Musica
Taylor Swift è la dea del pil (e del pop)
Niente scandali, solo un successo straordinario che nasce dall’immedesimazione. Chi sono le fan della cantante americana (hanno pure un sindacato)
Bionda, carina. Tutta faccette e gridolini. Non è la Ferragni che pure un po’ le somiglia – non foss’altro per la mistica del follower, per la simbiosi fatale col pubblico chattante. Vagamente più emotiva, più bambolona, più americana. È la fenomena della musica pop. Taylor Swift è la donna del momento. Valchiria che nel mondo ha riempito stadi, ripopolato cinema, rimpolpato pil. Così scrivono di lei oggi: “Entra nel club dei miliardari americani… Una macchina perfetta capace di regalare 4,3 miliardi aggiuntivi di pil soltanto grazie a 53 esibizioni”. E così scrivevano già quest’estate, quando l’economia statunitense cresceva del 2,4 per cento contro il 2 del precedente trimestre, quando scavallava l’1,8 atteso dagli analisti – attendibili meno dei cartomanti – a maggior ragione se a scombinare gli oroscopi c’era lei: la ragazza della Pennsylvania sospetta parte in causa innalzamento pil. E però che bella la diceria della titana col pil in spalla! Che quasi fa il paio col maschio bianco brutto e cattivo. Uno che il mondo non solleva ma distrugge. E che coppia, con Taylor: la bella e la bestia. Due che fra loro c’entrano niente ma che tanto dicono di noi. Che a forza di dare spiegazioni strane ad accadimenti grandiosi, tipo l’innalzamento del mare o del pil, dimostriamo che non è l’economia o l’ecologia. E’ la mitologia la scienza dell’uomo nuovo. Fuori c’è il sole? “Fattore Swift”; arriva l’alluvione? “Caccia al maschio capitalista!”. Tempi magici, appunto.
Tuttavia, giacché segue e radicalizza un andazzo, il successo di Taylor è più logico che mitologico. Con uno schema che anima la politica, la musica e tutto il pacchetto delle arti liberali. Si tratta appunto di quella famosa “disintermediazione” di cui a lungo s’è riempito la bocca il sociologo in noi. In altre parole, Taylor è l’ennesima manifestazione del principio di rappresentanza scalzato dalla somiglianza. Ovvero di quella cosa per cui chi votiamo, followiamo o sentiamo cantare su Spotify, non è granché meglio di noi. A volte è peggio. E se pure ci supera tanto o d’un’oncia in talento e connotati, comunque farà di tutto, costui, per dissimulare. Per abbassarsi, starci vicino, assomigliarci: disintermediare. Abbattendo ogni gradino fra lui e noi. Ogni barriera ci faccia sentire disabili, inferiori, inetti a vivere. Ed è questa la logica che muove Taylor, questo il vento che muove mari, monti, Valchirie, pil. Come spiegare se no una donna meno che modaiola, di bellezza grande ma futile, che pure ha venduto 200 milioni di copie? Come spiegare il fatto che ha incassato di più nella storia dei concerti femminili ed è sempre quella le cui canzoni ottengono più streaming su Spotify? Taylor è pure l’unica assieme ai Beatles con 11 brani in simultanea nella Billboard Top 200.
Una donna che è l’unica ma non è unica. O meglio non vuole essere unica né vuol esser quello che in anglosfera chiamano edgy, e cioè tagliente, sperimentale. Perché Swift è puro mainstream e lo sa. È biondo e gambe lunghe e cioè quello che sempre altrove chiamano relatable: la donna per così dire “riconducibile”. Nella quale si riconduce e si riconosce ogni figliola in età da marito. Ovvero ogni basic bitch bellina e un po’ wasp le cui ambasce sono all’incirca gatti di razza e fidanzati maiali. Per capirci qualcosa, prendete l’Eras Tour: gigantesca tournée che ripercorre le “ère” vissute dalla cantante (ère, epoche, eoni: s’era detto mitologia ma forse è mitomania). Ecco, prendete il tour che prima d’esser tour è già uno spettacolo nei cinema di Canada, Stati Uniti e di altri 90 paesi con incassi per 200 milioni di dollari. Non un film ma un concerto sub specie film dove le “swifties” (le fan femmine, che son parte schiacciante del totale – ci torneremo) sono invitate da Taylor a ballare e cantare in sala, a indossare abiti in stile “ère” e braccialetti dell’amicizia come in un enorme rito. Un “Burning man” che diventa “Burning woman” con intorno al feticcio-Taylor tutte le migliaia di post-liceali. L’Eras Tour, intanto, è in arrivo a San Siro a luglio ’24 ed è già tutto esaurito. Ci sono ragazze (non ragazzine: ragazze, cioè venti-trentenni, questo il target) che per sicurezza hanno acquistato due biglietti. Uno per il 13 luglio, l’altro per il 14: le due date italiane. E vi sembreranno invasate, sì, pericolose, fan coi capillari rotti da presagire Lennon e Chapman… E invece no – e qui viene il bello. Perché qui, in barba ai lustrini, è più un soviet pop che glam rock.
Le “swifties”, avendo inteso che uccidere l’idolo per disperazione oggi non serve più, non son tipe da manicomio. In questi tempi di socialismo poco reale, molto virtuale, nonché magico e mitologico, esse anelano all’unio mystica per tramite sindacale. Codeste giovani insomma sono unite nel TSFU (Taylor Swift Fan Union) o, come dire, il sindacato dei dissociati. In sintesi, piccole donne che vanno al cesso tenendosi per mano e che adesso crescono (si fa per dire). Piccole donne crescono e reclamano diritti: vogliono che Swift si conformi a un codice etico fintanto che reclamano salari per sé. Perché, scrivono, “fare il fan è un lavoro”: è farsi pagare per orientare le scelte del proprio idolo. In particolare le “swifties” non approvano l’ultima storiella di Taylor col cantautore britannico Matty Healy, che è uno alieno alla galassia del glitter, uno che c’entra niente col sogno americano e i gatti persiani che la ragazza si porta appresso. Healy è più stile azionismo viennese, come quando sul palco di Londra mangia una T-bone di bovino crudo. Il sindacato ne deplora la frequentazione: invoca un fidanzato non sessista, anti-specista, ché non è vero che “ogni donna ama un fascista”. Ma sicuro è vero, di questi tempi, che l’arte è sempre più comunista.
I fan insomma lavorano, orientano scelte e marketing, sono i prosumer – produttori e consumatori insieme – che dopo tanto sgobbare esigono congrue retribuzioni: buste paga e benefit vari. E ci spiegano perché Taylor vince su Ariana Grande, per non dire della melanconica Lana Del Rey, e ci spiegano pure fino a che punto il mondo s’è rimbambito in questa mistica socialista dove l’uno non vale uno ma milioni di fan replicanti. Miliardi di dollari in concerti.
E c’è ancora un punto essenziale nella circolarità fra idolo e fan, prototipo e copie. Taylor Swift, a lungo accusata di parassitizzare la propria vita con l’autografia di malamori e malanni, sarà pure un magnete per i ragazzacci del giro… Ma è soprattutto specchio per le altre donne. Non a caso più che ai maschi, nel mondo reale, piace alle femmine. E perciò non è diva nel senso dell’unico e irripetibile, della carne e del sangue. È piuttosto relatable, si diceva. Donna per piccole truzze che le somigliano, e che non crescono mai. Il che, di nuovo, dice poco di lei e molto di noi. Poco del mondo dentro, molto del mondo fuori, come spesso accade nei casi di successo esagerato. Casi dove le seguaci non ammirano incondizionatamente il seguìto. Ma lo imitano nella certezza di centrare l’impresa. Taylor Swift ha successo perché nutre l’imitazione di ragazze giovani-non-giovanissime. Detto altrimenti: cuori liceali, aspirazioni basiche, sottane e paillettes. A riprova che il divo ispirazionale è definitivamente scalzato dal performer aspirazionale (lo stesso dicasi in scala ridotta per la Ferragni, che è un po’ la Mina dei nostri tempi… O forse l’icona toccata in sorte a un secolo incapace di cavalcare tigri e degno tutt’al più di tigrotte – purché di Cremona). E però anche in questo caso “Miss Americana” (titolo del documentario Netflix su Swift) è più avanti delle altre. Con la riabilitazione della ragazza perbene a lisciare il gatto di razza ragdoll che zampetta sul pianoforte a coda – addio bad girl.
La disintermediazione non è cosa dei soli politici, insomma, che ci somigliano finché si fidanzano, si lasciano e s’innamorano sul social come le cameriere. È cosa di tutti, ivi inclusi musici cantanti. Ed è strano, in quest’epoca fluida e queer, che a innalzare il pil sia una donna grandiosamente normale. Bionda, bella, di gentile aspetto ma con canzoncine assai vacue, piene di amorazzi estivi e sempre endogamici, tipo quello con Harry Styles (cantante che paurosamente somiglia a Giambruno… Vabbè il sindacato ma la rivoluzione è ancora impossibile: ci somigliamo tutti). E pure Taylor Swift ci piglia perché ci somiglia: si innamora come noi dei colleghi ma poi non quaglia. Come noi fa l’adolescente in un eterno tempo delle mele dove i trenta sono i nuovi tredici: zero sposalizi e tanto teen drama. E ancora ci dice, in barba al queer percepito e al pelo sotto l’ascella, che è sempre il biondo basico e meno che modaiolo a fondamento della realtà. Perché quello che vogliamo è somigliarci tutti, oggi più che mai. E quello di cui abbiamo bisogno è solo una stella che ci somigli e che possiamo riportare a buon mercato quaggiù. Una che si lamenti del fidanzato che l’ha ferita, di sé stessa e dei “suoi mostri” – e cioè del fidanzato che l’ha ferita e di sé stessa – andando avanti in un periplo di fidanzati e sé stesse che si ripete, fine pena mai. Perché Taylor non ha un gran mondo dentro da raccontare. Nessuno scandalo fiabesco che ci faccia sentire inetti, inferiori, sfigati.
Uno che di glamour ne sa, il languido Justin Trudeau, dopo aver saputo del giro di miliardi generato dal suo “Eras Tour”, l’ha pregata su Twitter di raggiungerlo in Canada, azzeccando una buona definizione: “Swift è un singolare talento generazionale”. In altre parole, un fenomeno. E dicesi appunto “fenomeno” quel qualcosa in cui anche tu che snobbi e cerchi dive ispirazionali, comunque incappi. E c’incappi a forza di post, articoli… A forza di sorelle, nipoti, cugine che vanno al bagno tenendosi la mano. E c’incappi pure se fra tutti i tuoi pensieri, Swift, l’avevi seduta in panchina per benaltrismo saccente: perché c’erano una guerra in corso, un libro avanti Cristo sul comodino… Ma ecco che davanti al fatto che diventa fenomeno, lo snobismo non regge. Ecco che anche tu sei costretto a capire cos’è, chi è, e soprattutto perché.
“Per tutta la vita ho voluto essere una brava persona”, dice Swift commentando il punto più basso della sua carriera e cioè Kanye West, il Fabrizio Corona di Atlanta, che sostenendo di essere stato spinto da Dio la interrompe nel 2009 agli MTV VMAs per dire che il premio doveva vincerlo Beyoncé. “Non sapevo se il pubblico fischiasse me o lui. Per una persona come me, che nell’applauso ha sempre basato tutto un sistema di valori, è stato pesante”. Segue piantino. E si capisce tutto. Si capisce quanto i quasi 300 milioni di follower Instagram rappresentino l’ago della bilancia della fenomena. Perché alla faccia degli antichi lettori di Peter Handke, alla faccia degli insulti al pubblico (che con Morgan sanno pure di modernariato), anche il pop-rock, oggi – come la politica, come la ristorazione – campa di “marketing esperienziale”. O per meglio dire di unio mystica fra santoni (chef, politici, musici) e fan. Seguaci fedeli che in questo caso, nel caso-Swift, sono millennials. Ovvero trentenni mai cresciute che secondo una ricerca pubblicata su Forbes Italia sono le più legate alle dee del web come Taylor. Dichiarando di voler costruire con loro un’esperienza “vera” e di annoiarsi quando la star-influencer “perde autenticità o quando è coinvolta in scandali”. E sarà per questo che la nostra Taylor – nata nel borgo di West Reading nel 1989, battezzata nel country e poi passata al pop – non riesce a liberarsi di Kanye West e cerca di nasconderlo sotto un tappeto di coriandoli e bracciali dell’amicizia. In un perpetuo Disney Channel con tanto di sindacato.
L’impero di Taylor s’è costruito coinvolgendo o fingendo di coinvolgere i fan in ogni più piccola cosa. Un po’ come ha fatto la “Tigrotta di Cremona”. Un po’ come fece il Nostro di Drive In. Ché gli imperi, si sa, si fanno così. Senza mai “far sentire stronzo uno stronzo”, ipse dixit. Ma cercando sempre di stargli accanto, e di coccolarlo. E finché è possibile, di essere sempre un po’ più stronzo di lui.