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Bob Dylan è una figura eterna
A che punto sono gli studi sul cantautore sempre in bilico tra fede e scetticismo. Lo scrittore Marco Zoppas ha intervistato 13 esperti per indagare su quella disciplina che è stata definita Dylanologia
Dal letame nascono i fior, cantava Fabrizio De André. A proposito di Bob Dylan, un altro cantautore che per De André fu ispiratore e che lo stesso De André tradusse: dall’immondizia è nata una scienza, grazie ovviamente anche al Nobel. E su questa scienza è ora uscito un libro scritto da un italiano, e presentato sia al Parlamento europeo che ad Harvard: “Bob Knows: Conversations with Dylanologists” (McFarland, 147 pp., 39,95 dollari). Richiamo a “God Knows”, canzone di Dylan del 1990: “Dio sa che devi piangere / Dio conosce i segreti del tuo cuore / Te li dirà mentre dormi / Dio sa che c’è un fiume / Dio sa come farlo scorrere / Dio sa che non ti prenderai / Niente con te quando andrai / Dio sa che c’è uno scopo / Dio sa che c’è una possibilità / Dio sa che puoi superare l’ora più buia / Di qualsiasi circostanza / Dio sa che esiste un paradiso / Dio sa che è fuori dalla vista / Dio sa che possiamo arrivare da qui a lì / Anche se dovremo camminare per un milione di miglia a lume di candela”. 28 anni dopo, è la risposta alle domande che “Blowin’ in the Wind” cercava nel vento?
Professore di inglese, saggista e cultore di Dylan, trevisano trapiantato a Roma, Marco Zoppas nel 2016 aveva scritto un altro libro: “Ballando con Mr D. Nessuno canta il blues come Bob Dylan”. Sul Foglio ce ne eravamo appunto occupati, esplorando in particolare la tesi che contestava un’etichetta di “sinistra” spesso sbrigativamente appioppata a un autore ben altrimenti complesso. Certo, non solo “Blowin’ in the Wind” ma anche “Masters of War” e “With God on Our Side” erano stati letti come potenti messaggi pacifisti sul Vietnam. Ma nel 1983, ad esempio, Dylan fu anche l’autore di “Neighborhood Bully”: veemente presa di posizione pro Israele scritta per la guerra del Libano del 1983, perfettamente di attualità dopo il 7 ottobre di Hamas. “Bè, il bullo del quartiere è solo uno / I suoi nemici dicono che è sul loro territorio / Loro sono più numerosi circa un milione contro uno / Lui non ha nessun posto dove scappare, nessun posto dove correre / È il bullo del quartiere”. “È circondato da pacifisti che vogliono la pace / Loro pregano ogni notte perché lo spargimento di sangue finisca / E non farebbero male ad una mosca, a far male a qualcuno piangerebbero / Ma si nascondono e attendono solo che questo bullo cada addormentato / È il bullo del quartiere”. Anche se ora Zoppas osserva che “se pensiamo soltanto al titolo, non mi pare che essere considerato il bullo del quartiere sia un complimento”.
Una voluta ambiguità, probabilmente. Ma, a proposito di ambiguità, si osservava che pure una cosa come “It Ain’t Me Babe”, “Vattene dalla mia finestra, / vattene alla velocità che preferisci. / Non sono quello che vuoi, baby, / non sono quello di cui hai bisogno”, poteva essere letta come una presa di distanza da comunisti, radical chic e affini. E “Maggie’s Farm”: “Non lavorerò più alla fattoria di Maggie / No, non lavorerò più alla fattoria di Maggie / Bè, mi sveglio la mattina, / incrocio le braccia e prego che piova”. E’ una pretesa invettiva anti capitalista che in realtà potrebbe essere molto più correttamente letta in chiave anti collettivista. Cosa che diventa ancora più presumibile per quella “It’s Alright, ma” che attacca con un “Darkness at the break of noon”, citazione quasi letterale dal titolo di un classico dell’anticomunismo come “Buio a mezzogiorno” di Arthur Koestler. E in quest’ultimo libro si cita pure “Love Minus Zero/No Limit”: canzone del 1965 dedicata alla moglie, ma dove “statue fatte di fiammiferi / crollano l’una dentro l’altra”. Premonizione della cancel culture?
A proposito però di premonizioni, Zoppas a inizio del libro del 2016 ricordava: “Oggi figura tra i papabili per l’assegnazione del Premio Nobel della Letteratura”. La profezia si avverò esattamente sette mesi dopo, e da lì venne l’idea per quel libro che Zoppas e l’autore di queste note pubblicarono nel 2018: “Da Omero al rock. Quando la letteratura incontra la canzone”. Ma di lì venne anche la consacrazione definitiva per quella disciplina che è stata definita Dylanologia. E pure in “Ballando con Mr D” Zoppas ne raccontava il fondatore nella singolare figura di Alan Jules Weberman, che nel 1970 si mise ogni giorno a ispezionare nel bidone dell’immondizia del cantante, per cui aveva un singolare rapporto di odio-amore, non senza presumibili risvolti autobiografici. Classe 1945, Weberman era infatti figlio di un ebreo ortodosso di Brooklyn che a sua volta ispezionava regolarmente la spazzatura domestica per assicurarsi che la moglie non avesse acquistato cibo non kosher.
In carcere per due giorni quando aveva 19 anni per spaccio di marijuana, a 24 anni Weberman scrisse l’opuscolo “Dylanology” apposta per proporre un metodo di studio delle sue canzoni, e allo stesso tempo fondò un Dylan Liberation Front, con il musicista di strada David Peel. Attenzione: non un movimento per “liberarsi da Dylan”, ma per “liberare Dylan”, “aiutare a salvare Bob Dylan da se stesso”. Fatto scatenante: il volto dolce e sorridente di Dylan sulla copertina del suo album del 1969 “Nashville Skyline”, secondo lui evidente prova che il cantante considerato icona del ‘68 si nascondeva dalla sua coscienza sociale e ignorava le sue responsabilità di portavoce politico della controcultura. Quando Dylan tornò al Greenwich Village, Weberman iniziò dunque a frugare nella sua spazzatura, esattamente come aveva fatto suo padre per controllare la purezza religiosa di sua madre. In particolare, sembra che volesse dimostrare la tossicodipendenza di Dylan, per provare che le sue canzoni d’amore rappresentavano un omaggio velato all’eroina.
Allo stesso tempo, Weberman iniziò a tenere lezioni di Dylanology presso una Alternate University of New York legata all’estrema sinistra, mentre il Dylan Liberation Front cercava di diffondere negli stessi ambienti l’idea che il cantante fosse diventato una “forza reazionaria nel rock”. Anzi, dal Dylan Liberation Front nel 1971 nacque un più ampio Rock Liberation Front, con l’obiettivo di “liberare” gli artisti dalle tendenze borghesi. Alla fine, Dylan decise di prendere il toro per le corna, e invitò l’importuno a casa sua. Tanto per rompere il ghiaccio gli fece vedere i quadri che stava dipingendo in stile vagamente impressionistico, e gli chiese se gli piacevano. “Lìmitati alla poesia”, fu la sprezzante risposta. “Ma io dipingo quello che ho in testa”. “Sì, il vuoto”. Dylan rise. Weberman lo ammonì sul dovere di restare all’altezza delle sue responsabilità come “eroe culturale”: “Tu sei Dylan, non c’è fricchettone che non abbia un debole per te in fondo al cuore, tu sei Dylan, Dylan, Dylan”. “Per me stesso non sono un mito, solo per gli altri”.
Weberman, se non altro, per un po’ smise di rovistare nei bidoni. Ma poi riprese, e nel 1971 Dylan lo affrontò in modo molto più brusco. La nota rivista Rolling Stone raccontò la vicenda definendo Weberman “il re di tutti i pazzi di Dylan”, nel 1977 le loro conversazioni telefoniche furono addirittura riportate in un disco, nel 1997 Rolling Stone riferì che Weberman si era messo a perseguitare anche il figlio di Dylan, Jakob, per dimostrare che era eroinomane, ma nel 2005 scrisse infine un “Dylan to English Dictionary”. Nel frattempo il termine “Dylanologia” aveva iniziato a essere usato anche da studiosi meno freak, e dopo il Nobel per la Letteratura è stato definitivamente sdoganato. Tant’è che Zoppas ha trovato ben 13 esperti da intervistare.
Con Richard F. Thomas, filologo di Harvard, ha parlato del rapporto di Dylan con Roma e i classici, a partire del suo libro “Why Bob Dylan Matters”. “Nel suo libro Thomas arriva a sostenere che Roma ha un ruolo addirittura più importante di New York nei testi di Dylan per una serie di motivi, non ultimo quello dei continui riferimenti ai classici latini”, ci ricorda Zoppas. “D’altronde i suoi concerti nella capitale hanno spesso avuto qualcosa di molto particolare, tra tutti ricorderei quelli del 6 e 7 novembre 2013 all’Atlantico che sono ormai entrati nella storia degli appassionati. Non penso sia nemmeno un caso che Francesco De Gregori abbia scelto proprio l’Atlantico per proporre le sue versioni dal vivo dei brani dylaniani tratti da ‘Amore e furto’”.
Secondo della lista è Andrew Muir: autore di tre libri su Dylan tra cui uno sui rapporti con Shakespeare, che è il tema della seconda intervista. “Due cose mi hanno colpito nel parallelismo fatto tra Dylan e Shakespeare da Andrew Muir”, spiega sempre Zoppas. “L’enorme conta delle vittime che riscontriamo nelle vicende raccontate da questi due geni della letteratura e l’ambiguità delle loro rispettive affiliazioni religiose. Non si capisce bene in entrambi i casi a quale parrocchia appartengano veramente”. In bilico tra protestantesimo, cattolicesimo e scetticismo Shakespeare; tra ebraismo e cristianesimo Dylan.
Terza intervistata è Britta Lee Shain: ex tour manager che ha avuto una breve ma intensa relazione con Dylan, traendone l’impressione di un uomo “con l’anima di un nero e il cervello di Albert Einstein”. Quarto Heinrich Detering: docente di Letteratura tedesca e comparata all’Università di Gottinga, che oltre a scrivere di Goethe, Mann, Brecht, Nietzsche, Grass e Andersen ha anche dedicato due libri a Dylan, di cui uno sulle “Voci degli inferi. Le opere misteriose di Bob Dylan”. Con Zoppas parla di altre relazioni di Dylan: da Petrarca a Ovidio e da Omero a Brecht. Ma dopo di loro il tema della religione di Dylan, già accennato in Muir, torna prepotente con il pastore protestante e teologo australiano Phil Mason che parla del messaggio cristiano di Bob Dylan. È noto che dopo la prima fase folk della sua carriera e quella seconda fase rock segnata dall’adozione di strumenti elettrici, vista da alcuni dei primi fan come un tradimento, Dylan dopo una sua conversione evangelica passò per una terza fase cristiana, poi seguita da una quarta fase pop.
Dylan, però, è anche di radici ebraiche, e a un certo punto è tornato a frequentare ambienti di ebrei ortodossi. Ma è il tipo che quando canta di fronte al Papa si esibisce in “Blowin’ in the Wind”, mentre quando fa concerti in Israele predilige le scalette di canzoni cristiane. Mason va dunque messo a confronto con Aubrey L. Glazer: un rabbino canadese fondatore di un think tank di studi sul misticismo ebraico e autore a sua volta di un saggio sul Dylan gnostico, che è presente addirittura con due interviste. La settima: appunto sul Dylan gnostico. La quattordicesima: “Kubrick, Dylan, Cohen. Cabalisti intuitivi?”. E anche con Stephen Daniel Arnoff: presidente di quel Fuchsberg Center che è al vertice dell’ebraismo conservatore in Israele, scrittore, e autore dello studio “About Man and God and Law: The Spiritual Wisdom of Bob Dylan”. Anche lui con due interviste: la decima, “Le moltitudini di Dylan”, e la dodicesima, che riprende il titolo del suo libro. “Questione intensa e complicata”, ci conferma Zoppas. E ci ricorda che secondo Glazer “tutte le passioni religiose di Dylan hanno un elemento in comune: devono essere estreme. Preferibilmente intense, non istituzionalizzate e di carattere spontaneo. Forse non è casuale che quasi a ridosso l’una dall’altra Dylan frequentasse alla fine degli anni Settanta e inizio Ottanta sia la Vineyard Fellowship in ambito cristiano che la comunità dei Chabad-Lubavitch in ambito ebraico”.
Zoppas trova anche “affascinante” quella “definizione di cabalista intuitivo proposta da Glazer in seguito alla sua personale frequentazione del critico letterario Harold Bloom, che a sua volta con il teologo Gershom Scholem discorreva sulla possibilità dell’esistenza di cabalisti intuitivi”. Scholem nel 1963 si domandò: è ancora possibile trovare mistici dopo la conclusione del rinnovamento ebraico chiamato Chassidismo avvenuto in Europa dell’est nel XVIII secolo? Lui si rispose che nella sua prospettiva no, non ce n’erano. Esistevano però mistici intuitivi che non erano necessariamente neppure ebrei, ma possedevano un dono dell’intuizione in grado di creare straordinarie visioni simili a quelle dei cabalisti nel periodo medievale del misticismo ebraico. “Immensi artisti di origine ebraica ma non ortodossi come Dylan, Leonard Cohen e Stanley Kubrick, si domanda Aubrey Glazer, possono essere annoverati come cabalisti intuitivi?”.
La sesta intervista è con Anne-Marie Mai, una docente danese membro del comitato che seleziona i candidati al premio Nobel. Autrice a sua volta di due libri su Dylan, parla della sua “poesia multistrato”. L’ottava e l’undicesima intervista sono con Graley Herren: un docente di Inglese alla Xavier University, tenuta dai Gesuiti a Cincinnati, esperto in Letteratura irlandese moderna, dramma moderno, Samuel Beckett, Don DeLillo e Bob Dylan, su cui ha scritto “Time Out of Mind Revisited”. Il primo dei suoi due interventi è infatti “Da DeLillo a Dylan”; il secondo sul suo libro. La nona intervista è con Rudy Salvagnini: padovano fumettista della Disney e inoltre scrittore e critico cinematografico, che infatti parla del rapporto tra Dylan e il cinema. Stesso tema delle ultime due interviste: a Giulio Pantalei, rocker italiano anche autore di un libro su rock e letteratura, che parla di Dylan e David Lynch; e a Doris Hambuch e Ioannis Galanopoulos Papavasileiou, docenti all’Università degli Emirati Arabi Uniti, su Dylan e Martin Scorsese.
Spiega Zoppas che “la nascita del libro è stata fortuita”. Una recensione al libro di Richard F. Thomas mandata via mail all’autore: “A mio avviso il dylanologo più autorevole a livello internazionale”. A sorpresa, in capo a poche ora arriva una risposta: “Sono a Roma, prendiamo un caffè insieme in via Veneto?”. Da lì nascono una corrispondenza via email, un’intervista, e il consiglio di sentire anche Muir. “Da allora in poi ci ho preso gusto e sono andato in cerca di esperti un po’ ovunque nel mondo. Le interviste non potevano che svolgersi in inglese. Fortunatamente la casa editrice statunitense McFarland ha infine deciso di pubblicarle in un unico volume, sono riuscito a collezionarle in un periodo di quattro anni, dal 2019 al 2022. Comincio a credere alle coincidenze, quello che Jung chiamava sincronicità, perché il 27 marzo Richard Thomas mi ha invitato a tenere insieme a lui una conferenza su Dylan presso l’università di Harvard! Farò un mini tour statunitense, il 26 marzo per presentare ‘Bob Knows’ nella cittadina di Dayton nell’Ohio e il 27 alla Xavier University di Cincinnati, per poi approdare a Harvard”.
Dopo essere passato il 22 febbraio per il Parlamento europeo, dove assieme alla presentazione c’è stato anche un concerto di Pantalei: “Like a Rolling Stone”, “Tangled Up in Blue”, “Knockin’ on Heaven’s Door”. “Per la verità, poi ci hanno detto che la suonata non si sarebbe potuta fare. Ma noi l’avevamo già fatta”.