Damiano Michieletto, regista dello spettacolo - foto Ansa

Teatro

Nel "Giulio Cesare" dei tre controtenori il destino è un viluppo di fili rossi

Alberto Mattioli

Il capolavoro di Handel al Teatro dell'Opera di Roma. La tesi della regia di Damiano Michieletto di un Cesare “debole” è spiazzante e intrigante: però tutto, al solito, non sta tanto nel “cosa” ma nel “come”

"Sia vincitor del vincitore il vinto”. Nicola Francesco Haym, rimpastatore di un remoto libretto veneziano per Georg Friedrich Händel a Londra, anno di molta grazia musicale 1724, mette il suo bravo concettino in bocca a Cesare, in vena di perdono per l’arcinemico Pompeo (ma non sa ancora che Tolomeo, fellone Re d’Egitto, l’ha già fatto decapitare e sta per spedirgliene la testa, grazioso regalo di benvenuto, tipo il cestino di frutta negli hotel comme il faut…).

 

Nella regia di Damiano Michieletto, il protagonista di questo Giulio Cesare dell’Opera di Roma non è il solito conquistatore testosteronico, e non solo perché canta con voce bianca come da estetica barocca. In completo manageriale blu elettrico, è bloccato da lunghi fili rossi, srotolati da tre Parche nude di inquietante bellezza: nessuno, nemmeno l’eroe per eccellenza, è slegato dal suo passato e dai suoi fantasmi. E così, in questa corte intrigante e libidinosa d’Egitto, è proprio Cesare il meno ferreo dei vasi che entrano in collisione. La vicenda si sviluppa su due piani: davanti, il mondo “vero”; dietro, quello del sogno, del ricordo, dove si aggira il fantasma di Pompeo, sfilano arcani riferimenti mitici e mitologici e appunto le Parche tessono le tele del destino come delle Norne desnude. Finché i due mondi si confondono, e il viluppo dei fili rossi riempie la scena: ennesimo capolavoro scenografico di Paolo Fantin, una vera affascinante installazione d’arte contemporanea.

 

La tesi di un Cesare “debole” è spiazzante e intrigante: però tutto, al solito, non sta tanto nel “cosa” ma nel “come”. La realizzazione è esemplare: scene come si è detto bellissime (non è detto che le regie “moderne” debbano essere per forza visivamente squallide), recitazione eccezionale, momenti di gran teatro come in “Va tacito e nascosto”, colpo di scena finale da non spoilerare con l’irruzione della “verità” storica. Manca, forse, un po’ di quell’ironia che pare consustanziale al teatro händeliano fin dai tempi beati del Cesare-dinosauro di Richard Jones a Monaco; in compenso, circola in questo spettacolo un erotismo sottile che profuma tutti i personaggi, non solo Cleopatra che dell’eros è la titolare. In ogni caso, memorabile.

 

Con poche prove, Rinaldo Alessandrini riesce nell’impresa di barocchizzare un’orchestra poco avvezza a questo repertorio (ma il continuo se l’è portato lui da casa). Qualche stacco di tempo è inevitabilmente prudente, ma l’insieme regge benissimo, e alcune sciabolate ritmiche o coloristiche dimostrano che sul podio c’è qualcuno che Händel lo conosce benissimo. Peccato non tanto per i tagli (se facciamo Händel integrale, allora voglio potermi comportare come il pubblico dell’epoca, andare e venire, chiacchierare, degustare sorbetti, giocare a carte), ma perché alcuni passaggi di recitativo proprio ci vorrebbero: e, se anche l’opera viene abusivamente divisa in due parti, sarebbe davvero meglio chiudere la prima con “Son nata a lagrimar”.  

 

Sul fronte dell’ugola, è il Giulio Cesare “dei tre controtenori”, Cesare, Tolomeo e Sesto (anzi quattro perché ci sarebbe pure Nireno che però non canta quasi). Come protagonista, gran volume, bel timbro, agilità scatenate, Raffaele Pe giganteggia ma non gigioneggia, bravissimo. Idem Carlo Vistoli, Tolomeo biondo curiosamente simile a Morgan e dalla consueta finezza musicale e interpretativa (consueta di Vistoli, non di Morgan). Colpisce la bellissima e tanta voce di Aryeh Nussbaum Cohen, l’ultimo arrivato nel firmamento delle stelle dalla voce bianca: però non si capisce perché scritturare un contraltista per una parte scritta per un soprano donna, e che lo obbliga ad abbassare quasi tutte le arie. Un’eterna Sara Mingardo è ancora la migliore Cornelia immaginabile; Rocco Cavalluzzi, un buon Achilla. Resta Cleopatra, Mary Bevan, classica barocchista anglosassone affidabile, ottima attrice, ma con agilità meccaniche e vocina piccina picciò. Così “Da tempeste il legno infranto” diventa un fuoco d’artificio che esplode rasoterra. Pubblico romano dapprima scettico, poi avvinto e alla fine festante.