l'album

Libertines per sempre

Stefano Pistolini

All Quiet on the Eastern Esplanade è uno dei migliori album d’inizio 2024. Ecco iI ritorno della band di Barât e Doherty, all’insegna della perfetta decadenza british. Dureranno? I pronostici devono per forza essere pessimistici. Però...

Durante la loro prima vita, in scena tra il 1997 e il 2004, i Libertines sono stati una di quelle band che si amavano o si odiavano, talmente straripanti erano le personalità che conteneva e gli stereotipi che proponeva. In fondo stava appena sfumando la sbornia del britpop, s’era annacquata l’illusione che il Regno Unito di Tony Blair potesse diventare un environment invidiabile, erano ormai seppellite le asce di guerra tra i fighetti sostenitori dei Blur e gli stradaioli partigiani degli Oasis, mentre si avviavano al dunque le lotte intestine di ciascuna band, a cominciare da quella leggendaria e assai cafona tra i fratelli Liam e Noel Gallagher, e i rispettivi ego troppo espansi. Insomma i Libertines in un certo senso arrivarono in ritardo su una scena alla quale sembravano appartenere di diritto e a cui, peraltro, anche il suono dei loro primi due vendutissimi album s’ispirava senza mediazioni. E soprattutto, a legittimare il tutto, il gruppo conteneva, ancora una volta, due personalità eccezionali, capaci di meraviglie nei circoscritti casi in cui riuscivano a connettersi, salvo poi dar vita a un perenne scenario guerrigliero, notturno e drogatissimo, di cui si pascevano i tabloid d’oltremanica. D’altronde Pete Doherty era venuto alla ribalta come una figura mitica istantanea, bello, dannato, terribilmente sexy, poeta maledetto e instancabile peccatore, capace di spezzare il cuore niente meno che a Kate Moss, protagonista insieme a lui d’indimenticate scorribande nei nightclub londinesi, pronto ad autodistruggersi sull’altare dell’arte irriverente e in fondo romanticissima, ultima reincarnazione dei poeti ottocenteschi che morivano a vent’anni dopo aver dato velocemente fondo all’ispirazione. L’altra metà che contava nei Libertines era Carl Barât, una specie d’apolide figlio di hippie, impregnato d’intellettualismo e di una bizzarra fissazione per il tema della vecchia Inghilterra come tramontata arcadia del pensiero e dello stile, sempre sospinto da un’inesauribile brama creativa, spaziando tra musica, teatro e cinema. 


Comunque ai primi Libertines era impossibile resistere, al massimo li si poteva disprezzare, ovviamente per invidia. Poi, dopo la prima implosione della band, naufragata nel mare delle droghe, e dopo il divorzio tra Doherty e Barât, che per registrare il secondo album s’erano dotati di guardie del corpo personali che li tenessero reciprocamente a bada, tutto sembrava destinato a polverizzarsi: nessuno scommetteva un euro sul fatto che Pete arrivasse vivo ai trent’anni e intanto Carl cominciava a fondare e sciogliere gruppi a ripetizione, alla ricerca perenne della magica chimica, che purtroppo riusciva a generare solo sottomettendosi alla convivenza col partner originale.

 

Dopo l’esitante e momentanea riunione del gruppo nel 2015, concisa con la pubblicazione del terzo album, “Anthems for Doomed Youth”, a nove anni di distanza con stupore si assiste ora al ritorno di questi ragazzi terribili, improntato alla più improbabile misura produttiva e a un immutato talento creativo. “All Quiet on the Eastern Esplanade” è uno dei migliori album d’inizio 2024 e in esso Doherty e Barât riaffiorano intatti: la voce di Pete ha mantenuta l’antica, gaglioffa, ansiogena urgenza, il lavoro delle chitarre di Barât ha preservato freschezza e  impeto, e soprattutto la scrittura di entrambi non ha perso lucentezza. Il suono è puro indie britannico scavezzacollo, tra rincorse frenetiche e pause di nostalgica riflessione melodica, condito di citazioni dallo sterminato serbatoio giovanilistico d’Albione – Kinks, Jam, Smiths, Blur – e dall’impressione che, miracolosamente, i Libertines siano tornati a essere una band.

  

Dureranno? I pronostici devono per forza essere pessimistici. Però, a vedere come Doherty abbia ritrovato un minimo di forma fisica, rimettendosi i denti e perdendo una ventina di chili, e come Barât continui a incarnare l’eterna gioventù nemmeno fosse Dorian Gray, è sicuro che ci sarà da divertirsi intercettandoli da qualche parte, finché durerà. Morto anche Shane McGowan, l’escapismo delle band britanniche, del resto, sembra inaridirsi sempre di più, e godersi questa versione post-Brexit dei Libertines è un insperato regalo per gli appassionati di canzoni decadenti che raccontano di giovanotti alla deriva in periferia, ragazze madri a un pelo dalla dissoluzione, immigrati disperati, spacciatori, truffatori, e di come superare la morte d’una regina. Il tutto in chiave “This is England”, dove le band riescono ancora a essere dei radioattivi psicodrammi a base di fratelli-coltelli, come Pete e Carl. Sono solo frammenti, ma in mezzo c’è ancora qualcosa di eccitante: e potete giurarci che la sera del ritorno “live” dei Libertines, Kate Moss sarà là sotto palco, a fare la groupie, fiera dei suoi cinquant’anni.
 

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