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un ritratto

Taylor Swift: la musica, lo show e quel corpo che è diventato il corpo amato e odiato di una nazione

Stefano Pistolini

“Persona dell’anno” di Time, la cantante non è solo gossip e spettacolo. Dove cammina lei, le economie prosperano. E ora le sue vicissitudini potrebbero perfino intersecarsi con le presidenziali del 2024. Anatomia di un fenomeno pop

Un discorso a parte, che per cambiare possiamo inserire qui in apertura, va dedicato al corpo della regina. Ovvero la fisicità di Taylor Swift, la donna e il personaggio di spettacolo più popolare d’America e, da qualche giorno, la “persona dell’anno” di Time: la sua esteriorità, la gestione dell’immagine, il suo stile. Taylor oggi incarna un imbattibile mix di energia e debolezze, imperfezione e splendore. Ha fatto i conti con disordini alimentari, critiche feroci, attacchi personali (la brutta scena di Kanye West che agli Mtv Awards 2009 salta sul palco e interrompe la premiazione, per dire che il video di Beyoncé era più bello del suo: “Ho reso famosa quella stronza”, si vanterà poco dopo in una canzone. Peccato che alla fine abbia vinto lei. Per distacco). Quel corpo grande, sgraziato e seducente al tempo stesso per quanto è convinto di sé stesso, è diventato il corpo, amato e odiato, di una nazione, la sua epitome. Una condizione a cui Taylor è pervenuta – basta consultare il bio-documentario “Miss Americana” per sentirlo da lei in prima persona – cercando ostinatamente la propria consapevolezza, nel solco dell’immortale dettato di Coco Chanel: “La tua bellezza inizia nel momento in cui decidi d’essere te stesso”. E istintivamente, Taylor ha cominciato a raccogliere, verrebbe da dire a collezionare in sé, tutte le donne d’America – o una nutrita parte di esse (aprire la questione razziale qui comporterebbe una pletora di distinguo in fondo prevedibili). E loro, le donne, e con loro poi gli uomini americani, hanno preso a osservarla tutto il tempo necessario a confrontare il suo mondo e le sue sfide con le proprie, lasciando scorrere la colonna sonora dei suoi album. Le parole “Ho voluto trovare la felicità senza il contributo di nessun altro”, “Voglio vestirmi di rosa confetto e lo stesso dirvi cosa penso della politica. Le cose non sono in contraddizione” hanno lasciato il segno. Ed eccola con indosso i costumi smaccatamente camp dell’“Eras Tour” con cui sta sbriciolando ogni record, una sfilata di moda itinerante fatta apposta per essere impallinata da qualsiasi stilista, non fosse che sono gli abiti che le piacciono e che le diverte indossare, sono i ruoli che vuole impersonare, le sfaccettature della sua personalità che descrive, dall’alto del suo torreggiante metro e ottanta. Osservatela, in body ingioiellati e trucco rutilante, con una presenza sfacciata e inimitabile ma sempre apertamente solidale con tutti, senza eccezione, con un flagrante pendant in favore e in difesa dei diritti delle donne e della comunità LGBTQ+. 

Il suo amplificatore di potenza sono le paparazzate quotidiane fuoriscena, che la immortalano senza che lei si sottragga, di nuovo con quel suo corpo irruento e leaderistico che invita all’identificazione, più per il coraggio e la sfacciataggine, che per la seduzione. Il suo periodico look naturale, “no make-up”, ormai è uno standard imitato, si direbbe perfino rivendicato dai suoi seguaci, che ammirano quel positive thinking individualistico. Di sicuro è un cambiamento. Introdotto da una giovane di 33 anni che ha la forza e ormai il potere d’intervenire benignamente sulla febbre di un popolo che la osserva con un misto di affetto e apprensione. Perché adesso che è lassù, Taylor non può sbagliare, non può rotolare nella polvere. Il suo corpo eccessivo non può finire sbranato dai lupi. La sua defaillance aprirebbe una voragine nell’immaginario nazionale. Una crisi, un tradimento. Una scommessa perduta. In un momento in cui l’America non può permettersi errori del genere. 

Constatazione banale, ma necessaria: Taylor Swift è un genio. Almeno secondo i moderni parametri di valutazione. I suoi seguaci si chiamano Swiftie, e questa è una cosa a cui rassegnarsi, perché in fondo nello stesso paese un tempo c’erano i Grateful Dead e c’erano i Deadheads, che erano quel qualche migliaio di ultra-fans che seguivano la band nei suoi tour infiniti, stonandosi e facendo barbecue nei parcheggi degli stadi dove suonavano. Un popolo che ama l’affiliazione. Adesso è tempo di Swifties, sono milioni e non migliaia, e adorano i travestimenti dementi e spendere in souvenir. Ciò che conta davvero è che quando arrivano in città imprimono un incremento impressionante all’economia locale, roba da sistemarla per qualche stagione. L’“Eras ​​Tour” di Taylor è iniziato a marzo, pensato per rendere omaggio a ogni epoca della sua carriera, lunga 17 anni. Già è chiaro che finanziariamente diventerà la più grande tournée di tutti i tempi, anche se siamo solo a un terzo del suo percorso: incasso lordo previsto, 2,2 miliardi di dollari solo con la vendita dei biglietti in Nord America. Numeri che neanche leggende come gli Stones o Beyoncé sperano di raggiungere, ma record che lei infrange pacificamente con uno show lungo oltre tre ore, nel quale inanella un hit dopo l’altro. Perché per una moltitudine di americani questo tour è diventato l’occasione per riscoprire l’atmosfera da party time collettivo finita in soffitta negli anni del lockdown e del lavoro in remoto. Gli analisti calcolano che già nel prossimo marzo l’“Eras ​​Tour” taglierà il traguardo del miliardo di dollari d’incasso, mentre la Swift sarà in tournée a livello internazionale, surclassando il pluriennale tour d’addio di Elton John, conclusosi l’estate scorsa con 939 milioni di dollari rastrellati al botteghino. Da lì in avanti l’“Eras ​​Tour” continuerà per altri sette mesi, concludendosi a novembre 2024 a Toronto, sempre che i suoi manager, com’è probabile, non provvedano ad aggiungere altre date.

Detto questo, il giro d’affari attorno a Taylor va ben oltre lo sbigliettamento per i concerti. Si prevede che l’“Eras Tour” genererà 5 miliardi di dollari di spesa dei consumatori solo negli Stati Uniti (perfino la Federal Reserve lo ha annotato): “Se Taylor Swift fosse un’economia, sarebbe più grande di 50 paesi”, recitano i titoli della stampa Usa. Per rendere l’idea: la serata d’apertura della tournée a Glendale, Arizona, ha portato alle imprese locali più entrate del Super Bowl svoltosi a febbraio nello stesso stadio. Ogni 100 dollari spesi per un suo live show generano circa 300 dollari in spese accessorie in loco, per hotel, cibo e trasporti. Le hanno battezzate swiftonomics: dove cammina Taylor, le economie prosperano. Secondo il governatore dell’Illinois, tre serate di concerti a Chicago sono state sufficienti a rilanciare l’industria del turismo cittadina. Poi, a fianco al mega-tour, la Swift impatta sullo show business americano in molti altri modi: il suo successo in streaming e nelle classifiche di vendita è ormai praticamente perenne, vuoi con i dischi nuovi di zecca che grazie al progetto “Taylor’s Version”, la periodica pubblicazione dei remake dei suoi vecchi album, incisi di nuovo secondo i propri intendimenti, stavolta senza mediazioni produttive, ribadendo la vena indie che, a dispetto del successo mainstream, continua ad animare la sua figura. Quanto alle cose nuove, nel 2020 Swift ha pubblicato a sorpresa “Folklore” e “Evermore”, due album realizzati con Aaron Dessner dei National, che l’hanno riposizionata come musicista seria. Senza preavviso ha cambiato pelle, proponendo una diversa versione di sé stessa, più contemporanea. Rafforzando la sensazione che, per quanto la riguarda, non si sa mai cosa accadrà dopo: una prospettiva che mantiene i suoi fans sempre coinvolti nei suoi dintorni. Anche in questo la Swift sembra ormai lavorare a un livello tutto suo, senza rivali. E intanto, durante l’estate, è diventata la prima artista femminile a totalizzare 100 milioni di ascoltatori mensili su Spotify. Tutto ciò, secondo gli analisti, preclude a una formidabile longevità di carriera: Taylor sembra destinata ad esistere artisticamente per sempre. Anche se qualcuno potrebbe chiedersi, a questo punto, dove possa andare da qui in poi. 

Cambiamo inquadratura. Sapete cos’è il football per gli americani? All’incirca quello che è il calcio per noi. Con spirito americano. Ora (Fedez ci perdonerà – è solo un esempio di scala) fissate l’ipotesi di Chiara Ferragni che vada a una partita di calcio per applaudire apertamente le gesta di un particolare giocatore. L’effetto che farebbe. 

Il tight end dei Kansas City Chiefs si chiama Travis Kelce ed è diventato il giocatore più popolare della National Football League da quando Taylor Swift il mese scorso si è presentata in un palchetto dello stadio accanto alla mamma di lui, mentre i Chiefs stritolavano i Chicago Bears. Adesso pare appurato che i due si frequentino da quando Kelce ha espresso il proprio interesse per Taylor su uno dei suoi social. Stiamo entrando in zona-cronache rosa, passaggio inevitabile viste le stupefacenti dimensioni assunte da questo affaruccio. Taylor, che in passato aveva trasformato le relazioni coi suoi ex (John Mayer, Jake Gyllenhaal, Joe Jonas e altri) in canzoni di successo, anche stavolta sembra attrezzata per padroneggiare gli incredibili – per noi, di qua dell’Atlantico – effetti tellurici della mediatizzazione della notizia, sebbene qualche perplessità susciti la fortuita e fortunata coincidenza tra l’emersione di questo scoop e l’uscita nei cinema di tutto il mondo del suo film – insomma, non un brutto momento per gonfiare a dismisura il suo profilo pubblico.

Di fatto è il turno di Travis Kelce: personaggio particolare, descritto come super-sveglio, tra l’altro protagonista di una rara (per l’ambiente “pro” del football) sortita in favore delle vaccinazioni anti Covid in piena pandemia e capace di costruirsi una carriera adiacente a quella brillantissima nello sport, attraverso un progressivo insinuarsi nel mondo delle celebrità: red carpet a go-go, presenzialismo a premiazioni d’ogni genere, servizi fotografici su riviste patinate, conduzione di un programma di appuntamenti al buio sul canale “E!” (“Catching Kelce”), perfino il ruolo di host al “Saturday Night Live”, il più amato spettacolo tv americano di comicità dissacrante. E poi è un campione anche sui social: se prima della love story con Taylor l’atleta era già una star-rubacuori su TikTok, dopo la prima apparizione di Swift sugli spalti dei Chiefs Kelce ha guadagnato un milione di follower su Instagram, totalizzandone ora 3,7 milioni, mentre le vendite della maglia col suo nome sono aumentate del 400 per cento.  Del resto la storyline di questo amore, come certe volte accade, supera la fantasia degli sceneggiatori di rom-com hollywoodiane: la migliore cantante pop e il famoso giocatore di football s’incontrano, fanno click e cominciano il corteggiamento mentre il pianeta-Barbie li segue coi cuoricini negli occhi. Comunque la famigerata scintilla pare essere scoccata a luglio, via chat. Un cauto approccio da parte di lui: “Ho lanciato la palla nel suo campo. Le ho detto, sai, ti ho visto suonare sul palco dell’Arrowhead (terreno di casa dei Chiefs) e adesso tu potresti venire a vedermi giocare su quello stesso campo quando tutti i riflettori dello stadio sono accesi. E poi…”. La fonte bene informata racconta che gli scambi si sono infittiti e che infine, aprendo un varco nella sua affollatissima agenda, il 24 settembre Taylor ha accettato l’invito di Travis ed è sbarcata a Kansas City per vederlo giocare. L’America ha giocosamente trattenuto il fiato. La mattina dopo, quando su tutti i canali d’informazione sono saltate fuori le foto in compagnia di mamma Kelce, la telenovela è decollata. Il tabloid britannico “Daily Mail”, che ne sa sempre più degli altri, ha rivelato che la Swift ha incontrato amici e famiglia Kelce a casa, prima d’andare alla partita. Dopo la quale Travis ha affittato un intero ristorante per una cena coi suoi e coi compagni di squadra, con Taylor che si è presentata in jeans, ha mangiato stuzzichini, bevuto cocktail e ballato con Travis, col più spensierato degli atteggiamenti. Apriti cielo. A seguire, after-party fino alle 2 di notte, di nuovo a casa Kelce e sotto l’occhio vigile della mamma del giocatore. Consumato il primo approccio, la domenica successiva, 1° ottobre, nuova partita dei Chiefs, stavolta in trasferta a New York, per affrontare i Jets al MetLife Stadium. Nel frattempo la vicenda si era gonfiata come un dirigibile e puntuale Taylor s’è ripresentata, stavolta scortata da un nutrito gruppo di famosi della Grande Mela, tra cui Blake Lively, Ryan Reynolds, Sophie Turner e Hugh Jackman. L’Empire State Building è stato illuminato di bianco-rosso-blu (arriva Miss Americana) e l’azienda di condimenti Heiz ha capitalizzato sulle foto in cui T&T (Taylor e Travis) divorano pollo con il ketchup. Perfino l’account ufficiale della NFL, abitualmente severo nelle sue esternazioni, ha fiutato l’affare promozionale e non si è trattenuto dal twittare “Benvenuta Taylor. New York ti ​​stava aspettando”, addirittura modificando per qualche ora la bio del suo X/Twitter in “NFL (Taylor’s Version)”, La NBC ha poi comunicato che la messa in onda della partita Chiefs-Jets a cui ha assistito Taylor ha registrato la sbalorditiva media di 27 milioni di spettatori, più di quanti ne totalizzi la finale del campionato e con un’inedita percentuale di pubblico femminile, sintonizzato da ogni angolo del paese per spiare il comportamento della ragazza nell’occasione (è stata perfetta: tutta vitaminica naturalezza e spontaneo splendore). Ovviamente questi numeri da capogiro sono stati interamente attribuiti alla Swift, la cui presenza, testimoniata dalla bellezza di 17 diverse inquadrature dedicate, ha generato una frenesia di buzz che ha fatto passare del tutto in second’ordine l’andamento della partita. Quando i Chiefs – nemmeno Kelce – hanno segnato un touchdown, la regia si è fiondata a immortalare l’entusiasmo di Taylor. La star indiscussa dell’evento era lei. Con relativo effetto-strascico nelle vendite del merchandising.

E comunque, raccontando di Taylor ci si rende conto che la genìa delle grandi popstar sta davvero rischiando l’estinzione. Sono sempre meno quelle capaci di sfondare a livello planetario. L’ultima è stata Olivia Rodrigo nel 2021. Per la Swift è un chiaro vantaggio: concorrenza zero. Ma se ci avessero detto che i due più grandi bastioni della monocultura in America – Taylor Swift e il football – erano destinati a entrare in soave collisione, ci saremmo fatti una risata. Perché siamo stupidi. Questo crossover Swifties-NFL sta diventando una delle migliori storie raccontate dall’America, da diversi anni a questa parte. 

Sembra proprio che il film-concerto “Taylor Swift: The Eras Tour” che ha debuttato il 24 ottobre, sia pronto a diventare la pellicola musicale coi maggiori incassi di tutti i tempi. Il film è uscito in più di 4.000 sale cinematografiche nel solo Nord America (più di quelle prenotate per l’ultimo “Mission Impossible” con Tom Cruise). Con le uscite nel resto del mondo, il totale-copie è arrivato a oltre 7.500. E solo in prevendita il film aveva già incassato 26 milioni di dollari. Dal momento che anche la collega superstar Beyoncé lancia, proprio in questi giorni, il film-concerto del suo tour “Renaissance”, si intuisce che la musica sta scoprendo diverse opportunità di fare soldi proiettandosi sul grande schermo, proprio in coincidenza con la coda del rovinoso sciopero che ha paralizzato Hollywood. La notizia fa intravedere inattese variazioni delle strategie di business: i film incentrati sulle due protagoniste primarie ed essenziali della pop culture americana, possono infatti generare una florida nicchia di consumo intitolata al marketing esperienzale, ovvero alla celebrazione e alla riproposizione dei piaceri assaporati assistendo ai concerti delle due star. Sono novità importanti, che permettono di formulare ipotesi di ripartenza e di inediti sviluppi dello showbiz musicale. Se, ad esempio, si congiungono queste informazioni con quelle che arrivano da Las Vegas e dalla riscrittura dell’evento-concerto in scena a giorni alterni nel visual show degli U2 allo Sphere, s’intravede il design di un settore che riemerge finalmente dagli splendori del Novecento e si distacca dagli orrori d’inizio XXI secolo, in un auspicabile adeguamento dei propri canoni di consumo. A margine di ciò, l’hype sul film e in generale su Taylor, ha fatto esplodere anche le vendite del ramo sudamericano del suo tour, mandando alle stelle i prezzi sul mercato secondario per gli spettacoli in America Latina, dove si è esibita a novembre, in una serie di sold out, con nove spettacoli a Buenos Aires, Argentina e poi in Brasile, a Rio de Janeiro e a San Paolo.

Ma torniamo a esaminare il quoziente d’influenza di questa artista. La Swift ha costruito la sua carriera trattando i suoi fans come amici. Loro hanno la sensazione che lei li conosca e sentono di conoscerla, insomma che non sarebbe complicato bere una birra con lei, tutti insieme, al bar sulla Main Street. E gli Swifties guardano a Taylor come a un barometro per possibili strategie di identità: cosa indossare, cosa fare, come orientarsi. Qui il discorso si fa serio. C’è una lezione importante per i moderni operatori del marketing che cercano di costruire brand dotati di quel tipo d’influenza che spinge le persone a muoversi in una certa direzione: non è quasi mai il puro prodotto a essere così influente. A mobilitare è la risonanza che provoca nel gruppo omogeneo dei suoi consumatori – omogeneo in quanto amano la stessa cosa, Taylor ad esempio, non importa da dove vengano e che vita facciano. Si genera così una comunità trasversale impossibile da controllare e influenzare se non grazie a… Taylor, naturalmente! E’ l’effetto-Swift, da studiare per comprendere la portata della propagazione della sua eco. Riaffiora quel famoso concetto di “nudge” di “spintarella dei gusti e delle scelte del pubblico che a suo tempo il sociologo Cass Sunstein isolò come componente sostanziale degli andamenti di opinione di una nazione sul modello americano. Ed è così che Kelce e Swift si sono ritrovati al centro di uno sconcertante vortice politico, proprio quello da cui Swift era attentamente stata lontana per anni. Gli anchor televisivi conservatori hanno colto l’attimo, con Charlie Kirk che ha subito ricordato le posizioni pro vax di Kelce e il suo aver recitato in uno spot della Bud Light, la birra boicottata a destra per aver scelto come testimonial l’influencer transgender Dylan Mulvaney, mentre Tomi Lahren ha sbeffeggiato “le opinioni di sinistra e cerebralmente morte” di Swift. Morale? Sarebbe una coppia esplosiva, dalle potenzialità inesplorate. Vero soft power, smaccatamente american style, che lascia intravedere come le vicissitudini di una cantante pop potrebbe perfino intersecarsi con le elezioni presidenziali del 2024. Perché, ad esempio, una delle domande interessanti è: quanto può effettivamente influire sulle scelte del grande elettorato una figura dinamica e trasversale come Taylor Swift, a dispetto delle sue reiterate dichiarazioni di naïveté politica? Gli effetti collaterali dell’avvento di Taylor Swift in campo sociopolitico promettono d’essere ancora più interessanti dell’analisi dei piani finanziari o delle cronache sentimentali della nuova regina d’America, eletta per volontà popolare. Perché stiamo parlando di politica nell’epoca in cui la conversazione è indirizzata agli utenti di TikTok e X, sepolti dai contenuti e alla costante ricerca di indicatori di comportamento. Non a caso il governatore della California Gavin Newsom si è detto convinto che l’influenza di Taylor Swift avrà profonde conseguenze sul voto per le presidenziali 2024. Alla domanda sull’impatto che le celebrità potrebbero avere sulle elezioni del prossimo anno, Newsom ha voluto individuare la Swift come un caso a parte: “Con la sua personalità convince i giovani del valore della voce in capitolo di ciascuno”. Ed ecco che in occasione della giornata nazionale per la registrazione degli elettori, lo scorso 19 settembre, Taylor ha invitato il suo esercito di fan – 270 milioni di follower su Instagram – a registrarsi per votare. Parlando proprio di voci. “Sono stata fortunata a vedere tanti di voi ai miei ultimi concerti”, ha scritto. “Ho sentito alzarsi le vostre voci e ho capito quanto siano potenti. Mettetevi in condizione di usarle anche nelle prossime elezioni!”. Il suo appello ha fruttato numeri record su Vote.org, la piattaforma di registrazione al voto con cui collabora. Il sito ha rilevato un’impennata di iscrizioni di “13.000 utenti ogni 30 minuti”, dopo che la Swift ha condiviso il suo punto di vista.

Dopo aver subito aspre critiche per non essersi schierata in momenti significativi per il paese, come la discesa in campo del movimento Black Lives Matter o le presidenziali del 2016, Swift nel 2018 ha rotto il silenzio politico per la prima volta, dando sostegno ai democratici ed esortando i fans ad andare a votare. In un’intervista del 2021 a Vanity Fair, ha attribuito alla negatività della presidenza Trump il merito d’averla spinta a rendere pubblici la sua opposizione al titolare della Casa Bianca e il suo endorsement a Joe Biden: “Nasco come musicista country, m’hanno insegnato a girare alla larga dalla politica”, ha spiegato. “Ma Trump mi ha costretto a informarmi e a schierarmi. Ho iniziato a parlarne in famiglia e con gli amici e adesso sono orgogliosa d’aver superato l’insicurezza e di aver deciso di sostenere una leadership che ci porti fuori da questo straziante momento divisivo”. 
Ovviamente Trump se l’è legata al dito e in questi giorni, col suo stile, ha lanciato il proprio anatema antipatizzante. Parlando della love story Taylor-Kelce ha detto in un’intervista: “Auguro il meglio a entrambi. Spero si godano la vita. Magari andrà così. Ma molto probabilmente no”, Occhio, Donald: in una cultura ossessionata dalle celebrità, prendere di mira Swift e Kelce potrebbe essere una mossa non politicamente saggia.


Capitolo accessorio a tutto questo discorso: Taylor e noi, i lontanissimi italiani (esclusi coloro che si sono beati a vederla mandare baci a Damiano dei Maneskin a un concerto della band romana). Insomma, pare di vederle le facce incredule di tanti tra coloro che leggono: ma davvero tutte queste righe sprecate per una ragazzona del pop, che ha pubblicato dei dischi che nella maggior parte dei casi suonano infarciti di musica d’una medietà che tende al banale. E che quando canta le sue canzoni non fa mica l’effetto d’una virtuosa – una buona professionista sì, ma una delle tante e, in effetti, sì, altissima, tipo giocatrice di pallacanestro. Tranne alcuni ardenti americanofili che sviluppano con lei una connessione tutta personale, da noi in linea di massima Taylor Swift non se la fila nessuno. Non ne riusciamo lontanamente a cogliere quel valore che per gli americani è un magnete irresistibile: il suo essere una di loro e, al tempo stesso, tutti loro, sembrare a portata di mano ma anche imperfetta, lasciando intendere che tutti possono aspirare a essere come lei. Apparire convinta, appagata, sempre in piena corsa, come una locomotiva. Aspirare e raggiungere: l’America vitale che non si volta mai indietro, avete presente? Bruciare le tappe e procedere. Sorridere e far sorridere gli altri. Sedurre senza sforzo, né moine. Non voltare le spalle a nessuno. Cantando storie che parlano di lei stessa, ma che somigliano alle storie degli altri. Un percorso netto che ci lascia scettici, ci fa venir voglia di più chiaroscuri, del quale ci sfuggono la maggioranza dei riferimenti. Taylor questa sconosciuta. Ma questa differenza, perfino questa diffidenza, in fondo, è anche il bello. 
 

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