musica
Nell'album “Javelin”, dolcezza e pensiero fanno fronte alle sfide più tremende
Nel suo ultimo disco il cantautore Sufjan Stevens torna a parlare di sè e delle sue avventure nella vita ma questa volta in una chiave molto più personale e profonda
È piuttosto doloroso che, occupandosi del nuovo album di Sufjan Stevens, decimo della sua discografia e quello accolto in modo più trionfale dalla critica, si debba prima riportare di notizie assai poco incoraggianti che lo riguardano. Sufjan da qualche tempo è colpito dalla rara sindrome di Guillain-Barré, un grave disordine del sistema immunitario che lo ha costretto a una lunga ospedalizzazione, dopo la temporanea perdita dell’utilizzo di tutti gli arti. In sostanza, l’artista dovrà tornare a imparare a camminare, nonché a mettere le mani sui suoi strumenti, anche se il dato incoraggiante è che i medici prevedono per lui un completo recupero. Lo stesso Sufjan di recente ha scritto ai suoi ammiratori: “So che tanti mi considerano una specie di testimone vivente del dolore, della perdita e della solitudine. Eppure gli ultimi mesi hanno rafforzato la mia fiducia nell’umanità”.
Dunque, con l’augurio che tutto finisca per il meglio, dedichiamo qualche nota a “Javelin”, giavellotto, il nuovo lavoro di Stevens che coniuga una rinnovata volontà di autobiografia in musica, con un’ispirazione, una scrittura e una visione esecutiva che senz’altro si spinge a i vertici della produzione di questo artista. Come già nello splendido “Carrie and Lowell” (2015), Sufjan torna dunque a parlare di sé e delle sue avventure nella vita, ma mentre quell’album era incentrato sulla figura della madre e sulla sua intensa, difficile relazione con lei, il diario per canzoni di Stevens in questo caso tocca una sfera ancora più personale, ovvero la sua relazione sentimentale con Evan Richardson, dirigente afroamericano dello Studio Museum di Harlem, scomparso lo scorso aprile. Dunque “Javelin” è un’opera che diviene anche un coming out sugli orientamenti sessuali del suo autore, ponendosi soprattutto come dedica amorosamente dilaniata alla persona che Stevens considerava il proprio partner e il suo migliore amico e a cui, già nel brano d’apertura “Goodbye Evergreen”, dedica un travolgente tributo amoroso, giocando sull’assonanza col suo nome. E dal momento che ogni lavoro di Stevens ci ha presentato una sfaccettatura diversa della sua espressività, dal pop elettronico di “The Ascension”, alla vena acustica di “A Beginner’s Mind”, alla grandeur di “Planetarium”, qui il testimone viene raccolto proprio da quel “Carrie and Lowell” che conteneva il capitolo iniziale delle sue meditazioni sulla sfera intima degli affetti, dell’amore, della devozione. Come in quel disco anche in “Javelin” tutti i brani si aprono in modo rarefatto, sospeso: la voce di Sufjan è poco più di un sofferente mormorio e ad accompagnarla c’è solo l’arpeggio di uno strumento, progressivamente istradandola verso l’edificazione del pezzo vero e proprio, che poco alla volta si arricchisce di orchestrazioni, cori, variazioni governate con suprema maestria.
Le dieci tracce di “Javelin” – che nel cd fisico sono accompagnate da altrettanti piccoli saggi, i cui titoli messi in fila compongono la frase My love is a weapon thrown into the oblivion of your body, “il mio amore è un’arma tirata contro l’oblio del tuo corpo” – costituiscono un’elegia e il lamento per una perdita incolmabile, amministrate con la sterminata concezione musicale di questo artista, che non smette di sorprendere proprio per le traiettorie verso le quali, di volta in volta, indirizza la propria creatività. Anche in “Javelin”, come nella maggior parte dei suoi album, Stevens suona quasi tutto da solo, fatto salvo l’utilizzo di un coro di voce amiche chiamate in causa a più riprese e la chitarra di Bryce Dessner dei National che contribuisce agli otto tesi minuti di “Shit Talk”, pezzo cardine dell’opera, in cui si ricostruisce il fatale epilogo di una relazione ormai esaurita. Poi, in conclusione a questo mosaico di profondo impegno cerebrale ed emotivo, Sufjan colloca un omaggio inatteso: la sua personale rilettura di “There’s a World” il brano dal magniloquente arrangiamento orchestrale che chiude “Harvest”, il bestseller del cantautore canadese Neil Young. Stevens lo rende quasi irriconoscibile, suonandolo tutto “a togliere”, con tremebonda delicatezza, accettando in silenzio la sfida col colosso, come a ribadire che pensiero e dolcezza, unite insieme, possiedono tutta la forza necessaria per imboccare le sfide più tremende.