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Passioni, canzoni, emozioni. Francesco De Gregori si racconta
"Non c’è niente che non torni in tutto quello che ho fatto". L'indecisione fino a "Rimmel", Zalone "grande artista", il rapporto pacificato con la memoria e una vita passata tra chitarra e pianoforte. Francesco è diventato buono. L'intervista al Foglio
Dico un paio di stronzate. Non mi caccia. Azzardo un’amenità su De André. Si imbarazza al mio posto. Scatta in piedi, finge di cercare un libro pur non di non indicarmi l’uscita, offre caffè, divide il fumo. Francesco De Gregori è diventato definitivamente buono? Per scoprirlo bisogna salire al terzo piano di una casa a due passi dal fiume che taglia la città e affidarsi a un ascensore dell’età dei datteri. La ditta che si occupa di mantenerlo in vita si chiama Zimmermann: sillaba più sillaba meno, il vero cognome di Bob Dylan. Oltre la porta, perduto nei segni, con la sigaretta come una matita e la strana luce dentro agli occhi che qualcuno per pigrizia chiamava cattiveria, l’uomo che secondo Gianni Mura ha dipinto le più belle canzoni italiane dell’ultimo quarantennio: “Se mi chiedessero qual è la migliore sarei indeciso tra 6 o 7 titoli, tutti suoi però”. L’ultima, Giusto o sbagliato, il lenzuolo che avvolge Pastiche, il letto a due piazze con Checco Zalone, rivela che esiste sicuramente un uomo migliore, ma che lui non ha preteso di esserlo. “Bastava e basta ancora poco per farmi stare antipatico qualcuno, ma cerco di non farlo vedere. Ho le mie idiosincrasie, a volte pecco di autoironia e magari sono anche permaloso però ho 73 anni e ormai sono incline all’assoluzione nei confronti di me stesso. Ho fatto cose giuste e sbagliate, ma sono arrivato a un punto della vita in cui il senso di colpa per ciò che è accaduto è attutito”. Giusto o sbagliato è un bilancio: “Per niente segreto e tutto sommato prevedibile: ho avuto e spero di avere ancora una vita fortunata. Un mestiere che mi ha permesso di esprimermi, di essere indipendente e libero. Errori, deviazioni, momenti di profonda infelicità ci sono stati e ci sono, ma nella vita certi conti tornano, tornano tutti. Non c’è niente che non torni in tutto quello che ho fatto”.
Nel 2001 Stefano Pistolini porta al Festival di Venezia un documentario intitolato Finestre rotte. Parole, canzoni, interviste in autostrada e frammenti rubati. Mentre prende un caffè ai margini di un concerto, De Gregori viene assalito dai turisti. Vorrebbero una foto. Lui prova a convincerli che la vita è altrove. Vince il primo round, ma sottovaluta il reliquiario di una madre. Lei avanza. Brandisce un telefonino. Ostende la prole, si gioca tutto: “Ho due bambini!”. Lui si nega, prova a sorridere: “Sarebbero un alibi?”. “Posso scattare?”. “No”. Il ricordo non lo rabbuia: “Ho sempre voluto essere una persona normale che pur facendo un mestiere pittoresco restava normale. Chi mi conosce lo ha capito. E se è vero che sono diventato più buono, anche gli altri sono diventati più buoni con me. Oggi do una stretta di mano e riesco a gestire il rapporto con chi mi incontra su un piano umano senza passare per il terribile tunnel del divismo”. Come il Jep Gambardella de La grande bellezza, De Gregori non ha più voglia di fare cose che non desidera fare: “E realizzare invece, nei limiti della legalità, quelle che mi appassionano”. L’album in cui rilegge le sue canzoni, omaggia Paolo Conte e Pino Daniele e si fa accompagnare da Checco Zalone cantando con lui un paio di pezzi in cui il divertimento dà la destra allo stupore, è filologicamente legato a questo desiderio e a una consapevolezza: “Sapevo che suonando con Checco non avrei tradito niente di me stesso. Lui è un grande artista. Un musicista molto serio, un prelevatore di suoni, di stili e di archetipi che spaziano dal jazz, alla musica classica, al pop. Questo pasticcio trascina le mie vecchie canzoni su un piano completamente diverso. Ho sempre amato rifarle: sono oggetti vivi che devono mantenersi tali nel tempo”.
Nel 1975, osservando un “tristissimo” pianista in un albergo romano, De Gregori scrisse Piano Bar. Non era dedicata a Venditti né a Zalone che non era ancora nato e che pure, al principio della carriera, dal piano bar passò: “Era una grande scuola. Non dobbiamo pensare agli artisti come tanti San Francesco che vivono in povertà e suonano soltanto per amore. Non è così, i saltimbanchi, anche se pagati, nel momento in cui saltano sul banco sono sempre ispirati da qualcosa”. Cita un film: “Un meraviglioso film a episodi dei fratelli Coen, La ballata di Buster Scruggs, in cui un impresario gira con il suo carro per presentare ai buzzurri del profondo west un monologo recitato da un ragazzo mutilato. Il giovane ha una straordinaria capacità di coinvolgere emotivamente il pubblico e, a fine numero, l’impresario chiede un obolo facendo leva sulla pietà. Lo sfrutta fino a quando capisce che non è poi così remunerativo e, dopo aver comprato un pollo in grado di indicare con il becco il risultato di alcune operazioni matematiche, lo sostituisce con l’animale e fa precipitare il ragazzo da un ponte”. Gli domando se la storia ricordi l’antico timore insito in Bufalo Bill, il pezzo in cui De Gregori, dopo aver visto un mesto spettacolo circense, aveva scritto il ritratto “di un uomo che non voleva diventare un’attrazione da circo e non ambiva a trasformarsi nella caricatura di sé stesso”. Non è accaduto e non sarebbe avvenuto, risponde, neanche se non avesse avuto successo. “Fino al ‘75, l’anno di Rimmel, non sapevo nemmeno se avrei continuato a fare il cantante”, ma, risponde, “compromessi ne ho fatti pochi. Ho tradito, ho avuto atteggiamenti ambigui, ho deluso? Sicuramente sì. Ma non ho mai venduto l’anima al diavolo. Non ho agito in modo diverso da ciò che mi dettava la coscienza per quanto coscienza sia la più perniciosa delle parole. E non perché io sia un santo o un’anima nobile, ma perché il compromesso è faticoso da accettare”. Ha vinto l’istinto. Non solo di sopravvivenza: “La maggior parte della gente che lavora è costretta a fare delle cose, io no. Sarebbe stato criminale non approfittare della libertà che ho avuto in dono”.
Pausa. Gauloises. “È stato sempre così, fin dagli inizi”. Fortuna, talento e calli sulle dita. “Da ragazzino, avrò avuto 8 anni, andavo al Vascello, un cinema di Roma con un palcoscenico sotto lo schermo. I miei coetanei sognavano di diventare astronauti, io mi immaginavo sul palco”. Il sogno si è realizzato “in maniera del tutto imprevedibile”. De Gregori è una contraddizione. Ama il riposo: “Non ha idea di quanto mi piaccia oziare”, ma lavora da più di mezzo secolo. Giusto o sbagliato è la prima canzone inedita da 12 anni a questa parte. Per egoismo vellico l’idea che rappresenti una pista di decollo per un nuovo disco. Gli aerei stanno al cielo come le navi al mare, ma i motori non si accenderanno. “Non saprei e non direi, ma se proprio devo dire, dico no. Giusto o sbagliato non è l’improvviso ritorno dell’ispirazione né il tappo che fa saltare una bottiglia piena di cose inespresse. Mi sono divertito a scriverla, ma non è stato un procedimento immediato, ci ho messo del tempo. Mi è piaciuto tornare a collocarmi tra foglio di carta e pianoforte, una sensazione che non provavo da tanto e anche se mi piacerebbe riprovarci, non ho lo slancio che mi animava fino a 25 anni fa. Se risento il mio repertorio del passato mi rendo conto che in certi momenti ho scritto cose incredibili con una facilità e un’illuminazione che oggi non saprei dove ritrovare. In un pomeriggio a Ponza, seduto al tavolino di un bar, scrissi in due ore Niente da capire e Bene. A volte mi chiedo cosa stavo attraversando, cosa avevo nella testa, che sentimenti mi scuotevano per avere quella facilità di espressione unita allo stile, alla precisione di linguaggio, alla capacità di esprimermi facendo saltare i nessi logici. Era tutto così fresco. Ora non mi sento più in quella condizione di felicità creativa, ma so trovarla in altro, non sono sofferente e non ho la sindrome della pagina bianca. Non è che la mattina mi svegli e dica: ‘Oddio, non ho scritto nulla, che disastro’. Semplicemente, non me ne frega niente. Se non scrivo, leggo. Se non leggo, vado al cinema oppure sto in poltrona e penso. Mi piace molto stare da solo, lasciare che i pensieri fluiscano senza concatenazione trascendendo la realtà”. Equilibrio senile? “Mi ritrovo a essere quello che sono e non so se sono più equilibrato di ieri. In verità mi sembra di essere stato sempre in equilibrio con me stesso: non ho mai dato di matto, non mi sono mai drogato, non ho mai fatto a botte, non ho mai viaggiato su un treno merci, non mi sono buttato dalla finestra”. Lo faceva Irene, in una sua vecchia canzone, figlia come tutto, dell’osservazione e della fantasia: “Non so se sono un uomo che ama fantasticare, ma preferisco stare un’ora in silenzio che prendere impegni. Quando dico sì a qualcosa, fosse anche una vacanza, avverto immediatamente un malessere sottile. All’inizio sono contento, poi l’idea di fare la valigia e mettersi in viaggio mi fa passare la voglia del viaggio stesso”.
Nella tarda adolescenza De Gregori sognava di partire con la sua auto. Mise gli occhi sulla 600 del demiurgo del Folkstudio, Giancarlo Cesaroni. “Avrei dato un occhio per la sua macchina e gli proposi un patto: ‘se me la cedi ti lascio il 50 per cento di tutti i miei guadagni futuri’. Cesaroni rifiutò” e fece in tempo a capire di non aver ingranato la marcia giusta. Non fu l’unico. Luciano Bernacchi, vicepresidente della Rca, racconta in una bella biografia Enrico Deregibus, a De Gregori non avrebbe messo in mano neanche un triciclo: “Ma davvero dobbiamo realizzare i dischi di un ragazzo che, poverino, potrà vendere 700 copie?”. Prima di essere De Gregori ed avere un futuro invadente, il quadro era questo: “Bernacchi, un uomo dolce e simpatico tra l’altro, non me lo disse in faccia. Ma era normale fosse scettico. Rappresentava la retroguardia e non poteva pensare che i numeri dei cantanti che tra l’altro amavo come Little Tony e Gianni Morandi, potesse farli con le mie canzoni. Poi va detto che io e altri come me eravamo un po’ maramaldi, dicevamo ‘ma che ce frega a noi dell’industria?’”. De Gregori diventò quello di Alice e di Rimmel e il clima, non sempre in meglio, cambiò in un attimo: “Fino a quando suonavo per 30 persone e i componenti di una minuscola élite plaudivano al cantante di nicchia che intonava cose non del tutto comprensibili, non ho avuto problemi. Poi iniziai a vendere e gli stessi che dicevano di amarmi provarono ad accusarmi di non so cosa. Dicevano ‘lo abbiamo scoperto noi e adesso lo passano in radio’, rivendicando un diritto che aveva molto a che fare con il senso del possesso e con un’ortodossia inquinata dall’ideologia. Ero di sinistra? Sì. Ma non volevo essere incasellato, cooptato o blandito”. Certe amicizie cambiarono di segno. “Provai a fregarmene: ‘Non sono io ad essere cambiato, ma voi che siete in malafede’. Certe critiche che denunciavano una genesi patologica mi ferivano comunque, e un po’ me la prendevo”.
Pausa. Gauloises. “Sai che non puoi piacere a tutti, però quando fai il mio mestiere è proprio a tutti che vorresti piacere. Per uno che sale su un palchetto per cantare a 18 anni, la ricerca dell’applauso è congenita”. Gli chiedo se avrebbe mai potuto fare a meno delle chitarre, dei dischi e della vita che si è scelto e gli viene in mente il Palalido. L’aggressione grottesca, il processo popolare, così vicino e così lontano, che subì a due giorni dal suo compleanno numero 25, nel 1976, quando a Milano fu prima assediato nei camerini: “Esci o sfasciamo tutto”, poi “invitato” al confronto: “Suona per i lavoratori, non metterti in tasca i soldi” e infine “processato” in una notte di lacrimogeni e deliri da un gruppetto di grotteschi censori della morale: “Prima si fa la rivoluzione, poi penseremo all’arte. Lo diceva anche Majakovskij che era un vero rivoluzionario e si è suicidato. Suicidati anche tu”. Troppo per chi in uno dei suoi primi tentativi musicali, “De Gregori era morto / ucciso dal suo ultimo lp e dai suoi profeti”, aveva già da tempo messo in metrica la propria dipartita, la demenza collettiva e il “forte rumore di niente”. Fece pagare la band fino all’ultima lira, interruppe il tour e si ritirò a pensare: “Dopo quell’episodio per un paio d’anni pensai che la voglia di immergermi suonando nel calderone anarcoide degli anni 70 non l’avevo più. Mi misi sulla sponda, smisi di scrivere. Avevo messo da parte un po’ di denaro, avrei potuto veramente laurearmi e fare un altro mestiere”. Partì per l’America con Chicca, sua moglie, con l’idea di stare fuori a lungo. C’era il problema della valuta da esportare e De Gregori chiese aiuto al gran capo della Rca, Ennio Melis. “Un grande editore, alla stregua dei Bompiani, dei Laterza o dei Feltrinelli, capace di proteggere i suoi artisti, di promuoverli, di decidere in autonomia senza farsi intimidire, di dare una sterzata all’intero sistema discografico. Melis pensava che una ‘botta’ di America mi avrebbe fatto bene e aiutato ad allargare lo sguardo e mi fece accreditare 10.000 dollari in una banca americana. I soldi, tantissimi, bastarono per due anni. Non ebbi mai modo di restituirglieli, ma credo che lui non ci contasse e lo considerasse un investimento. Con Chicca girammo a lungo e ci fermammo anche al Chelsea Hotel”. Forse la moquette non era piena di topi, ma De Gregori non lo ricorda “come un albergo pulitissimo. L’America, per dirla con Arbasino, fu il mio viaggio a Chiasso”.
Una fotografia dei suoi vent’anni. Anni felici, trascorsi tra una highway e una casa dal riscaldamento incerto a Trastevere, in Via del Mattonato, nel tentativo di non farsi sommergere dai propri rifiuti: “A ben vedere uno dei problemi della società contemporanea. Fu la mia meravigliosa bohème creativa, con una libertà sfrenata e una stufa elettrica che si arroventava in 5 minuti ed ero costretto a spegnere restando al gelo per il resto della giornata”. Freddo a parte, per dirla con Paolo Conte, uno spavento di felicità: “Vista in prospettiva, la giovinezza appare sempre divertente. Hai energia, voglia di sperimentare, incoscienza”. “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è l’età più bella della vita”, scriveva Paul Nizan. “Ma lui è Nizan e io sono De Gregori. Sono più semplice, ho approfondito di meno. Non posso dire che quegli anni politicamente terribili non siano stati anni per me bellissimi perché la biografia personale conta, né posso dire che quelli che sono venuti dopo siano stati peggiori: forse l’equilibrio di cui parlavamo sta in questo: nel non mitizzare né demonizzare la post adolescenza. Sì, avevo poco più di vent’anni, facevo le cose che fa un ventenne e le ricordo con piacere, con tenerezza e con affetto. Ho attraversato qualche trauma, qualche dramma amoroso, qualche inciampo, ma insomma, niente di che. Janis Joplin, Amy Winehouse, Keith Richards, lì puoi scovare spunti meravigliosi e vita avventurose. Se uno dovesse scrivere la mia biografia non troverebbe niente di interessante”. De Gregori sostiene che le biografie vadano pubblicate in coincidenza con la dipartita e quindi mente. In realtà era tutto eccezionale, irripetibile e oggi impensabile. La politica oggi lo appassiona “meno della letteratura o del cinema”, ma spesso la sceneggiatura del quotidiano aveva la sua firma. Nel 1977, per dire, si presentò a casa un amico di lui e di Chicca, Gianni Pennacchi, il fratello di Antonio. “Lo chiamavamo Giannisciarpa, tutto attaccato, perché aveva sempre una sciarpa intorno al collo. ‘Francè, alla Stampa non mi fanno scrivere mai. Famme fa uno scoop, famme fa il botto’”. E il botto fecero: “Dissi che mi ritiravo dalle scene, Gianni venne assunto, brindammo insieme e ci divertimmo molto. Anche se al ritiro non pensavo più da un pezzo. Capii che avrei continuato una sera, con nitidezza, guardando Lucio Dalla a Roma, al Tendastrisce. Lo osservavo e invece di essere contento, soffrivo. ‘Non voglio stare qui a guardare’ mi ripetevo ‘ma lì sopra, a suonare’”.
La prima canzone “veramente mia” si intitolava Signora Aquilone. L’hanno seguita 150 stelle in fila indiana. Frasi che a 50 anni di distanza potrebbero essere state scritte nel 2024: “E avevo nella testa una fontana / una pioggia sottile di pensieri cattivi / mentre la gente seduta ai tavolini / contava il tempo con gli aperitivi”. La parola capolavoro non gli è mai piaciuta: “Mi sembra inutilmente enfatica, preferisco lavoro” e anche se molte di quelle canzoni non le canta più, non direbbe ancora che certi testi come La storia preferirebbe non averli scritti: “Ogni tanto rileggi un testo e ti dici ‘ma che ho detto? Non la penso più così, non rappresenta più quello in cui credo’. Ma le canzoni non sono più tue. Escono, diventano degli altri e te le porti dietro per tutta la vita”. Una delle più belle e delle più difficili di una produzione non sintetizzabile è dedicata a Pasolini. Nella notte in cui venne ucciso all’idroscalo, De Gregori a Pasolini non pensava. Viaggiava con Claudio Baglioni e con un amico fotografo da Cesena verso le Dolomiti. Per chiacchierare, versare il vino, spezzare il pane. Baglioni era ebbro e ricordò: “Per fortuna non esistevano gli alcol test”. L’auto si fermò che era già l’alba. Francesco scese per spingere: “E loro, per gag, mi lasciarono a terra. Fecero 200 metri. Poi tornarono indietro, magari ricordo male”. Con la memoria, De Gregori sostiene di avere un “rapporto pacificato. I miei ricordi sono organizzati senza incoerenze. È come se la vita attraverso le tracce che lascia disegnasse una strada più lineare di quella che affrontammo quella notte. A volte sento un odore e mi torna in mente una madeleine”.
A guardare nei ricordi sembra ancora ieri: “Uno degli archetipi della mia memoria è la casa di Pescara: il modesto appartamento dell’Incis in cui vissi accudito, protetto e senza grandi assilli dal ‘52 al ‘58. Ai miei occhi, un luogo mitologico. Dal balcone vedevo i pastori con le pecore, proprio come nell’intervallo Rai all’alba della tv. Passava un treno e mi incantavo a vederlo”. De Gregori sognava di diventare uno scrittore di libri tascabili da treno, “uno scrittore che alla fine, visto che la canzone somiglia a un libro da sfogliare in uno scompartimento che puoi sgualcire e lasciare sul sedile nella speranza che venga letto da altri, sono diventato”. Nelle sue canzoni i treni conducono al sole e dai finestrini la vita può abbaiare e mordere. “Il treno da Pescara a Roma impiegava molte ore. Mio padre si spostava spesso tra le due città e in questi viaggi avventurosi si mischiavano l’emozione e l’orgoglio di viaggiare con lui”. Giorgio faceva il bibliotecario. Rita, la madre, l’insegnante. “Persone che non mi hanno mai ostacolato. La tradizione famigliare consisteva nel lavoro intellettuale. Il mio destino era superare l’università e seguire le loro orme, ma quando parallelamente agli studi venne fuori il talento, la voglia inaspettata, vista la mia timidezza, di esibirmi in pubblico e un riscontro tangibile, lasciarono fare. Me li ricordo ancora, claudicanti e sorridenti a un mio concerto. Feci apparecchiare per loro una cena vicino al mixer”.
De Gregori dice che la natura timida si è via via diradata “come i capelli” e che “l’ansia da prestazione o l’ambizione di voler fare una bella figura entrando in una stanza” oggi non esiste più. “È piacevole fregarsene, perdere il senso di inadeguatezza, smettere di pensare ‘ma io non sono all’altezza’”. Gli è rimasto il pudore che abbraccia chi conosce il senso del limite e le categorie. Anni fa, a Montecatini, gli consegnarono un premio. In platea Moravia e Carlo Porta. Giorgio Caproni lesse L’ascensore, “Dovrò tornare a attendere / (forse) che una paloma / blanca da una canzone per radio, / sulla mia stanca / spalla si posi”, “e ascoltando quel maestro elementare così soave e ieratico, mi emozionai e mi chiesi chatwinianamente ‘che ci faccio qui?’. In quel contesto ero veramente intimidito: ‘sono veri intellettuali’ pensavo, ‘chissà come vedono uno che, per dirla con Jannacci, canta nei dischi’”.
Fatta salva la sua personale cortesia, De Gregori ha sempre rifiutato le definizioni. Più di tutte quelle di poeta o di scrittore. “Senza la musica, niente di quello che ho fatto sta in piedi sulla pagina. Amo troppo la letteratura vera per confondere il saper tenere la penna in mano con la scrittura. In certe librerie contemporanee, quando vedo il banco delle novità, sono assalito dalla piromania”. Da bambino sua madre lo chiamava fiammiferino, “ero pronto a polemizzare e a contestare, prendevo fuoco”. Pausa, gauloises. “La prima sigaretta l’ho fumata su un pullman in gita scolastica, ma era l’epoca in cui i professori fumavano in classe, un privilegio che in terza liceo toccò anche a noi”. Della scuola: “Pur non essendo mai stato un secchione” ha un bel ricordo: “Un’infinita riconoscenza per certi professori dei quali io e i miei compagni eravamo segretamente innamorati. Senza di loro, alle prese con un branco di adolescenti con gli ormoni in libera uscita, non avrei capito che l’apprendimento dà gioia”. Bacchettate come quelle dei maestri di Amarcord, poche: “In prima elementare, per punire più gli irrequieti che i somari, qualcuna ne ho vista volare”. Niente di realmente punitivo però, come non era oppressivo il rapporto “molto labile” con la religione: “Il corredo della mia educazione borghese. Si faceva la Comunione e si andava a messa la domenica, ma non siamo mai stati una famiglia di baciapile. A interrogarmi sulla spiritualità sono arrivato tardi e qualche volta nelle mie canzoni ho usato Dio come se citassi un verso di Dante perché l’imprinting culturale non si cancella”. Come gli incontri: quello con Caterina Bueno che oggi lo troverebbe solo “un po’ più vecchio” e gli fece prendere il suo primo aereo: “La accompagnammo in tournée ed eravamo in tre. Voleva dividere il magro cachet con noi in parti uguali e noi ipocriti, di malavoglia, provavamo a convincerla del contrario: ‘la star sei tu, non è giusto’, ‘ma che star e star, sul palco siamo in tre, di star esiste solo il brodo’”.
Bob Dylan: “Eravamo a Roma, nel suo camerino. Non sarei voluto andare, ma David Zard insistette. Una volta davanti a lui, mi domandai: ‘che ci dobbiamo dire?’. So bene cosa sono gli incontri in camerino, non riuscivo a reprimere l’impressione di essere lo sconosciuto che gli rompeva le palle”. Piero Ciampi. “Lo conoscevo bene. Era un uomo divertente, acuto e dallo sguardo ricco. ‘Mi devi dare i soldi’ diceva. Aveva un argomento d’acciaio: ‘tu sei ricco e hai fatto i soldi con la musica, ma io sono più bravo di te e sono povero’. Non faceva una grinza e io quel denaro glielo davo volentieri. Una volta gli allungai 50 mila lire alla Rca. Ore dopo lo incontrai in centro a Roma. Stava offrendo da bere a tutti quelli che passavano”. Gli chiedo se ha nostalgia, risponde che “non si sente Ulisse a Itaca”, ma una “persona risolta” e che dell’esistenza ha capito soprattutto una cosa: “che passa”. È stato “sulla scena senza vederla” decennio dopo decennio per ritrovarsi sul ciglio di una strada, con il suo amico culo di gomma “si ricorda Peckinpah e la ballata di Cable Hogue?” a contemplare la vita. Non ha mai desiderato smettere di essere De Gregori perché non si è mai sentito tale. “Anche se felice è una parola enorme, sono stato felice di essere Francesco”.