sul giradischi
Anche l'Italia partecipa al ritorno del rock sperimentale (e lo fa bene)
Il ritorno dell’art rock, o dell’experimental rock, è cosa fatta. Buoni motivi per ascoltare "Nevermind the Tempo” degli I Hate My Village e “Terzo” de "Il sogno del marinaio"
Una delle poche cose che ormai invidiamo agli americani, parlando di musica, sono un paio di band come Vampire Weekend e Grizzly Bear (attualmente nel limbo). Fanno musica intelligente, ripensano gli stilemi del rock, rivelano che c’è ancora vita dove si pensava ormai ci fosse solo un malinconico memorial. Beh, adesso non serve più andare così lontano. Il ritorno dell’art rock, o dell’experimental rock, è cosa fatta anche dalle nostre parti, come dettano un paio di band con tutti i requisiti per ridestare l’attenzione degli appassionati del genere. Il messaggio è che non bisogna disperare: i suoni hanno un andamento ciclico, s’inabissano e ritornano, magicamente riacquistano forza, energia e significato.
Se perciò questa è la vostra cosa, rallegratevi e andate subito a sentire, in primo luogo, “Nevermind the Tempo”, nuovo album degli I Hate My Village, che con questa uscita dimostrano d’essere qualcosa di più e di diverso da ciò che erano sembrati alla prima sortita cinque anni fa, ovvero un supergruppo di bravi musicisti in vacanza dalle rispettive formazioni abituali e uniti da una comune passione per certi suoni vaganti nell’area della stravaganza – nel caso specifico, a cominciare dall’afrobeat. Loro sono Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours, ma anche la resident band di “Propaganda”, show de La7) alla batteria, Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) alla chitarra, Alberto Ferrari (Verdena) voce e chitarra e Marco Fasolo (Jennifer Gentle) al basso, andando dunque a comporre un’insolita alleanza equipollente Roma-Milano. La cosa pare essere nata più che altro per un’affinità teorica sviluppandosi, in sostanza, come una collaborazione digitale su composizioni che viaggiavano di qua e di là nei computer degli artisti, permettendo a ciascuno di metterci il proprio contributo (il bello è che il tutto accadeva in tempi pre-pandemia, con lo stesso stile di sopravvivenza creativa che poco dopo avrebbe animato tanti musicisti, quando il contagio li separò, chiudendoli nelle rispettive case). Stavolta però il gruppo ha deciso di assumere un formato reale, analogico, o fisico, dite come vi pare. Insomma I Hate My Village è diventata una band effettiva, di gente che suona insieme e si prepara a sfidare la prova del palcoscenico. E di fatto ciò che hanno combinato in sala di registrazione è piuttosto prodigioso: i pezzi del nuovo album possiedono una tensione spasmodica e coinvolgente, popolata da cantati distorti, voci processate alla Sparklehorse (nei brani “cattivi” di Mark Linkous), innaffiati di falsetti liquidi, raffiche di chitarre, assoli imprevisti e lancinanti, su ritmi che viaggiano splendidamente per gli affari loro, rinverdendo l’amore per le sonorità afro e per i tempi complicati. Un suono alternativo, indipendente e coriaceo, che piacerà ad alcuni boomer intransigenti ma anche a diversi quindicenni secchioni, soprattutto alzando un bel po’ l’asticella d’una produzione italiana rock pronta a presentarsi con molta dignità sulla scena internazionale, se gliene sarà data l’opportunità. Del resto, come dicevamo, il loro non è un caso isolato.
Un altro nucleo musicale altrettanto intrigante sta battendo strade espressive non distanti: stavolta il nome è Il Sogno del Marinaio, bizzarro power trio, chitarra, batteria e basso, dove quest’ultimo strumento è nelle mani di un venerabile come Mike Watt, che gli aficionados dell’indie rock di fine Novecento ricordano alla guida di band gloriosissime come Minutemen e Firehose. Al suo fianco due musicisti italiani, legati a Watt da una lunga amicizia: il chitarrista Stefano Pilia (Massimo Volume, In Zaire, Afterhours) e il batterista Andrea Belfi. Questa formazione aveva già pubblicato due album nel 2013 e 2014 (“La Busta Gialla” e “Canto Secondo”) salvo inabissarsi per poi riemergere oggi con un nuovo batterista, Paolo Mongardi, bolognese come Pilia, e con un album intitolato “Terzo”, nel quale la ricerca sui sentieri del rock sperimentale procede più decisa e vivace che mai, con una serie di brani muscolari, punteggiati da improvvisazioni jazz, impeti post-punk, citazioni funk, assoli folgoranti e la maestria riconoscibile del basso di Watt, a volte percussivo, spesso melodico. Il disco è stato registrato tra San Pedro, California, e Bologna e le composizioni sono per la maggior parte opera dei due italiani salvo un paio notevoli contributi di Watt. Anche in questo caso le tracce del disco rapiscono l’ascolto per la concentrazione, il drive, la convinzione delle esecuzioni e l’originalità delle modalità espressive. Soprattutto, ne Il Sogno del Marinaio (ampie citazioni whitmaniane, in omaggio all’amore di Watt per il grande trascendentalista), come in I Hate My Village, ci si trova al cospetto di musicisti assai adulti, che hanno scelto la strada del sodalizio per suonare la musica che davvero amano e in cui credono, con una convinzione diretta e priva di second thoughts. Il che – garantito dopo averli visti in concerto – non può non trascinare chi si trovi ad ascoltarli, per quello strano richiamo che si attiva quando scatta il meccanismo del reciproco riconoscimento. E tutto diventa, d’improvviso, una specie di piacevole, irresistibile cospirazione.