1924-2024
Si muore un po' per poter vivere. Il secolo di Vito Pallavicini
Cento anni fa a Vigevano nasceva uno dei più formidabili parolieri della storia della canzone italiana
Cento anni fa, il 22 aprile 1924 nasceva a Vigevano Vito Pallavicini, uno dei più formidabili parolieri della storia della canzone italiana. Per dire: è ancora oggi il recordman di presenze, in quanto autore di testi, al Festival di Sanremo, con 46 canzoni, dal 1961, da Le mille bolle blu, scritta con Carlo Alberto Rossi – prolifico compositore e navigato discografico – per Mina, fino al 1989, con Cara terra mia, cantata da Al Bano e Romina Power, che arrivò terza.
Non ottenne mai la soddisfazione del primo posto, ma salì altre volte sul podio: ancora al terzo con Al Bano e Romina (Nostalgia canaglia, 1987) e con gli Albatros (Volo AZ 504, 1976), il complesso che lanciò Toto Cutugno come frontman; e poi un secondo posto, con Serenata (1984), ancora con Cutugno. A metà anni Sessanta, il concorso canoro della Riviera dei Fiori sembrava essere monopolizzato dai testi di Vito Pallavicini: nelle edizioni 1965 e 1966 arrivò ad avere sette canzoni contemporaneamente in gara, ma erano quattro già nel 1964 e poi ancora nel 1967 e nel 1968.
Tutti, ma proprio tutti, i nomi della musica leggera italiana hanno cantato i suoi testi. Mina, tanto per cominciare, con la rivoluzionaria Le mille bolle blu: fece scalpore il fatto che per accentuare il gioco fonico del titolo la Tigre di Cremona giocasse con le dita sulle labbra. Non ebbe molta fortuna, in quel Sanremo 1961, che sarebbe stata anche l’ultima partecipazione di Mina al Festival.
E poi Nicola Arigliano – per il quale scrisse, nel 1959, il primo testo di successo, Amorevole, musicato da Pino Massara, amico e concittadino – , Tony Dallara, Milva, Fred Bongusto, Betty Curtis, Domenico Modugno, Nico Fidenco, Edoardo Vianello, Remo Germani, Peppino Gagliardi, Nicola Di Bari, Peppino Di Capri, Mino Reitano, Fausto Leali, Gigliola Cinquetti, Carmen Villani, Iva Zanicchi… Tra i rapporti di più lunga durata, oltre che di maggior soddisfazione commerciale, ci sono quelli con Pino Donaggio, per il quale scrisse il testo di Io che non vivo (1965), una hit mondiale, tanto da essere poi incisa in inglese da Elvis Presley col titolo di You Don't Have to Say You Love Me; e con Albano Carrisi, in arte Al Bano, per il quale scrisse, oltre ai titoli già citati per il Festival di Sanremo, uno dei suoi maggiori successi, come Nel sole (1967). Più facile però elencare quelli che non incrociarono mai le loro canzonette con il “Paroliere di Vigevano”.
Già perché Vito Pallavicini scriveva canzoni allo stesso ritmo con cui, in quegli anni, nella città ducale in riva al Ticino si producevano scarpe e si costruiva il più grande distretto calzaturiero dell’Italia del boom. Scriveva canzoni come Lucio Mastronardi scriveva romanzi e racconti. I due, ovviamente, si conoscevano ma si guardavano però un poco in cagnesco, come spesso succede tra le piccole glorie della provincia. Del resto erano caratterialmente troppo diversi: ombroso e tormentato Lucio, esuberante e mordace Vito. Era la Vigevano che nel 1962 veniva liquidata, forse un po’ troppo sbrigativamente, così da Giorgio Bocca nel famosissimo incipit di un suo articolo sul “Giorno”: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste [in una città di] abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una».
Vito Pallavicini aveva iniziato facendo l’ingegnere chimico per poi dedicarsi presto alla scrittura giornalistica – sport, cronaca e costume – sull’“Informatore vigevanese”, quindi, un po’ per caso, arrivando ai testi per le canzoni. È stata per trent’anni una straordinaria macchina inventiva, più che di vere e proprie storie, di parole che si vestivano di musica. Erano anni in cui l’industria discografica poteva contare su straordinari inventori verbali: Giorgio Calabrese, Mogol, Franco Migliacci, Sergio Bardotti. Li chiamavano parolieri e si accompagnavano, a loro volta, a veri e propri geni della musica prestati all’industria commerciale (tra questi, ad esempio, anche il grande Ennio Morricone, prima che diventasse il più grande compositore di musiche da film).
Negli anni in cui la musica leggera italiana “importava” e localizzava tantissime canzoni straniere, Pallavicini si distinse anche in qualità di traduttore di testi di artisti francesi come Charles Aznavour, Gilbert Becaud e Françoise Hardy, ma anche di hit inglesi, dalla All my loving (1963) dei Beatles, diventata Non cercarmi (1965), cantata da Ricky Gianco, a The House of the Rising Sun (1964), che, interpretata dai Bisonti diventa La casa del sole (1965), o la Sha-la-la-la cantata dai Camaleonti che arriva da niente meno che Stevie Wonder, o ancora la Lacrime e pioggia (1969), interpretata, oltre che da Dalida, anche da un giovane Franco Battiato, ma tradotta da Rain and Tears degli Aphrodite’s Child. Memorabile il suo adattamento di un celebre successo di Amalia Rodrigues É ou não é che, nella voce di Milva, si trasforma nella celebre La filanda (1972).
Si potrebbe non smettere mai di tirare fuori dagli archivi discografici, e dai cassetti delle memorie private, canzoni in cui il “Vito di Vigevano” ha messo la sua firma. Ma se anche questa sua produzione quasi industriale di parole per musica venisse dimenticata basterebbero due canzoni per renderlo immortale, guarda caso scritte e pubblicate nel 1968, e guarda caso entrambe firmate da un altro nume tutelare della musica italiana: Paolo Conte. Nel maggio 1968 esce Azzurro che l’ingegnere di Vigevano scrive a quattro mani con l’avvocato di Asti, che, ovviamente, oltre alla musica, condivide anche la stesura del testo. Su Azzurro, la sua genesi e il suo portato collettivo – che ne fanno un inno nazionale alternativo, consacrando Pallavicini e Conte in una sorta di mamelizzazione popolare – si trovano moltissime versioni e testimonianze, raccolte in un libro uscito per Donzelli nel 2008, Conte, Celentano, un pomeriggio… Azzurro di Fabio Canessa. Come per tutti i capolavori non c’è molto da spiegare come e perché quel giro di accordi si armonizzi con quell’immagine: l’estate tutto l’anno, l’Africa in giardino, l’aeroplano che fischia, l’oleandro e il baobab, il rimpianto di un oratorio e di un prete, il treno dei desideri che all’incontrario va… Resta un capolavoro e basta, soprattutto nell’interpretazione “punk a sua insaputa” di Adriano Celentano, e poco importa chiedersi se sia nata ad Asti o a Vigevano.
Pochi mesi dopo, a settembre, la premiata ditta Conte-Pallavicini – che avrebbe prodotto altre canzoni, per Dalida, per Patty Pravo, per Piero Focaccia e Mungo Jerry, addirittura per Johnny Halliday senza però mai arrivare ai livelli di queste due – ne sforna un’altra, a mio modesto avviso, ancora più “assolutamente capolavoro”: è Insieme a te non ci sto più e il successo è affidato alla voce senza mediazioni di una perfetta Caterina Caselli. Se Azzurro, anche per l’evidente richiamo cromatico alla nazionalpopolarità, è l’inno di tutti, Insieme a te non ci sto più è un collettivo bene rifugio sentimentale: alzi la mano chi non l’ha mai interiorizzata come un mantra benefico e fortificante tutte le volte che si è alle prese con la fine, dolorosa ma necessaria, di una relazione. In un recente podcast, Il maestro è nell’anima, che Giulia Cavaliere ha dedicato alle canzoni di Paolo Conte, Caterina Caselli, intervistata a proposito su quella canzone, fa capire che i versi: «Devi sorridermi se puoi, non sarà facile ma sai, si muore un po’ per poter vivere» non sono di Paolo Conte.
Per questo, fosse anche solo per questo, come non potremmo essere grati all’infinito all’Ingegnere di Vigevano per averci fornito, pret-à-porter, il lasciapassare per tante storie di amore che finiscono?