Calcutta senza Mogol

L'Italia che cantava fiori di rosa non c'è più, ma “Relax” è un bel canto della contemporaneità

Stefano Pistolini

Adesso parlare di un disco di Calcutta ricorda gli sforzi che si facevano a fine millennio, a fare i conti con un nuovo romanzo di Niccolò Ammaniti. Come allora, c’è l’impressione che si tratti di un lavoro diverso dagli altri coevi, ovvero che nella sua inestricabile combinazione di musica e parole contenga valori di cui vale la pena tener conto, perché assumono una rappresentatività che tocca angoli e punti vivi della nostra sensibilità. Altrettanto è sicuro che ciò si aggiri poi solamente in una sfera intima, incerta, a tratti tremebonda, offuscata da una qual confusione nell’elaborare e sempre votata alla rassegnazione, insomma che i famosi e famigerati grandi temi, di cui una volta la musica s’incaricava d’occuparsi, adesso riposino in soffitta – tratto questo consolidato della poetica contemporanea condivisa dai migliori artisti del gruppo, chessò Contessa, Brunori, Motta, Brondi e appunto lo stesso Calcutta.

 

L’album si chiama “Relax” e arriva dopo cinque anni di silenzio discografico di Edoardo D’Erme che avevano fatto preoccupare i fan, sempre più convinti che avesse perso la voglia, o forse la magia, anche se le sue periodiche sortite in veste di autore (la bella “Litoranea” per Elisa e “Mare di Guai”, il pezzo con cui Ariete ha debuttato a Sanremo ’23) facevano propendere più per l’idea che a pesargli fosse la collocazione in prima linea, quella del cantautore da tournée e da palco, spingendolo verso silente invisibilità. Poi, con brevissimo preavviso, il silenzio è stato rotto, è arrivato questo album, una performance sul tetto della sede Rai di via Asiago a Roma per lanciarlo (citazione-omaggio beatlesiano, epoca “Let it be”) e un tour breve nei palasport, annunciato e immediatamente andato sold out.

  

Calcutta is back ed ecco la materia musicale di cui è fatto questo trentenne che ha messo sotto controllo le sue bizzarrie: una sequenza di brani omogenei al punto da assumere la figurazione di tessere d’un mosaico, con il concetto di “maturazione” che si espande dappertutto, nella scrittura, nelle esecuzioni vocali, nella confezione dei pezzi, nelle cose dette e nel modo di dirle. L’insieme condito da una galleria dei vezzi che hanno fatto follemente amare Calcutta da tanti coetanei, sempre sull’onda dell’autoironia e del désplacement. Il tutto amministrato da una squadra di talenti musicali e produttivi che costituiscono un po’ il dream team della generazione di mezzo di cui l’artista è oggi membro onorario: Giorgio Poi, che ha anche suonato tutte le chitarre, Davide Petrella, abituale alter ego artistico di Elisa, Myd, produttore francese specializzato in elettronica morbida e Laurent Brancowitz dei Phoenix, altro transalpino al quale sembra sia dovuta l’ideazione del sorprendente brano d’apertura del disco: “Coro”, che è ciò che annuncia, ovvero una canzone di Calcutta eseguita da un coro di simil-alpini, fungendo da piacevole anticamera all’intero lavoro. Da lì si snocciola la successione di pezzi, nella quale gli habitué si ritroveranno subito a casa, riscoprendo l’abituale campionario di istantanee e d’intuizioni fulminanti riguardo a uno stile di vita oggi divenuto più una sottocultura che il prodotto di qualche eccezione. Metafore brillanti, descrizioni folgoranti, definizioni di stati d’animo che, per chi lo ama, non è difficile capire, ma che noi non saremmo mai stati capaci di evocare così, mentre intanto sullo sfondo già si disegna una sagoma precisa e riconoscibile: Lucio Battisti, però in assenza di Mogol, il distillato del suo esprimersi in musica con l’incapacità di trovare le parole per completare il discorso. Parole che invece Calcutta ha da sempre a portata di mano, gestendole con virtuosismo, mestiere e non senza ammiccamenti (“Guerra persa / Non ero mai finito a letto con una di destra”, canta in “Controtempo” e “Sembriamo tutti falliti” intona nel ritornello di “Tutti”, il brano più intenso della scaletta).

 

Certo, Battisti non avrebbe mai detto cose del genere, aveva altre poesie e altri pruriti, eppure il legame tra i due artisti è visibilissimo, prese le misure nel raffronto di un autore ancor giovane col canzoniere insuperabile di Lucio. Il fatto è che i tempi sono cambiati, l’Italia è cambiata, è cambiato l’utilizzo e la funzione della nostra musica, e mentre l’altro cantava di fiori rosa e di Hegel, Calcutta riemerge da una pandemia trascorsa chiuso in un monolocale di Bologna, sorvola accuratamente su quel teatro della politica che ci ha reso tutti cinici, infine incarna un disincanto che l’entusiasmo nervoso degli anni Settanta neppure poteva immaginare. Detto questo, “Relax” ci restituisce Calcutta come la voce più limpida della canzone italiana che cerca d’interpretare il contemporaneo con spirito e realismo, privilegiando un sano individualismo che di questi tempi – soprattutto se si è artisti in cerca di evoluzione – appare come una scelta saggia e una decente premessa di sopravvivenza.

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