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Il canto del cactus. I trent'anni dei Calexico

Vittorio Bongiorno

Il deserto e di là dal confine il Messico. Qui nasce, tra country e mariachi, la storica band, ora in Italia con un tour di ben quattro date 

Sulla piana si stagliava una piccola estancia dagli edifici ancora fumanti, e lungo gli spezzoni di una palizzata di stecche di cactus erano appollaiati spalla a spalla alcuni avvoltoi che guardavano a est verso il sole promesso, sollevando prima una zampa e poi l’altra e stendendo le ali come mantelli.  

(Cormac McCarthy, “Meridiano di sangue”, 1985)

  

Il serpente a sonagli avanza lasciando una scia di J sul suo cammino e si mimetizza sotto la sabbia; il ratto canguro saltella con le guance piene di semi verso la tana, attento se necessario a buttare sabbia sugli occhi del serpente grazie alla sua lunga coda a ciuffo; il coyote, con i suoi piccoli occhi fiammeggianti e le orecchie tese, è pronto a scattare, fiutando l’eventuale pericolo in arrivo da lontano. Sono tutti e tre alla ricerca di acqua che, eventualmente, assumerebbero mangiandosi a vicenda. Ma c’è qualcun altro, immobile, che osserva tutto ed è lì da più tempo di tutti, umani, animali e fantasmi: sua maestà il Saguaro, il cactus gigante che arriva fino a venti metri di altezza e duecento anni di vita e che, grazie alla sua struttura a fisarmonica, può accumulare centinaia di litri d’acqua quando piove durante la stagione dei monsoni, gonfiandosi e allungandosi fino a pesare una tonnellata.

   

La batteria nervosa e funambolica di John Convertino sorregge la chitarra ora spagnoleggiante ora elettrizzata di Joey Burns

  
Benvenuti nel deserto dell’Arizona lungo il confine con il Messico, tra California e Texas, uno dei luoghi più caldi e infernali del mondo. La terra che ha ispirato non solo i crudi racconti della Frontiera del grande “riservato” della letteratura Cormac McCarthy, scomparso di recente, ma anche l’immaginario del cinema western, le serie tv e la musica dei Calexico, una delle band americane più longeve e multiformi. E’ dal cuore di questo sconfinato bacino desertico, per la precisione dalla città di Tucson, cinquecentomila anime e un’ora di auto dal confine, che si alza il canto dolce e sinuoso della storica band di Joey Burns e John Convertino. I due arrivano in questo mese di  luglio in Europa per un lungo tour celebrativo dei quasi trent’anni di attività (in Italia per ben quattro concerti, il 4 sono stati a Pistoia e  il 5 a Russi, il 15 saranno a Milano e il 17 a Udine). Il loro suono somiglia molto a quello del deserto, dove tutto può accadere all’improvviso: la batteria nervosa e funambolica di Convertino sorregge la chitarra ora spagnoleggiante ora elettrizzata di Burns, e intorno ai due capibanda i fidati compagni di viaggio danno fiato a trombe mariachi e fisarmoniche zigane. Burns, negli anni, ha affinato una voce sempre più presente e viva, e i temi dei suoi testi sono sempre più toccanti e attuali, come la fuga dalla città e il rapporto con la natura selvaggia: “Ho lavato il mio viso nei fiumi dell’impero, ho fatto il mio letto con una cassa di cartone, nella città di quarzo, nessuna novità, nessun nuovo rimpianto”, canta in “Sunken Waltz”, il polveroso walzer in apertura del disco “Feast of Wire” che ha compiuto vent’anni e non li dimostra.

 

E’ la terra che ha ispirato non solo i crudi racconti della frontiera di Cormac McCarthy, ma anche l’immaginario del cinema western

  

“Prendi la storia del falegname Mike, che abbandonò i suoi attrezzi e le sue chiavi e partì, il più lontano possibile, oltre le città e i quartieri recintati, dormì sotto le stelle, scrisse ciò che sognava e costruì una macchina perché nessuno la vedesse. Poi prese il volo, alle prime luci del mattino, del nuovo mattino”. Il riferimento alla Los Angeles dell’urbanista e attivista Mike Davis e al suo celebre saggio “La città di quarzo” (1990) è chiaro fin dalle prime battute ed è proprio nella città degli angeli che Burns e Convertino fanno il loro esordio, a metà anni 90, come sezione ritmica dello spilungone Howie Gelb che sbarcava il lunario lì con la band Giant Sand tentando, tra i primi, di mescolare il country con il rock, la tradizione con l’approccio punk.

  
Nel bel documentario “High and Dry” (2005) di Michael Toubassi sul fertile terreno su cui sono nate le migliori band di Tucson tra gli anni 80 e 90, Burns e Convertino raccontano gli esordi di quella scena post punk con i Giant Sand. Ma gli impegni e i concerti con Gelb si sovrappongono ai primi tentativi dei due di cercare una propria strada autonoma: prima collaborano con l’ensemble strumentale lounge-jazz dei Friends Of Dean Martinez, poi nel 1996 incidono il primo disco chiamandosi Spoke, trasformato poco dopo in Calexico, dal nome della città californiana proprio al confine con il Messico. E la Frontiera diventa, più che un muro che divide le persone, la possibilità di creare connessioni musicali e culturali: al folk e alla tradizione country i due mescolano musicisti messicani che aggiungono sonorità molto colorite, e soprattutto l’amore per le melodie senza tempo di Morricone e Nino Rota, di cui Burns e Convertino sono grandi fan, e si sente.

 

La Frontiera diventa, più che un muro che divide le persone, la possibilità di creare connessioni musicali e culturali. Due fan di   Rota e Morricone

 

 

Il disco “The Black Light” del 1998 è l’esempio riuscitissimo di uno spettro sonoro ampio e articolato quasi mai sentito prima. Il brano “Minas de Cobre (For Better Metal)”, che comincia con treni in lontananza e un dolce arpeggio di chitarra mariachi si trasforma in una schitarrata tutta violini e trombe, per poi esplodere in un crescendo spaghetti-western che starebbe bene in un film di Tarantino. Il tutto condensato magnificamente in soli tre minuti.

 

I mareros (gangster, ndr) muoiono quasi tutti prima dei vent’anni, e lei vuole ciò che vogliono tutte le madri: che suo figlio viva. E per questo è disposta a rinunciare a lui per sempre. “Partirai domani mattina presto”, dice. C’è un solo modo di partire. Sul treno che chiamano La Bestia.

(Don Winslow, “Il confine”, Einaudi 2019).

 

Joey Burns e John Convertino sono due rocker colti, appassionati di letteratura (il figlio del batterista si chiama Holden in omaggio a Salinger), e i romanzi hanno spesso raccontato la frontiera in modo crudo e realistico come nessuna testata giornalistica è stata in grado di fare. I poveri messicani che scappano dalla povertà e dalla follia dei narcotrafficanti sono alla base dell’agghiacciante reportage “L’autostrada del diavolo” di Luis Alberto Urrea (XL Edizioni, 2013) che aveva ispirato proprio l’album “The Black Light”. “Nel deserto, siamo tutti clandestini”, scrive Urrea nel libro che racconta la tragica fuga di ventisei persone nel 2001. I più audaci, o forse più disperati, cercano di saltare sui treni merce notturni nella speranza di riuscire a varcare quantomeno il confine: ma tutti quelli che non finiscono stritolati tra ruote e binari, arrivati sul suolo americano su questi mostri notturni sferraglianti, si trovano faccia a faccia con il deserto del Sonora, che rumoreggia come un tamburo militare, come diceva Cormac McCarthy.

 

Luca salta. E ogni molecola del corpo di Lydia salta con lui. Lo vede, tutto raggomitolato, così piccolo, così assurdamente coraggioso, i muscoli e le ossa, la pelle e i capelli, i pensieri e le parole e le idee, la sua anima così grande, vede tutto di lui nell’istante in cui il suo corpo lascia la sicurezza del cavalcavia e vola, si innalza solo per un attimo nello sforzo di lanciarsi, finché la gravità non lo agguanta e lo riporta giù, verso la Bestia.

(Jeanine Cummins, “Il sale della terra”, Feltrinelli 2020)

 

Chi non scappa in cerca di un futuro migliore altrove spesso viene sfruttato dai narcos, come accade ai Tarahumara, gli indigeni dello stato messicano di Chihuahua. Famosi per la prodigiosa capacità di correre instancabilmente nella caccia alle loro prede, sono però costretti a diventare corrieri della droga lungo il confine con gli Usa senza potersi ribellare. “Il mondo si avvicina e il mondo è un estraneo, dal giorno in cui sei nato toccherai sempre il terreno correndo” canta Joey Burns nella languida ballata “Quattro (World Drifts In)” del 2003, “non posso fuggire da questo posto senza lasciarmi il mondo alle spalle, in un lampo, vergogna e umiliazione, in un tempo, sacrificato per amore del commercio”.


Un concerto dei Calexico, però, ha anche momenti gioiosi di festa legati alle sonorità caraibiche di alcuni brani dell’ultimo disco “El Mirador” del 2022, spesso affiancati, inaspettatamente, da rivisitazioni di brani altrui come l’inno dei cuori infranti “Love Will Tear Us Apart” dei Joy Division, che in ogni esibizione italiana hanno proposto con grande partecipazione del pubblico.

  

“I miei lavoravano in un macello avicolo lassù in Michigan, ma io mi sono trasferito a Tucson con i miei zii e ho fatto le superiori qui”. “Ti piace Tucson?”. “A chi non piacerebbe?”

(Willy Vlautin, “Io sarò qualcuno”, Jimenez 2018)

  

A Tucson, in verità, Burns e Convertino non ci vivono più da un po’: il primo da qualche tempo si è spostato a nord con la famiglia nell’high-desert dell’Idaho, il secondo vive a El Paso, Texas, la città proprio sul confine con il Messico che vive in simbiosi con Ciudad Juarez, tristemente famosa per la cieca violenza dei narcos su chi si oppone alla legge della droga e citata nei romanzi di Roberto Bolaño. Ma a Tucson, città perennemente in pieno fermento creativo, i due ci tornano spesso a suonare con il resto della band e a registrare i nuovi dischi. Tutti in città conoscono i Calexico e le radici che hanno piantato nel deserto sono profonde quanto quelle dei cactus. 

  
Nel novembre del 2023, invitato al Tucson Film Festival con il mio film “Ask the Sand” girato nel deserto dell’Arizona e con la colonna sonora proprio dei Calexico, ho respirato le atmosfere ascoltate nelle loro canzoni mentre Burns & Convertino erano a suonare in Europa. Soffrendo di jetlag sono andato in giro all’alba per il Barrio Viejo, uno dei quartieri più antichi risalenti al XIX secolo, tra le case basse fatte di adobe e colorate di azzurro e di ocra, incontrando solo cani e cactus nei giardini delle case prima che il sole si alzasse. Ho mangiato tortillas e bevuto caffè fumante al famoso 5 Points e ho visitato i laboratori di designer ispirati alla cultura della Frontiera come l’Object Hotel, un delizioso spazio che raccoglie oggetti ispirati alla cultura del Southwest. Ho cenato nel salotto di casa della stilista Erin Cox dove i Calexico hanno registrato il loro primo disco, e nel cortile della galleria Studio Light Space ho trovato un Saguaro di quasi sei metri con grandi braccia protese verso di me. Nella sala concerti del mitico Hotel Congress, dove nel 1934 il “nemico pubblico” John Dillinger è stato arrestato, ho sentito suonare Naim Amor, il chitarrista parigino trapiantato a Tucson che con John Convertino alla batteria ha registrato due album meravigliosi ispirati al deserto. E infine, il giorno prima di ripartire, ho chiesto alla mia amica Jess Holzworth, ex regista di videoclip musicali, di portarmi nel cuore del deserto dove lo sguardo si confonde con il nulla. Jess, pluripremiata regista che a Los Angeles girava video per gente del calibro di Beck, Slits e Basement Jaxx, si è trasferita a Tucson nel 2014 per tornare ad avere un contatto più intimo con la terra ed è diventata una Guida Olistica Spirituale molto richiesta in zona. Ci inerpichiamo tra le colline bruciate ricoperte di cespugli spinosi di creosoto e all’improvviso ridiscendiamo nella vallata che porta al Sonora Desert Museum, l’enorme parco nazionale a est di Tucson. La vista dell’enorme distesa di cactus è accecante e mi sporgo dal finestrino dell’auto per fotografarla: migliaia e migliaia di braccia tese verso l’alto sotto un cielo azzurrissimo e nessuna nuvola. Passiamo davanti ai vecchi set dei film western dove pure Andy Warhol girò nel 1968 l’assurdo “Cowboys solitari” e fermiamo l’auto sotto un sole cocente.

  

“Attento a dove metti i piedi, la natura è in continua espansione”, mi fa Jess che, a differenza mia, è vestita di bianco e indossa stivali per proteggersi da eventuali tarantole e serpenti. Intorno è tutto immobile, perfino l’aria sembra statica. Avevo letto decine di libri e visto centinaia di fotografie di tramonti mozzafiato e cieli brulicanti di stelle sui cactus centenari, ma non era certo come il posare lo sguardo direttamente su ognuno di loro, a perdita d’occhio, e parlare a ognuno di loro. Per capirli dovevo calpestare quelli morti, inseguire le ombre che si perdono lontane, tendere l’orecchio per ascoltare le voci dei fantasmi che li hanno abitati, nascosti nei loro tronchi fibrosi. 

   

Sarà il sole cocente, mi ritrovo sotto un Saguaro gigantesco, il più grande che abbia mai visto. “Domani te ne andrai, io resterò”, sembra sussurrarmi

  
Mi allontano da Jess lungo sentieri improvvisati e mi guardo intorno, così piccolo e affannato, e perdo qualsiasi coordinata spazio-temporale. Sarà il caldo, il sole cocente, mi ritrovo sotto un Saguaro gigantesco, il più grande che abbia mai visto. “Domani te ne andrai, io resterò e ballerò per l’eternità” mi sussurra lui. O forse è solo un’allucinazione. Sento Jess chiamarmi, mi viene a riprendere un po’ preoccupata: sono stato via quasi un’ora e lei non trovava più le mie tracce. Ci rimettiamo in auto e torniamo verso Tucson ascoltando “Woven Birds” dei Calexico nel potente impianto della sua Tesla. E’ forse la loro ballata più dolce e delicata dove John Convertino accarezza la batteria delicatamente con le spazzole e Joey sfiora appena le corde della sua chitarra. E canta: “Sopra le nuvole gonfie uno strano suono riempie l’aria, un silenzio mai sentito cade come una pioggia benedetta, e tornano le rondini mentre suonano le campane della missione”. Rientriamo in città ma è nel deserto che avremmo voluto rimanere, ancora un po’, a osservare il bordo luminoso di questo nulla accecante.

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