Angelina Mango sul palco del Festival di Sanremo (foto LaPresse) 

all'Ariston

Angelina Mango piace perché non è assimilabile a nessun altro a Sanremo

Enrico Veronese

“La noia” già dal primo passaggio di martedì non ha lasciato indifferente il pubblico. Cumbia e la mano di Madame fanno la differenza al Festival. Il padre con “Lei verrà” finì solo quattordicesima nel 1986. Titolo che suonava da presagio per il destino della figlia

Uno spot pubblicitario in voga tempo fa recitava: “Solo perché mi chiamo Maldini, non vuol dire che io sia nato calciatore”, con riferimento all’augusto padre del fuoriclasse. La genetica spiega qualcosa, certo non tutto, della (resistibile?) ascesa di Angelina Mango, trionfatrice di Amici e oggi in pole position per aggiudicarsi il Festival di Sanremo 2024: nata in una casa di musica, tra il pop mediterraneo di papà Pino e la famiglia Matia Bazar della madre Laura Valente, la quasi 23enne ha vinto a mani basse la prova infrasettimanale della giuria demoscopica e delle radio, cedendo alla sola Loredana Bertè nella graduatoria dei media specializzati.

Tutto provvisorio, certo, e molto dipenderà dal venerdì delle cover: là Angelina gioca ruffiana con “La rondine”, eredità paterna si spera senza il momento Natalie Cole, accompagnata da un solo quartetto d’archi e nessuna primadonna o primattore a condividere la scena.

 

     

Intanto “La noia” già dal primo passaggio di martedì non ha lasciato indifferente il pubblico, che le ha tributato quasi unanimi consensi al termine dell’esecuzione, scandendo dalla platea il suo nome protonovecentesco.

   

    

Qualcuno si spinge a dire “povero chi canta dopo questo ciclone”: Annalisa entrata papessa forse uscirà cardinale, e campioni del televoto quali Irama o Il Volo le arrancano alle spalle nelle previsioni degli allibratori, in un’edizione che lo stesso Amadeus riconosce come molto difficile da vaticinare.

A cosa si deve tale prova di forza? La ragazza, adolescente quando il celebre padre entrò nell’immortalità da sopra un palco (“e mi hanno detto che la vita è preziosa”), senza essere una virago occupa fisicamente lo spazio con modi e moti ipercinetici: “A stare ferma mi viene la noia”, così canta infatti. Ma soprattutto apre le porte alla cumbia, il popolare genere di origine colombiana che da queste parti ha conosciuto una fugace curiosità a metà anni Dieci, tramite l’omonimo Istituto Italiano e il progetto Viva Viva Malagiunta. Un nuovo tentativo forse estemporaneo, certo coraggioso.

Come suona “La noia”? Il brano è saturo, praticamente privo di silenzi, ridondante a rasentare l’eccessivo, come sgorgasse da una sorda radio a tutto volume. E se a Sanremo pure una venerabile come Fiorella Mannoia la insegue nell’inerpicato terreno flamenco (“la cumbia della Mannoia” è però più classica), il premio Anto’ Fa Caldo della locura nessuno lo può togliere alla giovane lucana, smaniosa come poche nella credibile interpretazione sopra le righe. Torrida controra, notti bruciate, corone di spine per nozze di sangue, di vino rosso e virtù: scorre il sangue nel ritornello che paga debito a “Gracias a la vida”, lo standard reso eterno dalla povera Violeta Parra.

Nella kermesse del presunto self empowerment al femminile (“Princess, ti chiama princess / allora adesso smettila di lavare i piatti”), Angelina non è solo ancestrale: anzi si muove da donna d’affari, “intanto chiudo gli occhi per firmare i contratti” col fare da trapper di penultima generazione, che non è. Ma che deve al secondo elemento decisivo del suo fresco successo di massa: la coautrice, Francesca Calearo in arte Madame, che dissemina il testo di suoi indizi evidenti come “a me hanno dato le perline colorate per le bimbe incasinate con i traumi”, e si appresta a mettere cappello per interposta collega.

Complice la cumbia totalizzante si sente meno stavolta la mano di Dardust, re Mida del Nuovo Canone sanremese, rispetto alla sua riconoscibile cifra consueta: e questo è il terzo input che può spiegare la strada spianata alla figlia d’arte. In un contesto sospeso tra restaurazione anni Ottanta (Ricchi e Poveri, il ritornello di Emma, i colori sgargianti e il dominio dei synth) e residue sacche di resistenza melodica, Angelina Mango rappresenta la rara differenza – assieme alla pacificata Loredana Bertè – che colpisce proprio per non essere assimilabile.

Succedeva negli anni addietro a Colapesce e Dimartino, alla Rappresentante di Lista: oggi sta avvenendo non del tutto a sorpresa, come fu per il Mahmood di “Soldi” – a proposito, bella strofa delicata e raffinata – bensì un po’ annunciata dai background, appunto la famiglia e il talent show. Fasciata in granfoulard, espansa, sudaticcia, soprattutto vera: Bentivoglio Angelina non ha bisogno di alcuna espiazione per farsi integrare.

E già si pensa al potenziale da Eurovision Song Contest: c’è chi ne coglie il tratto musicale di Stromae, chi fantastica una Dua Lipa rimasta levantina. Ma l’allure internazionale del pezzo (sempre dovesse vincere in Riviera, ci sta il mare fuori) sarebbe garantita dal melodramma latino, il teatro gestuale di cui siamo maestri con le mani: eterno sud da cartolina che funziona proprio perché tipico, capace per questo di catalizzare proficuamente – da pari a pari – gli incontri con altri caldi meridiani analoghi. Là dove tutto cambia, affinché niente abbia a cambiare.

“Vivo perché soffrire fa le gioie più grandi”: ciò che non uccide, notoriamente fortifica. Angelina sta forse per riuscire là dove alla gran voce di babbo Pino fu precluso (e che pure avrebbe meritato), quel sigillo del successo che solo un nome scritto nell’albo d’oro consegna alla storia: “Lei verrà” finì solo quattordicesima nel 1986, uno scandalo. Titolo che suonava da presagio per il destino della figlia, come un testamento. Se ne parla da mesi: Angelina verrà, Mango muore senza morire.

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