Noga Erez - foto via Getty Images

Tra musica e guerra

Dall'Idf al palco: il talento di Noga Erez, stella pop di Tel Aviv

Stefano Pistolini

La cantante israeliana è costretta a camminare sulla linea sottile fra arte e realtà. È considerata "artista della protesta", ma non è una supporter di Netanyahu: "Mi hanno consigliato di non parlare di ciò che sta accadendo in Israele"

Complicato vivere la vita da artisti, nell’Israele di oggi. E il problema principale per Noga Erez, stella nascente del pop di Tel Aviv, è capire come gestire la cosa: “Non è come dieci anni fa: Miri Regev, quando è stata ministra della Cultura, ha cominciato a fare seri passi verso una censura della cultura, negando fondi a chiunque assumesse posizioni contrarie, o parlasse in modo negativo delle politiche governative”. Di lì in poi, le cose hanno marciato in quella direzione. Il tutto, spiega Noga, 34 anni, finisce per investire la sfera privata: “Gestisco il senso di colpa su base giornaliera”, racconta. “Ho scritto una canzone che si chiama ‘Dance While You Shoot’, balla mentre spari: ma si può parlare di ballare, di godersela, di vivere una vita privilegiata, quando sei a conoscenza delle cose estreme che accadono a trenta minuti da te?”. Interrogativi interessanti, che arrivano da una donna che ha servito nell’Idf – reparto musicale – e che all’inizio della carriera è stata circondata da attenzioni molto mainstream: era il 2016 quando il ministero degli Esteri israeliano l’ha spedita alle Olimpiadi di Rio, come rappresentante ufficiale della creatività nazionale. Oggi, leggendo qualche sua intervista, appare chiaro che Noga sia tutt’altro che una supporter di Netanyahu, ma che al tempo stesso si dichiari animata da uno spirito patriottico che, ad esempio, la spinge a esplicitare la disapprovazione verso qualsiasi sanzione contro Israele: “Amo il mio paese e sono contraria a ogni forma di boicottaggio che lo colpisca”, ha scritto su Facebook.
 

Dopo il 7 ottobre, però, non si è mai espressa pubblicamente sulle strategie della reazione governativa, continuando a camminare sulla sottile linea di confine tra arte e realtà, della quale sono costretti a tener conto tutti gli artisti del posto. E qui va aggiunto qualcosa: musicalmente Noga Erez è un talento straordinario. Nel 2017 ha pubblicato il primo album, “Off the Radar”, e quattro anni il seguito, “Kids”, entrambi concepiti con colui che è il suo compagno di vita, Ori Rousso, produttore, beatmaker e musicista di sostanza. Dal loro sodalizio è uscita un’espressività originale, che muove dalla fusione tra hip hop e indie pop e tiene in considerazione la lezione ritmico-melodica di Kendrick Lamar, Anderson Paak, ma anche dei Gorillaz di Damon Albarn – le scansioni e il fraseggio del flow di Noga rendono apertamente omaggio alle ultime cose di KL – per poi proiettarsi in uno spirito locale, con andamenti lenti, fluidi, oscillanti, cosparsi di poliritmi danzabili e sexy. La voce roca di Noga, il suo look studiatamente alternativo, la bellezza senza artifici, le sue skills come rapper (tutti i pezzi sono in inglese) e delle liriche connesse al contemporaneo, fotografato nella sua stordente confusione, fanno il resto. Il risultato è efficace e ha la forza di descrivere cosa sia oggi uno stile di vita d’arte nella “bolla” di Tel Aviv, città dalla vocazione liberale, dove Noga arriva a 18 anni, dopo essere cresciuta a Cesarea. Ed è proprio a Tel Aviv che la sua vocazione ha preso forma, trasformandola in una delle voci più amate dai coetanei e proiettandola al centro del dibattito: “Mi sono ritrovata a fare interminabili interviste rispondendo solo a domande sulla Palestina e sulla politica nazionale. Nessuno mi parlava di musica. Io sono nata qui, ho le mie opinioni, ma di sicuro non rappresento Israele. Sono femminista, ho scritto una canzone sullo stupro di una ragazza in un nightclub di Tel Aviv (“Pity”), ma anche questi sono soltanto fattori della mia personale espressività”.
 

È interessante ragionare sul disagio di Noga nel sentirsi etichettata “artista della protesta”, sul suo insistere che le canzoni che scrive sono “conversazioni con se stessa”, sulle dichiarazioni in cui afferma candidamente: “Mi hanno consigliato di non parlare di ciò che sta accadendo in Israele”. Ne esce un quadro surreale, in cui la reticenza di un’artista a scendere nei dettagli, ad affermare un’appartenenza, si definisce come il risultato naturale di una giovinezza trascorsa nella complessa realtà di questo luogo: “Israele non è una vera zona di guerra; la maggior parte del tempo è calma”, si affanna a chiarire lei, “ma poi le cose si arroventano. Io sono nata dentro questi scenari. Da bambina sono scesa nei rifugi antimissile, come gli altri. Ma non per questo mi sento titolata a esprimere giudizi su chi adesso affronti situazioni del genere ogni giorno”. Crescere in mezzo a un tumulto che ciclicamente si placa e poi riesplode. Là dentro sentire, a dispetto di tutto, la voglia di suonare una musica fatta per ballare e abbandonarsi al piacere, nonostante il caos circostante. Ciò che descrive Noga Erez è una condizione bizzarra ma palpabile, reale, dentro il presente. Con una sottile angoscia e il timore della furia che si sovrappongono ai seduttivi sentimenti della giovinezza e alle sirene dell’arte. Volendo provocare, si potrebbe pensare che occuparsi di una soggetto come la musica pop, insomma, sentire la vocazione a tracciare un commento musicale all’Israele di oggi, costituisca in effetti una chance praticamente irrinunciabile.

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