La storia
Lode all'ocarina, uno strumento millenario
Uno strumento del Risorgimento, poi relegato all’uso popolare, oggi riscopre le sue origini classiche. Merito (anche) dei giapponesi
Una sera di tardo novembre, al Bunka Kaikan di Tokyo è venuto giù, metaforicamente, il teatro. Duemila persone. Applausi insistenti, due bis, un centinaio di persone in fila per l’autografo. Due ore di concerto che hanno spaziato dal repertorio rossiniano alla musica tradizionale napoletana, dalla “Norma” di Bellini al tango di Piazzolla a “Take Five”. Un evento memorabile per un ensemble musicale inusuale, italiano. Di ocarine.
Il Tokyo Bunka Kaikan è uno dei templi della musica, la “Music Hall of Fame” del Giappone. In fondo al palcoscenico, dietro le quinte, pendono i poster di chi ha suonato in questo teatro, regno dell’opera e del balletto. Ogni muro è coperto da firme e graffiti di artisti che hanno marcato la loro presenza. I manifesti del Teatro alla Scala. E poi la Wiener Staatsoper, il Royal Ballet, l’American Ballet Theater, Bolle in “L’Arlésienne”. Qui hanno diretto Bernstein, Ozawa, Mravinsky e Muti.
L’Italia c’è. Oltre che con il Teatro alla Scala, con il Comunale di Bologna, il Regio di Torino, la Fenice, il Maggio Fiorentino. E il Gob, appunto, acronimo del Gruppo ocarinistico budriese. Nome inusuale in questo contesto. Questo novembre, il Gob è stato in tournée giapponese, la quinta nell’ultimo decennio. Il repertorio è di musica classica e contemporanea, in alcune delle sale più importanti del paese, dal Bunka Kaikan alla Minato Mirai Hall di Yokohama, o alla Sumida Triphony Hall sulle orme di Martha Argerich e Vladimir Ashkenazy. Teatri enormi, sale piene. Un successo.
Ve lo racconto perché io sono tra i sette membri di questo gruppo storico (oltre a occuparmi di ambiente e acqua, di cui scrivo spesso su questo giornale) e suono questo strumento da oltre quarant’anni. E’ una storia tipicamente italiana. Una specie di Chorus Line anonima e al tempo stesso di grande, inaspettato impatto. Sintomo di una disinvoltura italiana nel mescolare cultura alta e tradizione popolare con cura artigianale. Di difficile inquadramento teorico – i filologi da salotto a volte si lamentano – ma di grande effetto.
“Ocarina” significa “piccola oca” in dialetto. “Arghilofono” è forse la definizione più tecnica. Molti ancora associano l’ocarina al cruciverba di Piero Bartezzaghi, che occasionalmente invocava uno “strumento tradizionale in terracotta a undici fori: sette lettere”. Lo strumento nasce nella metà dell’Ottocento. Ha un inventore: Giuseppe Donati, clarinettista, che decise di costruire un flauto in terracotta. L’argilla è materiale abbondante nelle pianure a valle dell’Appennino tosco-emiliano, come hanno visto gli agricoltori emiliano-romagnoli, i cui campi sommersi da sedimenti argillosi durante l’alluvione del maggio scorso sono ancora in parte piastrellati di terracotta arsa al sole.
Donati plasmò creta raccolta lungo gli argini del fiume in uno strumento che, in acustica, si chiama risuonatore di Helmholtz: una camera chiusa dotata di imboccatura e fischietto. La dimensione del corpo determina lo spettro di frequenze e il timbro dello strumento, poi modificate da fori per le dita. Si suona con una diteggiatura simile al flauto dolce. La sonorità, però, è più vicina al flauto barocco, con un suono più lineare, puro. L’assenza di un’apertura in fondo alla camera riduce il numero di armonici, producendo un suono immediato, ma di difficilissima intonazione.
Al contrario degli strumenti in argilla antichi, Donati fa dell’ocarina uno strumento cromatico, in grado di produrre i dodici toni del sistema temperato e di suonare qualsiasi musica. Non si limita a un solo. Eventualmente produce un’intera famiglia: sette strumenti, dalla prima ocarina, la cui nota alla base di un’estensione di una quattordicesima è il do due ottave sopra a quello centrale del pianoforte, alla settima ocarina, il basso che copre l’ottava sotto il do centrale. In questo modo, ha prodotto una tra le più grandi famiglie di strumenti a fiato, assicurandosi un settimino in grado di suonare la musica polifonica del tempo.
Nell’Italia unitaria, in un paese che da secoli discuteva senza successo d’identità nazionale, la musica era un collante culturale. “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. E’ il momento della lirica. Quella che comincia con Rossini, Bellini, e Donizetti, continua con Verdi e finisce con Leoncavallo e Puccini. Il secolo d’oro della casa Ricordi, per intenderci. I successori di Donati attingono da quel repertorio a piene mani. Le prime partiture sono di musica come il duetto tra il Conte di Luna e Leonora.
L’identità nazionale italiana passava per la musica ben prima che fluisse nella geografia. Il settimino di ocarine nasce nell’Italia risorgimentale di un popolo, ancora largamente analfabeta, che conosce le melodie dei grandi eroi della cultura nazionale, che siano di Pesaro, Catania, Bergamo, Parma, Napoli o Lucca. E’ musica di tutti. Parla a tutti. Anche a coloro che non hanno a disposizione null’altro che creta e acqua.
L’ocarina ha successo, e il settimino viaggia. Si fa conoscere. Vive di musica, portando questa particolare commistione di cultura e di tradizione povera in tutta Europa. Pare suoni persino alla corte dello Zar. A seguito delle Esposizioni universali lo strumento si diffonde in tutta Europa, con costruttori italiani che si trasferiscono a Parigi e a Londra, e produzioni autoctone che compaiono in Germania e America verso la fine dell’Ottocento.
Poi, però, scompare. La formazione polifonica a sette sprofonda più o meno nell’oblio a cui la prima metà del Ventesimo secolo condanna molte delle conquiste dell’Ottocento italiano. Il risorgimento viene soffocato dalla propaganda fascista. La tradizione liberale muore con Gobetti, soppiantata da ideologie che trovano terreno fertile in un paese povero e incattivito dalla guerra. E così, da strumento con vocazione universale, ponte tra cultura musicale alta e popolare, l’ocarina viene assorbita nel folklore sciovinista del fascismo provinciale, intrattenimento banale invece della resistenza invocata dalle musiche di un coro di ebrei prigionieri.
E così il settimino di ocarine si ritrova a essere curiosità locale, relegato alle feste paesane, anacronisticamente usato per suonare liscio e balli popolari. Questa nuova identità si consolida nella seconda metà del Ventesimo secolo. Bernardo Bertolucci la immortala nella scena campestre del film “Novecento”, con il settimino budriese filmato mentre suona una polka camminando in un bosco di pianura, colonna sonora del suicidio di Alfredo (Burt Lancaster). Poco importa se fosse poco realistico. Bertolucci aveva scelto l’ocarina perché gli ricordava la sua infanzia nel dopoguerra emiliano, quando la tradizione del settimino classico risorgimentale era stata ormai attivamente dimenticata.
In realtà, gli echi lontani della tradizione sopravvivevano nella musica colta. Compositori come Ligeti, Paderewski, Janácek, Harrison hanno tutti usato l’ocarina in formazioni sinfoniche o da camera. Lo strumento è comparso in musical di Irving Berlin. Ennio Morricone, grande conoscitore di strumenti, usa l’ocarina nella colonna sonora de “Il Buono, il brutto e il cattivo”, come leitmotiv del sicario Sentenza (Lee van Cleef), e in “Per qualche dollaro in più”, affiancando i famosi temi fischiati di Alessandro Alessandroni. Ma l’unica fievole fiamma a mantenere la memoria completa del passato storico è la scuola comunale di ocarina a Budrio che, grazie alla spinta di alcuni appassionati, apre i battenti alla fine degli anni Settanta. Ed è da lì che questa storia dell’ocarina è ripartita.
Il risorgimento del settimino di ocarine negli ultimi anni è il prodotto di due fattori. Il primo è stata la riscoperta dello strumento da parte dei giapponesi. Come ci insegna la vicenda di Bernard Berenson, a volte servono gli stranieri per farci notare ciò che regolarmente ignoriamo anche davanti ai nostri occhi. L’ocarina era arrivata in Giappone già negli anni Trenta, sull’onda lunga della produzione ottocentesca. I settimini non si erano diffusi, ma varie aziende e costruttori giapponesi cominciarono a produrre strumenti. Poi, negli anni Ottanta, il musicista Sojiro ha pubblicato dischi come ocarinista solista, vincendo svariati dischi di platino. L’ocarina ha raggiunto la cultura di massa giapponese. Appare in alcuni cartoni animati: qualcuno si ricorderà Mayu, la bimba di “Capitan Harlock” che suona, appunto, l’ocarina, o “Il mio vicino Totoro” di Miyazaki, dove il personaggio del titolo suona appollaiato su un albero.
Poi, nel 1986 la Nintendo pubblica la prima versione del videogioco “La leggenda di Zelda”, uno dei più venduti di sempre. In una delle sue prime iterazioni appare l’ocarina. Poi alla fine degli anni Novanta in “The legend of Zelda: Ocarina of Time”, l’ocarina diventa elemento cardine del gioco, alimentando l’interesse per lo strumento anche tra i giovani, prima in Giappone, poi in Corea, Cina e ora sempre più anche in America.
Ma per riscoprire la tradizione non bastava la diffusione dello strumento. Serviva anche un’intuizione musicale. E così è stato, grazie a Emiliano Bernagozzi, maestro flautista di grande livello, orchestrale italiano talentuoso che ha suonato sotto la bacchetta dei più grandi direttori del mondo. Emiliano è un musicista vero, di quelli che usano le orecchie invece di affidarsi a ciò che si dice. E con quelle orecchie e un po’ di immaginazione è riuscito a sentire, forti e chiari, gli echi che da oltre un secolo ancora ci raggiungono.
Ha arrangiato di tutto per ocarina. Riprendendo in mano la tradizione di orchestrazione ottocentesca: Sinfonie di Rossini, da “La Gazza Ladra” a “L’Italiana in Algeri” o “Il Signor Bruschino”, ouverture come “Il Viaggio a Reims” o “Il Barbiere di Siviglia”, sinfonie di Verdi come “Nabucco” e la “Forza del Destino”, la “Norma” di Bellini. Con Emiliano, la tradizione risorgimentale del settimino è risorta. Forte di un repertorio rinnovato, ha riempito teatri in Giappone, con appassionati dello strumento a caccia di CD e autografi.
Suonare in un settimino di ocarine è un po’ come fare gli equilibristi senza rete. E’ uno strumento accessibile, ma la semplicità è foriera di difficoltà immense. Lo strumento è squillante, immediato, potente. Qualsiasi imprecisione è esposta senza scampo. La terracotta risente delle condizioni ambientali. Ogni strumento nasce con imperfezioni incontrollabili, frutto di una cottura a oltre mille gradi centigradi dove tra gli ingredienti c’è il caso. In più è sensibilissimo alla pressione del soffio, molto meno stabile di strumenti ad ancia o del flauto traverso. La purezza del suono, dovuta ai pochi armonici, rende impossibile nascondersi. Intonare uno strumento così è tutt’altro che banale. Figurarsi intonarne sette per fare musica polifonica. L’incubo di Tartini.
Ma quando funziona, in un ambiente dall’acustica generosa, il settimino di ocarine è un organo di straordinaria complessità, in grado di contrappunti inaccessibili alle mani di qualsiasi organista, e che sette musicisti possono intrecciare. L’effetto, pienamente orchestrale, può essere bellissimo. Durante i concerti in Giappone, liberi dai pregiudizi del folklore, abbiamo avuto spettatori in lacrime per il forte impatto di sette voci che si inseguono in armonie complesse, risolte in accordi rotondi e pieni.
Il settimino di ocarine sta attraversando un piccolo, gioioso rinascimento. In questa tournée abbiamo suonato per circa 15.000 persone, che hanno scoperto la musica italiana attraverso la sua mobilitazione popolare. L’anno prossimo ci aspetta un’altra tournée: oltre 20 date in tutto il Giappone. Da qualche anno, un festival a Budrio celebra questo strumento, attirando visitatori da tutto il mondo. Dopo anni di attese, il ministero ha recentemente attivato una cattedra di ocarina, e il conservatorio di Bologna ha stabilito il corso accademico di primo livello di musiche tradizionali a indirizzo ocarina. Primo insegnante, ovviamente, Emiliano Bernagozzi. Con la speranza che anche l’Italia superi l’eredità pesante del suo Ventesimo secolo e riscopra la propria tradizione risorgimentale. Anche con la musica di un settimino di ocarine.