note estetiche
Mozart e Schubert con Muti e i Wiener Philharmoniker: serata memorabile a Ravenna
Il direttore d'orchestra riesce ad interpretare tutta la delicatezza del componimento musicale, estrapolandone il contenuto più alto ma rispettandone comunque la forma
Appena rientrato in Italia da Vienna, dove ha avuto il prestigioso compito di dirigere i Wiener Philharmoniker nella Nona Sinfonia di Beethoven per celebrare i 200 anni dalla prima esecuzione, Riccardo Muti – con la medesima orchestra con cui collabora da più di cinquant’anni – ha aperto la 35° edizione del Ravenna Festival in una memorabile serata, composta da due capolavori sinfonici. La Sinfonia Haffner, celebre pagina di Mozart, nata in un periodo denso di impegni che il genio di Salisburgo stava attraversando (“Adesso ho mica poco da fare. E devo scrivere anche una nuova sinfonia. (…) Basta, dovrò lavorare la notte”, scriveva). La sua creatività aveva qualcosa di miracoloso, è vero, e le note parevano uscire dalla penna sotto dettatura, ma egli era pur sempre un uomo e, sottoposto alle pressioni delle circostanze, ci lascia traccia dei suoi sentimenti in un periodo segnato da un’intensa revisione de Il ratto dal serraglio, i preparativi dell’imminente matrimonio e chissà quante altre occupazioni.
Dalle pagine già scritte di una Serenata sarebbe scaturita una delle sinfonie più amate del catalogo mozartiano: musica che coinvolge sin dal principio, aprendosi con un gesto imperioso che, pur addolcito dalla grazia che si addice al classicismo, genera un tema ostinato che più di un musicologo – a dispetto di chi vorrebbe separare le opere dalle circostanze biografiche – ha ritenuto di legare alla frenesia di quei giorni.
Impressionante il silenzio che avvolge una platea di 3.500 persone, immobili nel desiderio di non perdere nemmeno una nota di quella bellezza: il pubblico percepisce il profondo legame tra direttore e orchestra, “un legame fatto di una meravigliosa affinità artistica, ma anche di una profonda amicizia”. La Grande di Schubert meraviglia per l’ampiezza discorsiva e le proporzioni monumentali, considerando soprattutto il fatto che nel corso della sua esistenza il compositore ottenne considerazione esclusivamente per i suoi Lieder, mentre la sua opera strumentale rimase trascurata e incompresa. Il suono scuro e profondo dei Wiener (“un suono unico – ha detto Muti – da conservare assolutamente intatto, elemento incontaminato della cultura europea”) avvince fin dalle prime battute della sinfonia e il direttore porta il pubblico attraverso i più diversi ambiti espressivi, in una partitura pervasa dalla poetica, tipicamente schubertiana, del viandante: dimensione esclusivamente interiore, fondata sulla ricerca di una patria, cioè di una quiete che, pur intravista, rimane lontana (“Sono straniero ovunque. / Dove sei, terra mia adorata? / Cercata, immaginata, e mai trovata?”) in una commistione di inquietudine e letizia che sempre caratterizza le pagine di Schubert: “Quando volevo cantare l’amore non sapevo esprimere che il dolore, e se volevo cantare il dolore esso diveniva amore”.
La gestualità di Muti è composta, essenziale, e mette in luce la delicatezza del compito dell’interprete, che consiste non in una affermazione delle proprie idee bensì – come egli ha confidato – innanzitutto in una discrezione: “Mettersi al servizio del compositore, al servizio della bellezza, cercando di farla risplendere nella sua essenza più vera”. Ciò che resta nell’animo, dopo una simile serata, è il mistero di una bellezza evidentemente presente e al tempo stesso inafferrabile: “Mozart diceva che la musica più profonda è quella che si nasconde tra le note” – ha scritto ancora Muti – “il compito del musicista è riuscire a interpretare la musica che sta tra una nota e l’altra: insomma, tirar fuori ciò che non è scritto eseguendo rigorosamente ciò che è scritto”.