1824 - 2024
"La mia patria". Il mistero della musica nel capolavoro del compositore boemo Bedrich Smetana
Duecento anni fa nasceva il famoso compositore de "La Moldava", il poemetto che celebra la bellezza del fiume da cui prende il nome. Ancora oggi è un simbolo dell'esperienza umana
Il più autentico valore delle ricorrenze artistiche è forse quello di favorire l’immedesimazione, l’immersione nella concretezza di un momento passato invitandoci a porre con più attenzione lo sguardo su un’opera o un autore. In questo caso gli anniversari si sovrappongono e i duecento anni dalla nascita del compositore boemo Bedrich Smetana, risalente al 1824, coincidono con i 150 della sua pagina più rinomata, messa sul pentagramma in sole tre settimane nonostante la sordità che, pur abbattendo inesorabilmente l’animo del maestro cinquantenne, non riuscì ad allontanarlo dal lavoro creativo. Le aspirazioni a un’indipendenza dal dominio asburgico vanno di pari passo con la ricerca attorno alla propria identità culturale, con il desiderio di individuare attraverso la musica la sensibilità della propria terra ed ecco – a celebrare gli ideali all’unità nazionale che la Boemia, in quel contesto, viveva – la genesi del ciclo significativamente intitolato La mia patria, la cui sezione più suggestiva è una pagina musicale intitolata al fiume che, trovando le sue sorgenti nei pressi della Selva Boema, attraversa tutta la regione fino a Praga. La genialità dell’autore de La Moldava – poi innalzato alla considerazione di padre della musica ceca – sta nel riuscire, in dodici minuti di musica prettamente descrittiva come spetta alla forma del poema sinfonico, a condurre l’ascoltatore attraverso il percorso del fiume: dalle sue sorgenti, rappresentate dalle fragili movenze dei flauti che aprono l’opera, in una lunga discesa attraverso il bosco, incontrando le atmosfere di una festa popolare, senza escludere una mitologica immagine di ninfe al chiaro di luna, fino alle cascate che precedono la vasta pianura oltre la quale, modulato su toni più sereni il suo corso, il fiume entra finalmente nella capitale. Waldeinsamkeit, contemplazione, nostalgia.
Opera di immediato e trascinante coinvolgimento dei sensi, partitura pervasa di temi popolari e impliciti riferimenti ai luoghi, alla storia, ai tratti più specifici della regione boema, questa pagina pone sul pentagramma i tratti espressivi di un popolo o – come scrisse Franz Liszt, che molto stimò l’amico Smetana – “i sentimenti confusamente provati da tutti, frammentariamente disseminati nei cuori”. Musica descrittiva, certo, eppure – come sempre accade – veicolo di un’espressione che conduce l’ascoltatore molto al di là di ciò a cui nel progetto formale si intende riferirsi. Le note che additano il corso del fiume divengono il luogo di una commozione che – come solo la musica forse sa fare – si mostra capace di parlare dell’uomo, della sua interiorità, della sua coscienza, innalzando l’espressione specifica e particolare al rango di una dimensione universale: appartenente, cioè, non agli uomini di una determinata cultura, bensì all’uomo in quanto uomo. Slegandosi d’un tratto dalle componenti particolari, ecco che una pagina concepita durante un’escursione nella natura viene a richiamare, più che il corso d’un fiume, qualcosa che somiglia all’incedere stesso dell’essere umano nell’esistenza, aprendo lo spazio alla meravigliosa polisemia della musica, in modo che, a ogni ascolto, essa svela sempre qualcosa di nuovo (“Ogni volta che ci poniamo di fronte ad esse, le grandi opere appaiono diverse. Sembrano inesauribili”, scrive Ernst Gombrich nelle prime righe della sua Storia dell’arte). La profondità della musica, del resto, sta proprio nella sua irriducibilità a qualcosa che possa definitivamente afferrarsi o divenire parola: “Tutti vogliono capire l’arte. Perché non cercare di capire il canto di un uccello?”, disse un giorno Picasso. L’immagine del fiume pare spostarsi sempre più sullo sfondo, per lasciare lo spazio a quella dimensione assolutamente individuale in cui accade il mistero del significato: ciò che la musica – si direbbe – continua a svelare a noi che l’ascoltiamo, senza mai riuscire a svelarlo del tutto.