scanzonata a quei seriosi dei Måneskin
Il primo album di inediti dopo 18 anni promette di dimostrare la gran capacità degli Stones di essere contemporanei, irrispettosi e sfacciati nonostante tutto. Un esempio per i nipotini, che oggi fanno a tutti gli effetti parte della loro stessa identica scena
La questione che apre una finestra surrealistica sulla notizia è che i Måneskin e i Rolling Stones – di nuovo insieme, dopo il concerto di Las Vegas – fanno adesso chiaramente parte della stessa identica scena. Perché la musica, con tutti i distinguo che volete, è la stessa e l’immaginario anche, a dispetto del mezzo secolo abbondante che li separa all’anagrafe. In un certo senso gli scampoli del modernismo e le torri del passatismo si stanno sbriciolando insieme, in ciò che resta di una possibile definizione della pop music elettrica di fine 2023. Mentre i Måneskin partono per un tour americano che farebbe invidia ai Rolling Stones e vengono celebrati agli Mtv Video Music Awards come credibili capofila internazionali di un genere, i Rolling Stones fanno la cosa più retrò del mondo, ma la fanno bene: con una conferenza stampa ad Hackney, nei quartieri orientali di Londra che battevano da ragazzini, hanno presentato a tutto il pianeta – con Jimmy Fallon a fare da host – il loro primo album di inediti in 18 anni (l’ultimo era stato lo stantio “A Bigger Bang”), intitolato appunto “Hackney Diamonds” (i diamanti dovrebbero essere loro, sennò chi?), nei negozi dal 20 ottobre, preceduto dal videoclip e dal singolo d’apertura, “Angry”, già disponibili dappertutto.
Il pezzo è una specie di vademecum stilistico della band, appositamente ricalcato dal produttore newyorkese Andrew Watt (pigmalione di Post Malone) sugli stereotipi classici e inaffondabili della band, ovvero i riff di chitarra graffianti di Keith Richards doppiati da Ronnie Wood, la voce vitaminica baritonale e opportunamente addizionata via autotune di Jagger, un testo ironico su un amante che predispone le mosse per una separazione più o meno consensuale con una ragazza che non si deve arrabbiare e con la quale del resto non fa sesso da un mese (80 le primavere del nostro testimonial del Viagra) e un videoclip girate sul Sunset Boulevard di LA dal regista François Rousselet, in cui una “babe” (l’immaginario del classic rock non evolve, a dispetto delle turbolenze sociali – e la bellissima è inevitabilmente vestita in pelle bondage, seduta senza cintura sul sedile posteriore di una Mercedes decappottabile…) interpretata da Sydney Sweeney (“White Lotus” e “Euphoria”), che rimira una sfilza di cartelloni pubblicitari in cui sono effigiati gli Stones in varie fasi della loro carriera, dagli anni 60 (!) in qua.
Le notizie aggiuntive informano che in un paio di pezzi dell’album suona col suo inconfondibile swing il trapassato batterista originale della band Charlie Watts, per il resto sostituito dal veterano Steve Jordan. Si sussurra che in un pezzo potrebbe riaffacciarsi addirittura Bill Wyman, che ha smesso d’essere il bassista degli Stones trent’anni fa, che ci saranno partecipazioni illustrissime come Stevie Wonder, Lady Gaga e forse perfino Paul McCartney, che un tempo fu il capo della gang rivale. Tutto ciò, e questo va detto, presentato e padroneggiato con uno stile che non si studia sui libri.
“Angry” è un pezzone nella scia dei migliori della band, caratterizzato dal suo essere fanaticamente più Stones degli Stones, iper-reale nella sua adesione a quel verbo che non conosce tramonti. E la capacità dei Glimmer Twins, come un tempo erano stati ribattezzati Jagger e Richards, di cavalcare l’assurdo di questo gioco del tempo, in cui dei miliardari ottuagenari interpretano la parte degli eterni ribelli senza causa, è soprattutto frutto dell’ironia con la quale la materia è trattata e messa in circolazione. Attenzione: non un’ironia di facciata, o una sovrastruttura di comodo per evitare gli imbarazzi, ma piuttosto un modo di continuare a essere irrispettosi nonostante tutto, ovvero di mantenere ancora oggi, che se volessero potrebbero farne a meno, la sfacciataggine con cui organizzavano sberleffi e trasgressioni negli anni ruggenti.
Questo è un gran segno di vitalità, un interessante comma da aggiungere alle leggi dello spettacolo, un eccellente modo per dimostrare la propria capacità di contemporaneità e, in fondo, una lezione sulla quale i nipotini arrivati troppo tardi a coltivare un suono che da un pezzo ha già scritto e mostrato tutto, insomma quei rockers seriosi dei Måneskin, potrebbero riflettere. Per andare oltre quel timido disagio col quale ancora ci sembra si mettano in posa, vestiti da qualche stilista da strapazzo, per le foto celebrative di rito.