I respiri del rock
Con “Australian Carnage”, Nick Cave compie la sua trasformazione in predicatore gospel
Fra minimalismo e forze ancestrali della natura. Il nuovo disco dell'artista australiano è la (quasi) riproposizione live di "Ghosteen", uno degli ultimi capolavori del rock
E’ passato qualche anno da quando scrissi un articolo dedicato a Glenn Gould (e a Jan Johansson) che, in sintesi, raccontava come, col trascorrere del tempo, cioè invecchiando, gli artisti – e forse non solo gli artisti – apprezzassero sempre di più le suggestioni della lentezza. Cioè quel tipo di gusto che, se stessimo parlando di alcolici, sarebbe etichettato con l'appellativo “da meditazione”. Quella condizione che Nick Cave, introducendo una canzone (per la precisione “Carnage”) dell’ultimo disco dal vivo “Australian Carnage”, uscito da poche settimane, spiega in questo modo: “Sto diventando un poco anziano e le cose che una volta mi risultavano semplici adesso non lo sono più così tanto”.
Intendiamoci, non sono considerazioni che destano stupore manifestate da un musicista. La prima volta che le sentii esprimere ed esattamente con le medesime parole, fu nel 1992, ascoltando un ellepì di Junior Kimbrough, un artista di blues in quel momento sessantaduenne (anche se l’età precisa degli afro-americani del Sud degli Stati Uniti è piuttosto difficile da definire), cresciuto in un angolo sperduto del Mississippi e salito alla ribalta per ragioni davvero fortunose. Kimbrough nel brano “Done Got Old” salmodiava: “Le cose sono cambiate / Non posso guardare le cose come facevo / Non posso camminare come facevo / Non posso amare come facevo”. Strofa che venne puntualmente ribadita durante un’intervista rilasciata dal musicista quando, all’improvviso, raggiunse una certa “matura” notorietà: “Non ho più fretta di far le cose. Passo molto tempo seduto sul portico di casa mia. Non è che a Holy Springs passi molta gente, ma mi piace star seduto a guardare cosa succede intorno: certo, saluto i ragazzi sui pick-up che vanno giù in paese, ma mi godo pure i piccoli scatti degli opossum che salgono e scendono sull’albero di fronte. Poi, dopo un po’, c’è sempre qualcuno che mi viene a cercare, perché a forza di guardarmi intorno trascorre così tanto tempo che finisce che mia moglie si preoccupa”.
La medesima sensazione di distaccata e ininterrotta osservazione, pressoché avulsa dallo scorrere del tempo, si può provare, per esempio, ascoltando le ultime incisioni bachiane di Gould oppure “Negative Capability” di Marianne Faithfull, nonché uno degli ultimi capolavori della musica rock – nel senso che di questi tempi non ce ne sono più tanti – che è “Ghosteen” di Nick Cave, di cui “Australian Carnage” è la pressoché completa riproposizione dal vivo. Da questo punto di vista, chi ha una certa concezione evolutiva della musica non può che ritenersi soddisfatto perché, al di là delle ormai francamente noiose manifestazioni di peterpanesimo rollingstoniane, ciò che chiamiamo rock ’n’ roll si sta velocemente inoltrando nel molto nobile comparto della musica contemporanea, in cui vengono abbattuti gli steccati, una volta sacri e indistruttibili, tra musica classica, jazz e, appunto, rock ’n’ roll.
“Ghosteen”, di cui “Australian Carnage”, come si diceva, è praticamente la riproposizione dal vivo, è la precisa definizione dell’avvenuto abbattimento delle assi di separazione: se non si sapesse che si tratta di Nick Cave e, che non se ne diminuisca l’apporto, di Warren Ellis, non bisognerebbe stupirsi se qualcuno, prima di ascoltare l’inconfondibile voce del cantante, pensasse di trovarsi di fronte a un’opera di Arvo Pärt o del Kronos Quartet. Quel genere musicale – se proprio lo si deve etichettare – che si chiama minimalismo contemporaneo e che richiama fortemente la maturità: cioè quella fase della vita in cui non interessano più degli arabeschi arzigogolati e le acrobazie per attirare l’attenzione, ma quel preciso numero di (poche) note necessarie per creare delle emozioni. Certo, Arvo Pärt, il Kronos Quartet, Nick Cave e Warren Ellis vengono da diversissime parti del mondo, ma ci sono sensazioni che rendono lo stato di Victoria in Australia (dove Nick Cave e Warren Ellis sono nati e cresciuti) comprensibile pure a chi è nato in Estonia, tra il Golfo di Riga e il Lago Peipus, e, ovviamente, viceversa.
Arvo Pärt, dall’alto dei suoi quasi novant’anni, non ha dubbi in proposito.
“Sentire il respiro musicale del mondo significa che, sebbene proveniamo da paesi estremamente diversi, il sentire (“feeling” nel testo originale) è lo stesso. Il desiderio musicale è lo stesso. Siamo come differenti treni, ma che vanno tutti verso la medesima destinazione. Quando, un po’ di tempo fa, la Los Angeles Symphony Orchestra suonò per la prima volta a Londra, Esa-Pekka Salonen, il direttore, raccontò a un intervistatore inglese che, mentre era in taxi a Helsinki, chiacchierava col conducente. Il tassista parlava amabilmente di musica contemporanea e diceva che conosceva la mia musica e si riconosceva in essa. E’ la miglior dimostrazione che certe persone, pur vivendo a decine di migliaia di chilometri di distanza, hanno il medesimo sentire musicale. Sono appunto treni diversi che vanno nella stessa direzione”.
Tuttavia, a dir la verità, fino alla metà degli anni ’70, chi abitava l’Australia non era considerato altro che il diretto discendente di coloro che erano stati deportati nelle colonie penali inglesi tra la fine del ‘700 e la metà dell’800. Perciò c’è da credere che la riflessione di Arvo Pärt, almeno per un lasso di tempo lungo circa un secolo, non riguardasse affatto gli australiani. Che cosa ci si poteva aspettare dai diretti discendenti di frotte di galeotti impiantate a forza dall’altra parte del mondo? Poi nel 1975 (anche se il libro da cui il film è tratto uscì nel 1967) apparve sugli schermi cinematografici “Picnic At Hanging Rock” e improvvisamente crebbe la fascinazione per le sollecitazioni artistiche sorte dalle commistioni tra gli inaspettati modelli culturali europei trapiantati nello stato di Victoria dalle famiglie australiane più abbienti, e l’ancestrale forza della natura del Nuovissimo Continente, comprensibile fino ad allora solo dagli aborigeni.
Quella fascinazione rese Hanging Rock – una strana conformazione di rocce di origine vulcanica nello stato di Vittoria – un luogo colmo di particolari suggestioni emotive, perché, come si apprese dopo l’uscita del film, ancestrale luogo di cerimonia di tribù autoctone dai nomi bizzarri come i Dja Dja Wurrung e i Taungurung. Così, sotto il mammellone (così si chiamano queste formazioni geologiche) di Hanging Rock, s’è tenuto alla fine di novembre del 2022 uno dei sedici concerti della tournée australiana di Nick Cave e Warren Ellis che è poi culminata nelle tre serate (16/17/18 dicembre) alla Sydney Opera House in cui sono stati registrati i brani che compongono “Australian Carnage”.
“Appena dopo il tramonto, gli animali di Hanging Rock diventano spettatori curiosi. I canguri stanno fermi, appoggiati sulle code, sulle piste del deserto e guardano l’altura che si popola di automobili di gente che è venuta dalle città intorno. Il pubblico che s’avvicina al palco proprio sotto alla montagna osserva i salti dei conigli selvatici che sbucano dai lunghi cespugli di rose selvatiche. Tutte le persone si muovono nella stessa direzione, verso un perfetto tramonto di fine primavera australe, che culminerà al crepuscolo con lo show di Nick Cave e di Warren Ellis”. La suggestione del luogo, indipendentemente dalla (non) veridicità dei fatti raccontati nel libro di Joan Lindsay e dal film di Peter Weir, è immortalato nel lungometraggio tratto dal concerto: “Kingdom In The Sky”. Il video è facilmente rintracciabile su Youtube, ma, al contempo, è anche immaginabile semplicemente ascoltando l’appena uscito “Australian Carnage”. La musica restituisce l’immutabilità della collina rocciosa, i cui colori però, grazie al lavoro di Nick Cave e Warren Ellis, cambiano lentamente, proprio come riportava il succitato articolo di Jenny Valentish su “The Guardian”: “come in un perfetto tramonto di fine primavera australe”.
Perciò è perfettamente condivisibile l’opinione di chi, per via della tranquilla densità della musica, ormai definisce Nick Cave “un predicatore evangelico che, dal suo pulpito, è determinato ad accompagnare il pubblico in un viaggio di catarsi e rivelazione, in cui Warren Ellis è lo spirito che l’accompagna” (Nadia Bayley dal “The Sydney Morning Herald” a proposito del concerto di Hanging Rock).
Ed ecco comparire, per via del “predicatore evangelico”, l’ardimentoso e frequente accostamento col gospel, che, come tutti sanno molto bene, per toccare veramente le corde più intime dell’animo deve essere praticato da artisti d’un colore di pelle diverso da quello di Nick Cave e di Warren Ellis. A questo punto non ho alcuna difficoltà a immaginare i bofonchiamenti di coloro che non sopportano quegli adagi che stabiliscono che gli afro-americani “hanno il ritmo nel sangue e corrono come il vento”. Costoro però, a meno che non siano sordi come campane, non possono negare che si colga una certa clamorosa differenza tra la qualità delle esibizioni delle migliori formazioni bianche che si cimentano nel gospel, da qualsiasi luogo esse provengano, e il coro della Chiesa Mount Unity di Chesapeake, Virginia, diretta dal reverendo Earl Bynum.
Perciò toccare il tasto della musica proveniente dalle chiese nero-americane riferendosi a un artista proveniente da una cittadina australiana chiamata Warracknabeal è un gesto che si avvicina alla blasfemia e persino alla pazzia. Ciò nonostante dopo aver ascoltato le diciotto canzoni di “The Australian Carnage” è necessario riconoscere che la musica possiede quei poteri straordinari che in Australia sono solo appannaggio degli indigeni Luritja e che Joan Lindsay ha lasciato intendere nel libro “Picnic At Hanging Rock”. Alla fine del disco – io continuo a chiamare così i supporti musicali – si è talmente colmi di emozioni che c’è da chiedersi se davvero la musica sia stata registrata alla Sydney Opera House o in una di quelle chiese costruite con tavole di legno bianche, nella sperduta Contea di Lauderdale, in Alabama, in cui tutti i coristi indossano una tunica e seguono i gesti d’un vecchio pastore battista che nella vita ha provato tutte le gioie e i dolori possibili. E, nonostante si sia laggiù, a così tanti chilometri dall’Estonia dove Arvo Pärt è tornato a vivere dopo tanti anni d’allontanamento, pure in Alabama e in Australia pare di sentirlo sussurrare col tono di voce che hanno gli uomini molto anziani: “Sentire il respiro musicale del mondo significa che, sebbene proveniamo da paesi estremamente diversi, il sentire è lo stesso. Il desiderio musicale è lo stesso. Siamo come differenti treni, ma che vanno tutti verso la medesima destinazione”.