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Il concerto dei segreti: i Pink Floyd a Pompeii, per i pochi che assistettero

Francesco Palmieri

Un evento della Pro Loco di Pompei si è trasformato in un amarcord del "concerto vuoto" del '71, ancora impresso nella memoria dei pochi che videro dal vivo il gruppo esibirsi nelle rovine senza pubblico. La storia del rock all’ombra del Vesuvio

È forse il film concerto più noto della Storia, perlomeno il più fertile di prodotti derivati. Versioni modificate, menzioni sparse, scritture, film sul film, equivoci curiosi e attendibili esegesi. Pink Floyd: Live at Pompeii, diretto da Adrian Maben, fu il racconto di un concerto mai avvenuto, ovvero di un concerto senza pubblico che il gruppo musicale inglese tenne a ottobre 1971 nell’Anfiteatro del Parco Archeologico. Ci sarebbe tornato tanto tempo dopo uno di loro, David Gilmour, il 7 e l’8 luglio del 2016 per un Live at Pompeii ma stavolta davanti alla folla e per ricevere la cittadinanza onoraria dal sindaco. Il chitarrista, che subentrò nel gruppo al “crazy diamond” Syd Barrett, ritrovò in quell’occasione il regista Maben nei corridoi dell’Anfiteatro, dove una mostra fotografica ha immortalato le immagini del “concerto vuoto” del ‘71, quando la popolarità dei Pink Floyd non era ancora assurta ai vertici ma già i mancati architetti inglesi producevano brani rimasti memorabili nell’album Meddle.
 

Qualcuno un giorno spiegherà per quali circostanze nell’arco di sette mesi i due più emblematici luoghi della romanità si schiusero improvvisamente alla cultura pop: a ottobre il gruppo rock a Pompei; nel maggio del ‘72 Bruce Lee con Chuck Norris al Colosseo per L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente (la scena del combattimento fu completata a Hong Kong con la ricostruzione degli interni dell’anfiteatro). Due film come altrettanti spot gratuiti di cui quei siti ancora beneficiano nel mondo più di cinquant’anni dopo.
 

Pochi giorni fa, come per caso, a un convegno della Pro Loco di Pompei sugli italiani e la radiotelevisione si sono ritrovati alcuni testimoni di quell’evento tanto citato eppure incerto nella memoria dei dettagli. Spunto per un amarcord tra la diaspora dei “noi c’eravamo davvero” ad ascoltare David Gilmour, Roger Waters, Nick Mason e Richard Wright al cospetto delle anime spente dall’eruzione del Vesuvio nel 79 dopo Cristo. Tra pasticci di bobine smarrite e tracce aggiunte in studio a Parigi per completare l’opera, furono tre i brani eseguiti live nell’arena pompeiana: One of These Days,  A Saucerful of Secrets e due pezzi di Echoes.

One of These Days

“Uno di questi giorni, mi dicevo, avrei raccontato cosa fu e cosa non fu Live at Pompeii, perché ebbi la fortuna di trovarmi lì per tutte le riprese”. Così il regista Giorgio Verdelli (candidato quest’anno con Enzo Jannacci - Vengo anch’io al David di Donatello per il miglior documentario). Napoletano, nel 1971 aveva quindici anni e la passione del rock, conosceva la musica dei Pink Floyd ma non li amò mai quanto i Genesis e i Jethro Tull. Conobbe a Roma un conduttore del programma radiofonico Rai Per voi giovani, Carlo Basile, funzionario della Emi che avrebbe assistito il gruppo inglese nella trasferta di Pompei. La band aveva trasportato su camion da Londra l’attrezzatura e tutti gli strumenti tranne il pianoforte. Basile si ricordò di Giorgio e gli chiese di aiutarlo: “Mi rivolsi alla ditta Napolitano per noleggiare un piano a coda da concerto, ma vincendo molte resistenze. Il titolare ignorava chi fossero i Pink Floyd ed era preoccupato che restando vari giorni all’aperto il pianoforte si rovinasse per l’umidità. Infine si convinse, con l’impegno di proteggerlo dopo ogni prova con una coperta”, racconta Verdelli, che non perdeva di vista lo strumento affidato al tastierista Richard Wright. “Grazie al mio ruolo di custode seguii ogni giorno le riprese. Il tempo le ha trasfigurate in un concerto mitico che non fu mai fatto e addirittura qualcuno, come quell’amabile bugiardo di Lucio Dalla, affermò di avervi assistito. Gli unici italiani presenti fummo io, Basile e qualche ragazzino che s’imbucava nell’arena o provvedeva al catering. Contribuì alla leggenda del concerto l’ambiguo titolo scelto per il film, ma i Pink Floyd non fecero che riprovare continuamente pochi brani fino alla perfezione. Più che rockstar, quei quattro giovani di buona cultura senza atteggiamenti divistici sembravano scrupolosi ingegneri del suono, quasi musicisti classici che poco avevano in comune con i ribelli del rock dall’assolo rompi-chitarra”.
 

Live at Pompeii non era, come qualcuno ha supposto, una reazione al maxi raduno di Woodstock ‘69 col vuoto dell’arena contro il pieno della folla. Fu di meno e di più: “Per la prima volta”, osserva Verdelli, “un gruppo rock si cimentava su uno scenario considerato patrimonio dell’umanità, inseguendo il suono perfetto in un luogo creato dagli antichi per una diffusione acustica perfetta. Forse è per questo che i particolari dell’evento si sono scontornati nella narrazione, come succede a un mito messo dentro il mito”.
 

E il pianoforte? Tornò incolume alla sede di piazza Carità per il sollievo di Antonio Napolitano, terza generazione di una ditta inaugurata nel 1840. Non dovette dare importanza all’episodio e chissà a quale inconsapevole musicista finì lo strumento, che se oggi andasse a un’asta di memorabilia frutterebbe una gioiosa somma. “Mio padre non me ne parlò mai”, dice Marco Napolitano, suo successore nell’attività. “Forse perché era abituato a maggiori stravaganze, come quella di Rudolf Nureyev quando comprò l’isola Li Galli e pretese un pianoforte grigio che gli dovemmo recapitare in elicottero. O come quella di Michel Petrucciani, che lo chiese rosso per un concerto a Salerno”. 

A Saucerful of Secrets

Oggi l’uomo che rese possibile il film concerto, il romano Carlo Basile, ha ottantatré anni e risiede in una quieta casa al mare nelle Filippine. Scarrozzò sulla sua Cinquecento Jimi Hendrix per le strade di Roma, fu amico di Lou Reed e David Bowie e tra i primi in Italia a scoprire i Pink Floyd: “Nel programma Per voi giovani, assieme a Paolo Giaccio, trasmisi l’intera prima facciata di Atom Heart Mother, l’album con la famosa mucca in copertina. Mi convinsi che era un discone, invece fummo subissati da lettere di parolacce. Non mi diedi per vinto e convinsi Giaccio a mandare in onda anche la seconda facciata, però invitammo ad ascoltarla distesi a occhi chiusi e a riferire le impressioni. Ci arrivarono quattro sacchi di posta: chi aveva visto cammelli fluttuare, chi fiumi violetti, chi nuvole nere… Fu un successo, e i Pink Floyd cominciarono a volare anche in Italia”. Basile li aveva già visti al Piper nel ‘68 nella loro fase più psichedelica, ma non immaginava che nel ‘71 la Emi glieli avrebbe affidati per le riprese di Live at Pompeii. “Per gli onori di casa comprai quattro fiaschi di ottimo Chianti da un litro e mezzo e glieli feci trovare nelle camere d’albergo. Scesero brilli dopo una mezz’ora, felici come pasque”. Basile fu presente a tutte le riprese e si godette il backstage: “Registravano i brani a pezzi e bocconi, poi andavano nel camioncino per riascoltarli assieme ai fonici. Ero estasiato dalla resa, ma quant’è vero che la musica è nella testa di chi la crea: Roger Waters spesso scuoteva il capo per qualcosa che a me sembrava impeccabile e che invece tornavano a registrare ancora e ancora, finché non raggiungevano il loro criterio di perfezione. Ricordo che A Saucerful of Secrets fu il brano più sofferto e riprovato”.
 

Tuttora Basile si rammarica e si diverte per un episodio che risale giusto a un anno dopo l’esperienza di Pompei: “Il 10 ottobre 1972 passai dalla Emi alla Rca. Poco dopo mi telefonò dall’Inghilterra Steve O’ Rourke, il manager dei Pink Floyd: mi propose la cessione dei diritti per l’Italia sui successivi quattro dischi alla cifra di 60 milioni di lire ciascuno. Per una settimana tentai di convincere i dirigenti Rca ad accettare, ma venni rimbalzato dall’uno all’altro perché non colsero l’enorme opportunità. Ci saremmo accaparrati un sacco di soldi e gli album più belli del gruppo, a cominciare da The Dark Side of the Moon che stava per uscire. Poi si mangiarono le mani e da allora camminai nei corridoi della casa discografica come Gesù sul lago di Tiberiade. Perciò quando divenni responsabile della divisione A&R, Artists and Repertoire, mi lasciarono briglia sciolta. Presi gli Who per nulla: 20 milioni a disco”.

Echoes 1

Settantotto anni adesso, Franco Petrocelli ne aveva allora venticinque. Lui dice “venticinque primavere” e altre trentatré – perché il passaggio del tempo è una forma di aritmetica – ne avrebbe trascorse in fabbrica a Pomigliano, dove quella sera di ottobre del 1971, che aveva il turno di notte all’Alfasud, decise di non presentarsi per andarsene a spiare i Pink Floyd. “Mi diedi malato e mi avviai al Parco Archeologico con un amico. Il cancello era piuttosto alto ma riuscimmo a scavalcarlo e per eludere i guardiani scivolammo in silenzio, acquattati come ladri, fino all’Anfiteatro. Il suono dei Pink Floyd si spargeva nel buio e restammo ad ascoltare sdraiati sull’erba. Ricordo ancora il vento di quei giorni e il frescolino della notte che dopo un po’ si fece sentire. Eravamo beati e intirizziti”.
 

Le immagini del film confermano i ricordi di Petrocelli: la folta chioma di Nick Mason è smossa dalla brezza mentre siede alla batteria. Non sa che la band sta suonando, oltre che per lo staff dei tecnici e per gli spettri di Pompei, anche per clandestine presenze giovanili.
 

La vera biografia di Petrocelli, che adesso abita a Sant’Anastasia dove sempre il Vesuvio troneggia vicino, non è tracciata solo nei registri burocratici di fabbrica ma nella corsia laterale della passione privata, come accade alle vite di molti di noi: al pari di Basile, è tra i pochi che ancora possono dire di aver visto (quella volta pagando il biglietto) il concerto dei Pink Floyd al Piper, ma a Roma aveva anche applaudito Hendrix al Teatro Brancaccio, Ella Fitzgerald e Duke Ellington al Sistina e ancor prima i Beatles all’Adriano nel giugno del ‘65. Non mancò naturalmente, nel 2016, al ritorno di Gilmour a Pompei. “Emozionante sempre”. Malgrado gli anni passino.
 

In quell’ottobre ‘71 Petrocelli replicò l’indomani la violazione dei cancelli. Fosse stato ligio alla sorte, quel paio di notti sarebbero trascorse al lavoro per dissolversi in oblio con altre migliaia uguali, ma lui le convertì in magia: “Mi presi il privilegio che fossero indimenticabili”. Dichiarare una bugia non sempre è peccato, ma fiabesca virtù.

Echoes 2

Visse più agevolmente la magia Alberto Vilni e la sua fu diurna per felice circostanza. Suo padre Bruno era il gestore di un’agenzia di viaggi e del Grand Hotel Rosario, dove presero dimora i Pink Floyd. Alberto, tredicenne, non conosceva la band. Piuttosto gli piacevano Presley e Sinatra e gli piacciono adesso, che di anni a maggio ne compirà sessantasei. Incoraggiato dalla curiosità e dalla conoscenza dei custodi degli Scavi, assistette alla performance “di quei quattro capelloni scapestrati” che nella Pompei del 1971, cittadina di provincia visitata da tranquilli turisti e devoti pellegrini, “davano l’impressione di pazzi scatenati”. “Stavano in due per stanza, cenavano e pranzavano nella saletta esterna affacciata sul cortile, ci davano dentro col vino e una volta trovammo un letto mezzo bruciato dalle sigarette” riferisce Vilni. Non tutto filò liscio. L’elettricità fu il primo problema: “Per tre giorni non poterono suonare perché non c’era l’energia bastevole ad alimentare le luci e i poderosi impianti di amplificazione.
 

Finalmente, con un enorme cavo si riuscì a collegare l’anfiteatro al Santuario per attingere la corrente. I Pink Floyd e la troupe approfittarono della pausa forzata per girare alcune scene a effetto tra i fumi della Solfatara di Pozzuoli, ma incapparono in un’altra disavventura: era la prima domenica di ottobre, data della Supplica alla Madonna del Rosario. Al ritorno le due Mercedes che avevano noleggiato restarono imbottigliate nel traffico dei fedeli. Per tornare in albergo impiegarono quattro ore, con gli autisti in una crisi di nervi”.
 

Il Grand Hotel Rosario non è gestito più dalla famiglia Vilni ed è diventato più moderno e sciapo nel nome. Si chiama Hotel Habita79, ma intanto sono diminuite le Rosaria anche tra le bambine di Pompei, perché battezzarle così non asseconda la moda. Adesso Alberto Vilni vive in Germania con moglie e figlia, ripercorrendo le radici tedesche di sua madre. Esperto di vini, lavora nella Eataly di Monaco di Baviera ma non ha dismesso l’hobby di cantare e tiene ancora qualche serata al piano bar. Nel repertorio, oltre a Bongusto, sempre Presley e Sinatra. “I Pink Floyd non mi convertirono, però che incanto quei giorni quando tutti credevamo di più nel futuro. Sia noi sia quei ragazzi inglesi”. Alberto coltiva nostalgie in un gruppo Facebook, postando vecchie foto dell’albergo e delle tante celebrità che vi soggiornarono.
 

Non era ancora nato nel 1971 il documentarista Marco Silvestri, che come un archeologo del rock ha dedicato vari programmi radiofonici ai concerti del passato. Su Live at Pompeii realizzerà una serie di podcast per Radio Rai, “perché c’è chi arriva a Pompei dall’altra parte del mondo più per vedere dove suonarono i Pink Floyd che per ammirare le rovine romane”. Forse, quando la Storia è stanca, si può accedere al Mito anche dalla porta piccola.

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