L'opera
Santa Cecilia e Pappano con “La Gioconda”: il sovranismo musicale
Se c’è un’opera adatta a una bacchetta iperteatrale come quella di Tony Pappano è La Gioconda di Amilcare Ponchielli. La direzione è una meraviglia di colori accesi, forti contrasti, accompagnamenti perfetti e inaspettate finezze
Che l’Orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia fosse la migliore orchestra italiana era palese e non vuol poi dire molto; che se la giocasse alla pari con i migliori complessi internazionali lo conferma l’accoglienza come orchestra in residenza al Festival di Pasqua di Salisburgo, quello fondato da Karajan: sede più prestigiosa è difficile immaginare. Ceciliani in grande spolvero con il ritorno sul podio di sir Tony Pappano, direttore musicale per diciotto anni, e il titolo d’opera che non t’aspetti, La Gioconda di Amilcare Ponchielli (1876), già biasimata in quanto emblema del più smodato kitsch melodrammatico, ma qui il merito è anche del folle libretto di Tobia Gorrio alias un Arrigo Boito particolarmente sfrenato ed efferato, e a lungo sbrigativamente liquidata come “opera da cantanti”, fra l’areniano e il protoverista: in effetti, di voci ce ne vogliono sei, e tutte importanti. Bisognerebbe, al solito, contestualizzare: il Giocondone, com’è affettuosamente nota agli habitué, è figlia del suo tempo, quando all’ombra del colosso Verdi prosperavano l’“opera-ballo” come versione italiana del grand opéra di Meyerbeer considerato, prima della sbornia wagneriana, il massimo della musica “filosofica”. Il modesto ma solido Ponchielli le apportò il suo istinto teatrale e la sua vena melodica: a patto di non prenderla troppo sul serio, La Gioconda funziona ancora perfettamente.
Da Paderno Fasolaro (oggi Paderno Ponchielli) a Salisburgo il passo è lungo: però se c’è un’opera adatta a una bacchetta iperteatrale come quella di Pappano è appunto La Gioconda. E infatti la direzione è una meraviglia di colori accesi, contrasti accesissimi, accompagnamenti perfetti, inaspettate finezze. Così La Gioconda sembra davvero quel capolavoro che non è; dopo “La danza delle ore”, già sublimata da Walt Disney, se ne veniva ’o teatro, questo invece è Eduardo. Merito anche di Orchestra e Coro (sempre ceciliano con rinforzi locali) splendidi e, ovvio, della compagnia di canto. Per quel che riguarda Anna Netrebko, bisogna riandare a Renata Tebaldi per ritrovare un simile splendore vocale: una colonna immensa e sontuosa di voce che va dal grave all’acuto senza una frattura o uno scalino, capace anche di pianissimi meravigliosi. Che quello sul si bemolle di “Enzo adorato” si sia spezzato serve solo a dimostrare che sono umane anche le divinità. Allo stesso livello, Luca Salsi rende finalmente giustizia a Barnaba, di cui fa il cartone preparatorio di Jago e non un semplice cattivo da feuilleton. Il divo Jonas Kaufmann canta un bel “Cielo e mar”, peraltro servitogli da Pappano su un vassoio d’argento, e per il resto gioca un po’ di rimessa. Ci sono anche una discreta Laura, Eve-Maud Hubeaux (però nel duetto la Netrebko “se la magna”, come giustamente notato da un romano in trasferta), una Cieca insolitamente buona, Agnieszka Rehlis, un Alvise prevedibilmente imbarazzante, Tareq Nazmi, e due ottimi comprimari italiani, Nicolò Donini e Didier Pieri.
Disgraziatamente c’è anche lo spettacolo insensato di Oliver Mears, indeciso se prendere sul serio l’opera o sfotterla, ambientato una Venezia contemporanea invasa da torme di turisti in infradito dove la cantatrice Gioconda in lamé si esibisce dando le spalle alla platea e muovendo il lato B a ritmo di musica, bonjour finesse. Altre chicche: Kaufmann-Enzo vestito da yachtsman (accompagnato da marinaretti in bermuda), Barnaba da cuoco, e un finale dove Gioconda non muore, ma in compenso uccide prima Alvise (e tutti: giusto, cantava così male!) e poi Barnaba, che nel Preludio l’aveva stuprata dopo che le era stata venduta dalla mamma, boh. Il regista ha rimediato un paio di buuu (nei teatri italiani si lincia per molto meno), trionfone per tutti gli altri.
Sempre Pappano e Orchestra sugli scudi al primo dei tre concerti. Musiche tutte italiane, con una pagina meravigliosa come La ritirata notturna di Madrid di Boccherini trascritta e “sovrapposta” da Berio, l’Elegia di Ponchielli e un bizzarro poema sinfonico di De Sabata, Juventus; poi, naturalmente, le due specialità della casa ceciliana, le Fontane e i Pini di Roma di Respighi. Ovazioni, boati da stadio e standing ovation dopo il programma ufficiale e i due bis, l’intermezzo di Manon Lescaut e il galop del Tell (come dire: hai voglia a scrivere poemi sinfonici, sempre il paese del melodramma siamo). Un’orchestra italiana che trionfa con un programma italiano al festival più prestigioso del mondo: c’è più identità, orgoglio e patria qui che in mille paraculate nazionalsovraniste da comizio.