Novità musicali
Il valore dell'album ribadito dal ritorno di Peter Gabriel e PJ Harvey
Grandi artisti e grande musica nei nuovi dischi dei due cantanti e compositori britannici che anche a distanza di tempo dalle loro ultime uscite mantengono il loro valore artistico
Da un passato prevalentemente novecentesco, due ritorni discografici di altrettanti artisti britannici lontanissimi tra loro per gusto e produzione, ma entrambi capaci di riconfermare a distanza di tanto tempo il proprio valore e l’immutata validità di un concetto oggi messo ampiamente in discussione come quello dell’album – opera composita, articolata, improntata al tempo stesso all’unità d’intenti e alla varietà. Il 73enne Peter Gabriel, si ripresenta con “I/O”, ventun anni dopo il suo ultimo album di inediti, anche se nel frattempo ha pubblicato due lavori di cover e un progetto in condivisione con altri artisti. L’idea originale di “I/O” è di analizzare in profondità le potenzialità di un brano scritto da Gabriel proponendolo all’ascolto in due (o addirittura tre – nella versione deluxe del disco) diversi missaggi, a cura di ingegneri del suono da lui selezionati per la differente poetica di approccio alla professione: dunque il “pittore” inglese Mark “Spike” Stent per il “Bright Side Mix”, dalle coloriture più brillanti, e lo “scultore” americano Tchad Blake per il “Dark Side Mix”, dalle tinte più cupe e ancestrali, a cui si aggiunge l’ “In-Side Mix” curato da Hans-Martin Buff, specializzato nella tridimensionalità dei suoni, evidenziata soprattutto dagli impianti di ascolti di fascia alta.
Badate, le differenze tra i diversi approcci non sono sostanziali e costituiscono più che altro un divertissement per appassionati, mentre la vera essenza del discorso, che ben di più stupisce e commuove, è l’estrema qualità di scrittura di Peter e l’intatta purezza della sua vocalità, miracolosamente risonante con quella di oltre mezzo secolo fa, quando facemmo entusiasticamente la sua conoscenza come l’uomo-margherita che gorgheggiava per i Genesis. La scaletta di “I/O” è rigorosa, il livello è altissimo, i vecchi fans andranno dolcemente in deliquio e i più giovani non potranno che stupirsi davanti alla completezza, alla visione e allo spettro espressivo di questo artista, accompagnato da uno sterminato dream team di musicisti, che include Brian Eno, Tony Levin, Manu Katché, David Rhodes e un’orchestra, con registrazioni effettuate in mezzo mondo e lungo un lasso di tempo sterminato, che risale addirittura al 1995. Eppure la sensazione complessiva è di essere di fronte a un netto esempio di classicità applicato alla musica pop: la composizione e l’esecuzione di Gabriel si sistemano ben al di fuori della collocazione temporale e alle appartenenze di genere, come se la tortuosa e importante strada da lui percorsa attraverso diverse ere musicali lo facciano ora gravitare a mezz’aria. in una particolare e privilegiata comfort zone, dove le questioni delle mode e dei confronti qualitativi sono definitivamente risolte.
Il secondo ritorno proviene invece da tempi relativamente più recenti e riguarda il riaffiorare di PJ Harvey al mondo della musica per canzoni, dopo che di lei, icona dei primi anni Novanta oggi 54enne, non si avevano notizie artistiche in questo senso dal 2016, quando con “The Hope Six Demolition Project”, suo nono album di studio, aveva offerto un diario di viaggio in alcuni dei luoghi più devastati del pianeta, dall’Afghanistan, al Kosovo, ai ghetti di Washington DC – visitati in compagnia del fotografo e regista Seamus Murphy. Poi silenzio e si era parlato di un suo definitivo ritiro dalle scene e di un’attività musicale limitata alla stesure di alcune colonne sonore.
Il passo successivo era stata la pubblicazione di “Orlam”, un bizzarro romanzo in versi scritto nel quasi estinto dialetto della sua regione d’origine, il Dorset nel sudovest dell’Inghilterra, in cui si racconta la storia di Ira-Abel Rawles, una bambina di nove anni che vede i fantasmi, incluso uno, Wyman-Elvis, che è metà Gesù e metà quello che fu il re del rock’n’roll. Proprio “Orlam” è stato il punto di partenza del ritorno della Harvey alla musica con un pregevolissimo lavoro intitolato “I Inside the Old Year Dying”, dodici canzoni registrate col contributo del suo antico collaboratore John Parish e prodotte da Flood. Un album dominato da toni quieti, da groove ipnotici e da notevoli performance vocali, sovente in quel lancinante falsetto che i seguaci di Polly Jean ben ricordano. Il tutto, ovviamente, grondante romanticismo, tanta malinconia neo-folk, rumoristici esperimenti di rock medioevale e atmosfere, anche in questo caso, capaci d’assumere l’alterità dei classici, attraverso l’adattamento musicale di segmenti poetici di “Orlam”, col suo stretto, arcaico dialetto che, a chi s’interessi di liriche, richiederà l’utilizzo del glossario opportunamente fornito in coda al suo libro. Poi è quasi inutile sottolineare che questa lingua strana suoni magnificamente nell’ugola di una delle artiste più pure e decise che Albione abbia prodotto negli ultimi decenni. Di cui salutiamo con gioia il ritorno al mondo delle canzoni, a cui appartiene quanto il suo amato John Keats apparteneva a quello dei sonetti.