musica
Lo Sphere di Las Vegas batte anche gli U2
A sovrastare la fama e l’attrazione del gruppo di Bono c’è la location che li ospita e l’inedita esperienza di spettacolo che propone (e indica il futuro degli spettacoli dal vivo)
Lo Sphere è il definitivo teatro digitale dopo la deflagrazione dell’intelligenza artificiale applicata al pop. Il suo inventore James Dolan (impopolarissimo proprietario dei NY Knicks, la squadra di basket Nba della Grande Mela) sostiene che presto repliche dello Sphere verranno su in tutte le metropoli del pianeta, magari con fogge diverse, piramidi, cubi o chissà cos’altro. Intanto il prototipo ha aperto i battenti a Las Vegas (dove sennò?), ospitando come attrazione una residenza lunga tre mesi degli U2, il quartetto irlandese un tempo etichettato la “band più famosa del mondo”. Ma stavolta, a sovrastare la fama e l’attrazione del gruppo di Bono c’è la location che li ospita e l’inedita esperienza di spettacolo che propone: puro XXI secolo inoltrato, effigiato da questo building a forma di palla, alto un centinaio di metri e interamente coperto, sia all’interno che all’esterno, da una superficie Led su cui può apparire qualsiasi stravaganza – già si moltiplicano online le story filmate dai finestrini degli aerei, che immortalano in mezzo alla giungla degli hotel di Las Vegas vuoi un gigantesco emoji giallo, vuoi il terzo occhio, vuoi un acquario di pesci di fantasia. Ma il bello viene una volta dentro, e basta un giro in rete per vedere.
L’intero ambiente sferico capace di ospitare 18 mila spettatori è una tridimensionale tavolozza digitale su cui proiettare qualsiasi bizzarra e cangiante decorazione che il direttore artistico della serata, supportato dalle erculee forze della grafica computerizzata e dell’IA, abbia escogitato, si tratti di visioni paradisiache, distopiche riproposizioni della Vegas là fuori, di arte sacra o di messaggi cubitali in stile Jenny Holzer, il tutto nel parcheggio dell’hotel Venetian. A questo punto, sullo spoglio palcoscenico di The Sphere (dove la scena è “tutto”) calate la band che da 40 anni è l’epitome del rock, quella che ha sempre sbandierato il messaggio che questa musica esprima le buone intenzioni giovanili, o forse degli eternamente giovani: Bono e soci col loro show passatista nel quale ripropongono per intero l’album del ’91 “Achtung Baby”, addizionato da una lista di hits dalle altre epoche della loro produzione. Peraltro lo show è stato accolto con soddisfazione dalla critica, vuoi per la capacità della band di non farsi stritolare dalla macchina spettacolare di cui rischiavano di divenire modesti sonorizzatori, vuoi per l’insieme strabiliante della messinscena, un tale piacere per gli occhi da valere i soldi del biglietto. Del resto Bono e i suoi hanno da sempre privilegiato la grandiosità nei loro concerti e a più riprese hanno toccato il tasto delle nuove tecnologie applicate alla visualità di un suono che invece non si è mai discostato da parametri tardo-novecenteschi. Ma aggiungiamo un paio di riflessioni.
Da un lato l’annuncio degli U2 (tre quarti di loro, perché il batterista Larry Mullen Jr. è in convalescenza per un intervento chirurgico, e al suo posto, con The Edge, Adam Clayton e Bono suona l’olandese Bram van den Berg) che accettano di raccogliere il testimone che fu di Frank Sinatra, Elvis, Elton e degli Abba, come attrazione fissa nel teatro più scintillante della capitale dello show-spietato-business. Per chi considera gli U2 il prodotto residuale di un’epoca tramontata, emblemi della friabilità del messaggio politico affidato alle rockstar, il procedimento sarà la logica conclusione di una parabola: raccattare gli ultimi spiccioli offrendosi, come i loro stimabili predecessori, al consumo isterico-trash abbinato al concetto stesso di “Vegas”. Ma questa è una considerazione che pecca di eurocentrismo snob e di una visione illusoria del mondo dello spettacolo americano – lo stesso in cui Hollywood ora produce soltanto film di supereroi e “Barbie” è vista come una pellicola coraggiosa. Probabile che le cose stiano diversamente, ovvero che gli U2 si siano prestati a fungere da cavie iper-pagate per un salto di qualità nell’intrattenimento musicale che potrebbe presto acquisire lo stigma del nuovo mainstream. Non è clamoroso, infatti, affermare che la classica dimensione “concerto” per come l’abbiamo conosciuta – le star lassù tra le mille luci e nel buio le folle plaudenti in un eterno Live Aid a Wembley – sia il passato, fuori sincronia con occhi e orecchie dei nativi del terzo millennio. E che Vegas, con la sua fissazione per gli eccessi, il suo stordente surplus sia, oltre che una macchina da soldi, un laboratorio dell’intrattenimento per le masse. E che un’esperienza sensoriale come quella offerta da una notte allo Sphere costituisca la prova generale di un futuro vicino.
Come diventerà la musica dal vivo?
Non quella delle cantine, che non smetterà di tener duro. Quella dell’industria che ha bisogno di un ricambio di idee e di seduzioni in offerta. Bono là sopra, nella scenografia curata dall’amico Eno, diventa così un traghettatore. Ciò che aveva da dire l’ha urlato per anni nei microfoni di mezzo mondo. Adesso, come Elvis, accetta d’essere la riproduzione di se stesso, offrendosi alla condivisione finale. Ma attorno il mondo cambia e il teatro che lo ospita a Las Vegas non ha precedenti. Lo show business scommette e la pallina ha già cominciato a girare. Presto sapremo se ha vinto.