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Reportage

Il magico mondo di Taylor Swift a San Siro

Claudio Giunta

Un cinquantenne in beata solitudine al concerto  della regina del pop. Che canta, balla, suona e si scrive i testi delle canzoni. Un talento fuori dell’ordinario, una vena selvaggiamente sentimentale e una più intima vocazione per l’ordine

Più o meno un anno fa le figlie dei miei amici hanno cominciato a informarsi su di me: la salute, il lavoro. Tutto bene? Come stavo? Come mai non mi facevo vedere a cena da un po’? E in estate sarei passato a trovarle? Sono attenzioni che fanno piacere, soprattutto se non si hanno figli, perché uno è sempre contento di andare a genio alle ragazzine. Le stesse ragazzine, poi, che fino a qualche tempo prima a malapena mi parlavano, e confondevano il mio nome e la mia faccia con quelli di tutti gli altri amici di famiglia. Ma si cresce, si cresce, vivaddio! Poi a un certo punto ho pubblicato un libro su Dante e sono arrivati addirittura dei complimenti: che bel libro, che grande poeta, perché non vieni a parlarne nella nostra classe? Ma certo, volentieri… E mentre anche un po’ commosso – si parla sempre male dei giovani, e invece – sfogliavo l’agenda per cercare una data per questa mia Missione al liceo mi è arrivato questo messaggio su uozzap: “Ma dato che scrivi sui giornali non è che per caso puoi trovare degli accrediti per i concerti di Taylor Swift di luglio a Milano?”. 

O, Lear, come ti ho sempre giudicato male, tu che avevi patito e detto la verità: “How sharper than a serpent’s tooth it is / to have a thankless child!”. Figlie dei miei amici, ma certo che ho degli accrediti: uno, per me. 

E così eccomi qui, fiero nella mia solitudine, al primo concerto milanese di TS: 13 luglio 2024. Solitudine si fa per dire, si capisce, perché qui siamo, per citare i Vangeli, Legione. Arrivare a San Siro comodamente in taxi, anche considerato che me lo rimborsano? Ma no, meglio farsi tutta l’esperienza, mescolarsi subito ai fans, “andare coi mezzi”, come si dice a Milano, mezzi che l’Atm ha del resto potenziato, moltiplicato con encomiabile solerzia (e simpatia, anche: in rete c’è un tutorial su come arrivare allo stadio in cui i vari punti dell’elenco sono introdotti da versi delle canzoni di TS: bravo il social media manager!). 

Saliti alla stazione Garibaldi, si capisce però subito che potenziamento e moltiplicazione possono poco di fronte all’Orda (dal turco: ‘esercito’) di fanatici di TS che sale a battaglioni fermata dopo fermata, vociante, dimenantesi. Da Garibaldi in poi comincia quella che – il lettore mi perdonerà la metafora trita, ma a un certo punto salta fuori anche la fermata Gerusalemme! – è difficile non definire una via crucis con, al posto delle pietre e del flagello, la tortura del soffocamento e del caldo (i pantaloni ‘giapponesi’ che ho comprato online come ‘cotone non trattato’ devono essere invece di acrilico o di qualche altro atroce tessuto impermeabile: rivoli di sudore mi scorrono lungo le gambe, inzuppando i fantasmini: se ero venuto per rimorchiare mi sa che non è serata). A ogni fermata un nuovo carico di swifties, a ogni fermata un aumento di compressione, di costipazione, finché a Lotto, dove la metro lilla interseca pericolosamente la metro rossa, la muraglia di persone che cerca di entrare è talmente enorme che persino le swifties, per natura mitissime, hanno uno moto di ribellione e fanno muraglia contro la muraglia, indirizzandola verso un “prossimo treno” che sarà ovviamente anche più pieno del nostro (molti se la faranno festosamente a piedi, all’andata e ancora di più al ritorno, perché la metro chiude all’una). Ma intanto, già all’altezza di Monumentale sono partiti i cori: la sedicenne che da una decina di minuti mi sta camminando sui piedi adesso mi urla a cinque centimetri dalla coclea You Belong With Me; poi tocca a Shake It Off, una canzone che naturalmente – “mi scusi”, “ma no, niente” – non si può cantare da fermi.

Erano anni, forse decenni che non condividevo uno spazio così angusto con così tante persone, quasi tutte giovani. Sudore a parte, è stata un’esperienza persino divertente, soprattutto perché le swifties per fortuna si lavano, però all’arrivo a San Siro sono già stremato, e medito seriamente di prendere subito la metro in direzione opposta e andare a vedere Lanthimos all’Anteo. Solo che mentre sono lì fermo a soppesare le opzioni la folla, letteralmente, mi trascina con sé, tipo Fantozzi all’uscita dalla Megaditta, e così eccomi dopo neanche cinque minuti davanti al mio settore, ecco la scalinata, ecco la gentilissima hostess che mi indica il mio posto nel frastuono dei Paramore, che hanno già cominciato a suonare (ma non ricordavo che la bellissima The Only Exception è loro! E a proposito, come ti senti se hai scritto The Only Exception e sei i Paramore e ti tocca aprire i concerti di TS, e quando dici “facciamo ancora solo due canzoni” ottieni come risposta un grido non di delusione ma di sollievo?). Ecco soprattutto la mia comoda sediolina di plastica. Perché io alla fine, anche se “scrivo sui giornali”, ho avuto l’accredito dei poveracci: anello arancio, primo settore, “visuale limitata”, che temevo volesse dire ‘con un palo davanti’, e invece per fortuna vuol solo dire che sono in prima fila e che ho davanti una sbarra che però non dà per niente fastidio: starò da papa (anche nel senso che, come il papa, me ne starò prevalentemente seduto mentre attorno a me la Legione dei ragazzini urlanti eseguirà, a cazzo di cane, elementari coreografie).

(Altra parentesi. Visto da dentro, San Siro è uno stadio bellissimo, con quei torrioni di cemento giganteschi. Non ricordo se sono i Buoni che lo vogliono distruggere oppure i Cattivi, ma certo il colpo d’occhio è notevole, io voto per tenerlo. C’ero stato una volta forse trent’anni fa insieme a mio zio buonanima, a vedere un Inter-Juventus, c’era ancora Furino).

Composizione del pubblico in relazione al sesso. Non voglio dire che sulle gradinate e sul campo ci sono soltanto donne, ma nel bagno degli uomini eravamo in quattro, mentre davanti a quello delle donne c’era una coda di – contate – trentadue persone che si identificavano come femmine, rispettose ma comprensibilmente frementi. Alla fine, gruppi di coraggiose hanno deciso di fare una momentanea transizione di genere e hanno goduto di questo raro spettacolo nello spettacolo: i cessi dei maschi di San Siro, martoriati da generazioni di tifosi piscioni.

Composizione del pubblico in relazione all’età. Non per vantarmi, ma sono probabilmente l’unico maschio eterosessuale cinquantenne che non si trovi in questo stadio perché ha dovuto accompagnare dei ragazzini (qualche padre è dentro; la maggior parte – li vedrò all’uscita – aspetta fuori dallo stadio fumando, smanettando sul cellulare, bestemmiando). E’ una cosa che porta a riflettere seriamente, anche amaramente sulla propria vita. Se mi volto vedo quasi solo teen-ager o ventenni, qualche raro trentenne. Ragazze, come ho detto, al novanta per cento. Vestite. Non nel senso di non-nude ma nel senso di ‘abbigliate in maniera da interpretare o evocare un ruolo all’interno di un racconto fizionale’ (mi ricordo quando una quindicina d’anni fa a Harajuku strabuzzavo gli occhi davanti al cosplay e mi dicevo che mai e poi mai una moda del genere avrebbe potuto attecchire fuori del Giappone: vedevo lungo). E dunque abiti da sposa col velo bianco e lo strascico, cappelli da cowboy, gonne a fioroni tipo Casa nella prateria, outfit da vampira, da baiadera, da giocatrice di football, da reginetta di bellezza con la fascia “Miss Americana”, da drag-queen, e poi magliette con stampati sopra i versi delle canzoni di TS, come i versi dei poeti nelle Parole di Cotone di trent’anni fa, e poi molti stivaloni, molti Birkenstock, qualche Dr. Martens; e lustrini, lustrini ovunque, una marea di microplastiche letali appiccicate sui vestiti, le scarpe, gli zainetti, le facce.

 

Composizione del pubblico in relazione al reddito. Ripensandoci, non credo di aver mai visto tante persone benestanti tutte insieme. A un certo punto di un suo monologo Louis CK dice che qui – intende New York – ci sono un sacco di senzatetto. Pausa. “Voglio dire: non qui dentro!”. Risata. “Qui non ce n’è nemmeno uno. Zero. I senzatetto non sono ammessi nei posti in cui NOI siamo ammessi”. Ecco, è chiaro che oggi a San Siro non solo non ci sono i senzatetto ma non ci sono neppure i poveri, non i veri poveri, almeno, perché i biglietti per il concerto costavano un sacco già l’anno scorso, poi per un meccanismo che non ho veramente afferrato sono aumentati giorno dopo giorno, fino ad arrivare a cifre fantastiche, sia nel senso di ‘oltremodo elevate’ sia nel senso di ‘totalmente inventate’. Tredicimila euro. Centoventimila euro. Il rene sinistro. Le cornee del proprio primogenito. Ma, restando nell’ambito del reale, nei mesi scorsi ho sentito frasi come “Mia figlia ha comprato il biglietto per Stoccolma perché per Milano erano finiti”, o “Noi alla fine andiamo a Vienna”, o “Tre, ne vedono tre! Madrid, Liverpool, Zurigo, dormono dai parenti”. Parenti a Madrid, a Liverpool, a Zurigo!? Com’è che diceva Pascal? Tutte le disgrazie dell’umanità nascono dal fatto che la gente non se ne vuole stare a casa sua a leggere un libro. Che esagerato, d’accordo. Ma attraversare l’Europa per vedere tre concerti che sono poi lo stesso identico concerto? La verità è che la gente sta troppo bene, altroché. 

Composizione del pubblico in relazione all’etnia, o al colore della pelle. Dev’esserci una qualche relazione col punto precedente (“Composizione del pubblico in relazione al reddito”), ma a occhio e croce gli unici non caucasici qui sono quelli della sicurezza e i bibitari, e qualche nero americano venuto in gita in Europa (pare che il pacchetto soggiorno+biglietto offerto da certe agenzie sia molto conveniente). La folla più omogeneamente bianca che mi capiterà di vedere, probabilmente, da qui alla fine della vita.

 

E adesso, mentre il gigantesco orologio proiettato sul gigantesco schermo davanti a noi dice che mancano cinque minuti all’inizio, facciamo una breve premessa a beneficio dei non esperti.

Canta, balla, suona, si scrive i testi delle canzoni. Naturalmente i malevoli dicono che non è tanto brava a cantare, ballare, suonare. Ma in realtà basta ascoltarla nelle esibizioni da sola, voce e chitarra, per capire che sa cantare eccome, e anzi sempre meglio a mano a mano che passano gli anni (è chiaramente una che impara le cose a velocità supersonica). Balla come può ballare una ragazza di un metro e ottanta che non fa quello di mestiere: le étoile sono un’altra cosa, ma le coreografie sul palco le esegue alla perfezione; soprattutto, conviene tenerlo presente, le esegue ripetendo a memoria il testo di quarantaquattro canzoni e – mi scuso per l’abuso di corsivo, ma ci vuole – recitandole. Suona la chitarra e il pianoforte quanto basta per accompagnarsi, e quanto basta al pop. Il secondo Novecento è pieno di geni musicali che a malapena sapevano leggere uno spartito, cerchiamo di non farla troppo lunga con queste ubbìe da conservatorio. Quanto allo scrivere – un aspetto che per i fans è cruciale, ma che i critici tendono a sottovalutare, un po’ come si sottovalutano gli sceneggiatori: ci si ricorda di Fellini ma non di Flaiano, di Sinatra ma non di Paul Anka – quanto allo scrivere bisogna lasciarla stare. 

Fino alla scorsa estate erano 274 le canzoni di TS ranked, cioè sistemate in una classifica e commentate in un lunghissimo articolo di Rob Sheffield sull’Atlantic. Adesso, dopo l’uscita di The Tortured Poets Department, sono più di trecento. In diciott’anni di carriera (ma cominciando a contare dai quindici), vuol dire una ogni venti giorni circa, comprese le vacanze, le malattie. “I cry a lot but I am so productive”, dice in una canzone-lamento dell’ultimo album, ma productive non rende l’idea. Aggirandosi tra gli scaffali delle biblioteche, davanti ai volumi dei filosofi e dei romanzieri più prolifici capita di domandarsi “ma come hanno fatto a scrivere così tanto in così poca vita?”. Per il passato, una risposta sensata è che non c’era molto altro da fare, per chi pensava o scriveva per professione. Cosa volete che facesse, Hegel, dopo pranzo, nel suo cubicolo di Jena? Ma oggi? Con i concerti, le interviste, i video diretti e interpretati, i film, gli spostamenti transoceanici (il jet privato aiuta, ma non abolisce le distanze), l’attività sui social network, le visite in ospedale per suonare la chitarra ai fan allettati, eccetera eccetera. Insomma, trecento canzoni vogliono dire per prima cosa una sovrumana capacità di concentrazione.

La stessa capacità di concentrazione la porta a fare concerti sempre impeccabili che cominciano e finiscono sempre esattamente alla stessa ora, e in cui ogni inflessione della voce, ogni passo, ogni smorfia, ogni singolo gesto delle dita è collaudato durante le prove con una maniacalità tale da diventare natura, arco riflesso. Come Pippo Baudo, è sopra ogni altra cosa una grande professionista. E qui sembrerebbe di cogliere una contraddizione che sarà invece, al contrario, la chiave del suo successo. Mi spiego. Ha gusti romanticissimi, anche un po’ ingenuotti, da ragazza di provincia americana. In un’intervista al Toronto International Film Festival del 2022 le hanno domandato quali fossero i suoi film preferiti e lei ha detto Love Story, La forma dell’acqua, Ragione e sentimento di Ang Lee, Come eravamo (non sembra avere contezza di oggetti culturali che non siano stati scritti o girati o eseguiti negli Stati Uniti d’America nel secondo Novecento: ma come tutti quelli nati a West Reading, Pennsylvania, come tutti quelli nati negli Stati Uniti d’America che non hanno fatto l’università). Un po’ a sorpresa, dice che le piace Cassavetes; ma in realtà la cosa non sorprende affatto perché lei è incontenibilmente dramatic proprio come certe donne ritratte da Cassavetes (voglio dire, è una che chiama “the smallest man who ever lived” uno che, congetturo, se l’è portata a letto una sera e non l’ha più richiamata: ma allora Hitler?). Dall’altra parte, però, nonostante questa vena selvaggiamente sentimentale, questa inclinazione alla piazzata, sembra avere una anche più intima vocazione per l’ordine, la razionalità, il controllo, lo spirito di sistema. Il suo spettacolo lo divide in ere, cambiando genere, mood, vestiti ogni quattro canzoni. Il repertorio dei suoi testi lo divide in Quill Lyrics, Fountain Pen Lyrics e Glitter Gel Pen Lyrics, cioè più o meno ‘testi scritti con la penna d’oca’, ‘testi scritti con la stilografica’, ‘testi scritti con l’inchiostro fosforescente’: e gli swifties saranno in grado di assegnare ogni canzone alla categoria giusta. Dal mobilio di casa sua (rectius, di una delle sue case, perché l’impressione è che ogni volta che deve trascorrere più di una settimana in una città proceda col rogito), per come appare nell’intervista a Vogue che si vede su YouTube, s’indovinano i segni di una personalità – senza offesa – leggermente anale. 

Quanto alla qualità dei testi, confesso che le mie doti di esegeta sono un po’ infiacchite, in mezzo a questa bolgia, ma avverto che prima di giudicare bisogna capire che la forma-canzone non è poesia, o racconto, o romanzo, o apologo; la forma-canzone è la forma-canzone (strofa, ritornello, strofa ritornello, bridge ritornello, con poche numerate varianti, perché dal punto di vista dell’arte combinatoria TS non è Frank Zappa), e a me pare – a noi pare – che TS abbia un talento fuori dell’ordinario precisamente per questa forma: come se questo fosse naturalmente, spontaneamente il modo in cui si articolano le sue idee, le cose che ha da dire. 

E appunto: che cos’ha da dire che gli altri non abbiano già detto e ridetto? 

Ripeto: mi trovo in questa bolgia, mancano due minuti all’inizio dello spettacolo e le ragazzine qui intorno sembrano spiritate, non sono le condizioni migliori per un’argomentata explication de texte. Ma intanto torniamo a fare attenzione alla composizione del pubblico. Quasi tutte ragazze, e ragazze ordinarie, né belle né brutte, che avranno ricevuto la loro dose di umiliazioni, di soprusi (e beninteso, possono anche essere umiliazioni e soprusi in parte o del tutto immaginari, possono anche essere quelli che ogni essere umano deve sopportare e superare se vuole vivere in società), ragazze che avranno già addosso le cicatrici del primo amore, o che sognano di averle: una buona percentuale del repertorio di TS parla di questo genere di esperienza, di questo trauma del crescere in un mondo che loro avvertono come poco gentile soprattutto con le femmine (non è strano che il grido più forte, oceanico, arrivi sulle tre parole “fuck the patriarchy”, nella versione estesa di All Too Well). Ma piace anche ai ragazzi. Sì, perché le storie di sofferenza patita e sconfitta, di caduta e rinascita, e soprattutto di vendetta piacciono anche ai maschi, piacciono a tutti, e storie del genere formano un’altra cospicua sezione del canzoniere di TS, da Mean a Epiphany a You’re on Your Own, Kid a Who’s Afraid of Little Old Me. 

Del resto, senza entrare adesso nei dettagli (siamo all’ora zero: sul palcoscenico è entrato il corteo dei flabelli), non è proprio normale che una racconti la propria vita/carriera dividendola in ere, se non ha ancora compiuto trentacinque anni; ma di fatto la vita/carriera di TS si presta benissimo, un po’ perché è vero che le canzoni dei suoi vent’anni sono molto diverse da quelle dei trenta (sempre nel perimetro del pop, si capisce, più o meno country, più o meno rock, più o meno elettronico: discontinuità in una gamma di variazioni limitata), un po’ perché non mi viene in mente nessun’altra o nessun altro cantante contemporaneo che abbia così minutamente, scrupolosamente raccontato i fatti suoi – cioè il suo cambiare, il suo crescere, dato che parliamo di una donna giovane – nelle canzoni. 

Qui sta anche, mi pare, la ragione principale del successo di TS. Detto così suona quasi come una battuta, perché sulle ragioni del suo successo sono state scritte migliaia di pagine. La bibliografia su TS cresce al ritmo di un paio di articoli al giorno, più o meno, considerando soltanto la ventina di riviste e siti che si occupano di musica, stardom, costume. E’ vicino il giorno in cui gli Studi Swiftiani raggiungeranno la mole e la follia degli Studi Danteschi, con una dozzina di riviste dedicate, siti internet impegnati nell’esegesi dei suoi versi e articoli deliranti sui sottotesti dei suoi testi. Col Sommo Poeta TS condivide infatti, oltre alla fama planetaria, anche la propensione a nascondere nei suoi testi allusioni, citazioni, easter eggs, come li chiamano laggiù nelle Americhe: e basta dare un’occhiata ai commenti alle canzoni swiftiane che si trovano su Genius.com per trovarsi immersi in una foresta di ipotesi e controipotesi al limite del complottismo, di QAnon: caso lampante di quella interpretazione paranoica dei prodotti artistici di cui parlava una volta Eco.

Ma in questo oceano di scemenze si trovano anche pezzi molto intelligenti, tra i migliori per esempio quello di Helen Lewis sull’Atlantic (in sintesi, TS piace perché dice gli sfigati non devono vergognarsi della loro sfiga, e possono uscirne con un pizzico di determinazione, contando sulle proprie sole forze: benché lei sia una giovane donna chiaramente socievole, nell’universo di TS gli amici sono evanescenti, assenti, quando addirittura non tradiscono, alleandosi con i nemici) o quello di Julie Burchill sullo Spectator (in sintesi: TS è una canaglia vendicativa, e dato che è una grande artista ha tutto il diritto di esserlo). Ma insomma, le vite delle star sono sempre interessanti, e la vita reale di una star, giorno dopo giorno (“è come se i fans leggessero il mio diario”, ha detto una volta), sublimata nelle canzoni, lo è doppiamente, soprattutto se la star si autorappresenta non come un’eroina invincibile ma come un’underdog, facilitando così il rispecchiamento (“è proprio come me!”), benché innegabilmente sia un’eroina invincibile sulla quale l’underdog proietta le sue fantasie di felicità, riscatto, vendetta. In questa oscillazione tra rispecchiamento e proiezione, tra – poniamo – You’re On Your On, Kid e New Romantics, o tra Cruel Summer e Blank Space, c’è un pezzetto della risposta alla domanda “Ma perché?”.


E ora, finalmente…
Miss Americana and the Heatbreak Prince è, come sempre, la prima canzone; Karma è l’ultima. Quello che c’è in mezzo non ha senso descriverlo. Chi ha visto il film The Eras Tour, uscito lo scorso autunno, sa già tutto, perché il film era appunto la registrazione del concerto fatta con mille telecamere; chi non l’ha visto lo trova su Disneyplus, e spenderà bene i suoi soldi (pochi, rispetto ai 22 euro che abbiamo speso in sala) e il suo tempo. Lei può piacere o non piacere, ma lo spettacolo è, tecnicamente, la cosa forse più impressionante che ho visto in vita mia. 

Lo spettacolo – lo preciso a beneficio dei puristi, dei nostalgici del pianoforte e voce, di Kurt Cobain unplugged, di Claudio Villa che con un acuto fa tremare i vetri – lo spettacolo è uno spettacolo. Se, poniamo, al punto alfa del genere c’è Guccini con la chitarra seduto su una sedia e al punto delta ci sono i Pooh in formazione-tipo con un paio di vocalist a supporto, con TS siamo al punto omega: il concerto scolora nell’opera lirica pop, anzi nel musical. L’idea che lo ispira, l’idea che ispira tutti gli spettacoli come questo, è contenuta in una vecchia intervista di Letterman a TS: “Bello – le dice Letterman parlando della sua ultima esibizione dal vivo – suonava magnificamente, e faceva pensare al vero show-business: tutto ciò che uno vuole in uno spettacolo, glamour, musica deliziosa, una bella donna, è stato grande”. Lei non si offende né per il glamour né per la bella donna – nel 2015 si era in pieno Medioevo – anzi ringrazia per lo “splendido complimento” e conferma che sì, anche lei ama molto “l’idea dello show-business”, quella cosa per cui una fa un disco ma poi va in giro a promuoverlo, canta, lo vende, vende vagonate di gadget, diverte la gente e arricchisce sé stessa e quelli che l’hanno aiutata a mettere in piedi lo show. 

Questa attitudine industriale, spensieratamente materialista, che è stata causa di infiniti lutti ma anche concausa della sterminata fioritura della cultura pop americana nell’ultimo secolo è stata ed è piuttosto estranea allo spirito italiano, ma bisogna tenerla presente, bisogna accoglierla per il molto di buono che può ispirare, creare. Spettacolo vuol dire che ci sono una ventina di ballerini che s’immaginano selezionati tra mille, che il lavoro del coreografo, del regista, degli addetti alle luci, dei microfonisti, dei tecnici dell’immagine, che il lavoro di tutti questi professionisti conta quanto e più dell’arte e del corpo di TS. Più che a un concerto bisogna pensare – dicevo – al musical, un musical interattivo, dato che il pubblico partecipa non solo cantando/urlando/muovendosi ma anche improvvisando cori (“Sei bellissima” costringe TS a interrompere l’intro di una canzone, cosa che non fa mai, perché i tempi sono contingentati al secondo), sollevando cartelli con la scritta “Enchanted to meet you after 13 years”, agitando in aria le scatolette luminose che sono state distribuite all’ingresso, e che io, tradendomi, ho subito scambiato per il dispenser del Coumadin. E anzi a tratti viene in mente persino il circo, nel senso che – dopo gli spruzzi di fumo e di fuoco e le coreografie con le biciclette fosforescenti – se saltassero fuori i giocolieri e le foche con la palla nessuno si stupirebbe troppo. 

Dunque bisogna accettare un patto che è leggermente diverso da quello che si accetta quando si va a vedere un concerto normale. Come nel musical, come nell’opera lirica, come a teatro, qui è tutto programmato al millimetro: forse anche il colpo di tosse (un moscerino in gola?) che la costringe a interrompere una canzone, forse anche il “vi amo tutti” pronunciato dopo un applauso particolarmente prolungato, forse anche la commozione che la sfiora mentre canta Marjorie (mentre io mi commuovo veramente); come programmato è, certamente, l’abbraccio e bacio e dono del cappello alla bambina pacioccona in prima fila (ma perché forse Springsteen che si mette a ballare con la ragazza del pubblico in Dancing in the Dark improvvisava?). E’ tutto così perfettamente sincronizzato che a un certo punto ho una visione alla Truman Show, e mi attraversa il sospetto che anche i settantamila spettatori di San Siro siano stati arruolati come claque, anzi addirittura che il pubblico gridi in playback: il coro “Sei bellissima” parte con troppa convinzione proprio al momento giusto, le urla si fanno assordanti proprio quando intorno a me sembra che nessuno stia urlando – e insomma avanzo l’ipotesi che il Gestore dei Suoni, la vera mastermind che governa il concerto, faccia tutto lui premendo dei tasti, aprendo e chiudendo delle manopole.

C’è insomma, in tutto questo, un elemento di finzione, di controllatissima simulazione, e viene in mente che proprio per questo Milano vada benissimo come sede per questi concerti in quanto città in cui si raccontano delle storie un po’ da mitomani e si credono a quelle degli altri, e l’ironia tace di fronte al lavoro ben fatto, o alla fama che il mondo ha già certificato. A Roma forse ci sarebbe stato meno entusiasmo, non dico i gatti morti tirati sul palcoscenico ma meno entusiasmo, specie la seconda sera. Lo spirito romano è sempre fissato in quella suprema battuta di Flaiano: “L’estate scorsa è venuta a Roma Lily Niagara a fare spettacoli di spogliarello. Dopo quattro giorni, nel locale dove lavorava, si entrava con la riduzione dell’Enal”. 

E la musica? I musicisti suonano davvero? Mah, suonano qualcosa, ma è chiaro che buona parte dei suoni che sentiamo è pre-registrata. Lei canta? Ma sì, certamente canta (e molto bene) nella sezione acustica dello spettacolo, solo voce e chitarra; per il resto anche lei aggiunge la sua voce a un pre-registrato: non esiste essere umano che possa correre e ballare e fare le facce e rotolarsi per terra e insieme cantare senza mai sbagliare un tempo, senza mai emettere una nota falsa. Qualche giorno fa, in concerto a Wembley, Dave Grohl si è fatto sfuggire una malignità sul tema, e avrà senz’altro ragione, quello di TS non è veramente il classico ‘concerto dal vivo’. Ma vedi, Dave, il fatto è che noi non siamo qui per questo.

 

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