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il nuovo album

Tradizione bianca ed espressività black: la visionaria eleganza di Beyoncé

Stefano Pistolini

Il secondo volume di “Cowboy Carter” è ricco di ospiti eccellenti, nuovi talenti e riferimenti musicali eclettici: assomiglia più a una performace che a un album e suona come un discorso sullo stato musicale della nazione

E’ troppo difficile collocare Beyoncé nel panorama musicale contemporaneo. Rinunciamoci E ascoltiamo il suo nuovissimo album “Act II: Cowboy Carter”, poi magari ci torniamo dopo. 

Premessa: Beyoncé è in possesso di un talento talmente sconfinato (riconosciuto all’unanimità) e di un’esperienza professionale cosi lunga e solida, da poter fare ciò che vuole, con risultati inevitabilmente interessanti e divertenti, anche se, come in questa occasione, non definiti da precisione. Al tempo stesso, proprio a causa dell’usura provocata da un rapporto così prolungato con l’industria musicale e discografica, Beyoncé non riesce più a contemplare il principio di coerenza che è il più rassicurante, allorché ci si voglia ancora misurare con la dimensione (datata e non necessaria) dell’album a lunga durata (nella fattispecie 78 minuti, ovvero la massima capienza possibile di un cd fisico, come segno di rispetto per i seguaci che insistono ad ascoltarla in questo formato, ormai obsoleto). Ne discende la contraddizione insita nella sua ultima produzione, ovvero la distanza tra l’enunciato e lo svolgimento del concept a cui dedicare un’opera con diverse sfaccettature e, di conseguenza, l’eclettismo che rende cinetica e bulimica questa artista, ogniqualvolta affronti una nuova avventura creativa. L’impressione è che, avvicinandosi all’idea che vuole sviscerare, grazie al suo sapere, al tocco, alla sua fulminea capacità di stendere connessioni, in breve tempo la testa di Beyoncé e la sua scrivania si riempiano di mille altri spunti, rivoli espressivi, detour, tentazioni, cambi di registro, opportunità irrinunciabili. A quel punto la sua elaborazione impazzisce come la maionese – mantenendo comunque sempre viva la qualità e i livelli d’intrattenimento – saltabeccando da un suono all’altro, da un genere al suo opposto, schizzando nel tempo, nei ritmi, nella sovrapposizione di nostalgie e apparizioni, nel moltiplicarsi di citazioni soul, house, funk, liriche, blues, gospel, comedy, ballads, disco, vaudeville – tutto. Perfino le vocine accelerate con l’elio.

Questo succede in “Act II: Cowboy Carter”, che si apre con un’idea precisa e una serie di dichiarazioni di metodo e d’intenti, poi convoca ospiti e partecipazioni eccellenti, quindi si dedica allo scouting di nuovi talenti, portatori di sangue fresco, infine comincia a svolazzare, seguendo una miriade di tracce leggere, agnizioni, ispirazioni. A quel punto smette d’essere un album nella sua definizione tradizionale e diventa una performance – che si direbbe sia ormai il genere espressivo prediletto da Bey – con intense implicazioni psicologiche, storiche, familiari e, soprattutto, politiche. Dire le cose in cui crede mantenendo elevati parametri di originalità, seduzione estetica, esposizione virtuosistica e soprattutto consapevolezza, per Beyoncé resta la cosa più importante. E “Cowboy Carter” è l’esemplificazione di questa inclinazione, che in lei trova un’incarnazione che non ha rivali e difficilmente ne avrà, perché il destino di Beyoncé è giocare in un campionato con pochi avversari – Lady Gaga, che pure non raggiunge i suoi standard, forse un domani Miley Cyrus, e chissà che ne è del fantasma di Madonna. 

Aggiungiamo qualche informazione: all’origine dell’ottavo album in studio di Beyoncé c’è l’edizione dei Country Music Awards del 2016 a Nashville e la sua esibizione sul palco col pezzo “Daddy Lessons”, in compartecipazione con le colleghe texane Dixie Chicks (oggi ribattezzate solo “Chicks”). Il brano nei mesi successivi cresce nella sua considerazione, fino a divenire uno dei capisaldi del suo splendido album “Lemonade”, come esemplificazione del suo amore per la musica country, ascoltando la quale Bey è cresciuta a Houston, Texas. Da qui la decisione di mettere in agenda un futuro lavoro interamente incentrato sul rapporto e sulla visione della musica country, country&western e, in particolare, alla declinazione di questo suono che porta il nome di black country – complicata coniugazione tra due mondi in apparenza irti di contraddizioni, peccati e colpe, come il culto della tradizione americana e quello dell’espressività afroamericana. “Cowboy Carter” è il risultato finale di questa elaborazione e la prima cosa che ostenta è l’acume di Bey nello svolgere la missione con visionaria eleganza, con fantasia e con una mirabile, leggerissima libertà.  

In “Cowboy Carter”, tanto per cominciare, Beyoncé abbandona la produzione digitale, rivolgendosi al suono acustico e analogico. “Con questo delirio sull’intelligenza artificiale e la programmazione digitale, ho voluto tornare agli strumenti veri. E ho usato quelli molto vecchi”, racconta lei stessa. Del resto in “American Requiem”, il primo dei 27 (!) pezzi in scaletta, il proposito trova subito definizione allorché Bey intona i versi “Niente finisce davvero”, e poi “Perché le cose rimangano le stesse / devono continuare a cambiare”. Da lì Beyoncé s’inoltra nell’esplorazione psico-culturale del country, del suo senso americano e della percezione di questo suono filtrato dalla griglia dei valori essenziali black. L’itinerario è una stravaganza, una carovana e un caleidoscopio musicale: entrano in scena i venerabili veteranissimi Willie Nelson e Dolly Parton per i loro cameo parlati, transita il fantasma di Patsy Cline, s’affaccia Nancy Sinatra (“Ya-Ya”), esplode il duetto con Miley Cyrus (“II Most Wanted”), risuonano Beach Boys, Creedence Clearwater Revival, Chuck Berry (“Oh Lousiana” in versione da meno di un minuto), Fleetwood Mac (“Landslide”) e soprattutto i Beatles: arriva presto una versione magnifica di “Blackbird”, la ballata che Paul McCartney scrisse per un altro lavoro onnivoro come “Carter”, ovvero l’inarrivabile “White Album”. Il riuso di “Blackbird” non è occasionale: McCartney la scrisse ispirandosi al movimento per i diritti civili degli anni Sessanta, usando “bird” nell’accezione slang britannica allora usata per indicare le ragazze, che diventa “black” per le giovani donne nere. L’idea di Paul era di rendere omaggio ai Little Rock Nine, i nove studenti neri che nel 1957 presero posizione contro la discriminazione seguita alla loro iscrizione al liceo di Little Rock, Arkansas, fino ad allora riservato ai bianchi. “Stavi solo aspettando che arrivasse questo momento” è il verso-chiave della canzone e, di sicuro, della riproposizione che ne fa Bey, ragionando sulla frizione dinamica tra musica country e cultura black. Che dev’essere poi il motivo per cui i solchi di “Cowboy Carter” suonano un po’ country e un po’ no, abbracciandone i cliché e subito dopo scacciandoli, distaccandosi da quell’estetica per poi, all’improvviso, torna in canonica modalità C&W: un’espressione di odio-amore, con enfasi sull’illogicità americana. A proposito: tracce di rap? Pochissime. Se ne trovano Nnl duetto “Levi’s Jeans” in cui ci s’imbatte anche in Post Malone (nel ruolo di Jay-Z, il marito di Bey) ma siamo già alla dodicesima traccia. Per poi arrivare alla prima e unica vera canzone hip-hop dell’album, “Spaghetti”, in cui Beyoncé rappa in atmosfera spaghetti-Western, dopo un intro di Linda Martell, la prima star femminile nera del country, che oggi ha 82 anni. Evidente che a Beyoncè piaccia da morire muoversi come una farfalla lungo l’asse anagrafico del pop, abbinando i padri fondatori musicali ai talenti in erba, che non dimentica d’arruolare per “Cowboy Carter”: ed ecco partecipazioni scintillanti come Willie Jones in “Just for Fun”, Shaboozey in “Spaghetti” e Tanner Adell, con cui duetta nella cover di “Blackbird”.

Esito complessivo: “Act II: Cowboy Carter” è il discorso sullo Stato della nazione pronunciato da Beyoncé in questo difficile momento americano, in cui, partendo dall’esperienza personale, approfondisce le ricerche sul ruolo degli afroamericani nell’edificazione dell’architettura americana. Il suo punto di vista? Tutto è complicato e venato di irrazionalità, ma non bisogna abbandonare adesso il luogo dello scontro. E’ necessario continuare a immergersi nell’esperienza nazionale, goderne della ricchezza e darne per assodata l’imperfezione. Non a caso, da più parti danno per certo che il terzo e ultimo capitolo della trilogia di cui “Cowboy Carter” è il secondo volume, sarà un album di puro rock’n’roll. Col quale Bey, questa Einstein del pop contemporaneo, immaginiamo che proverà a santificare l’estasi del corpo, il trionfo dell’emozione e il sollievo della mente.
 

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