Steve Albini - foto via Getty Images

1962 - 2024

Quando Steve Albini ci spiegò il metodo dietro al suo rock autarchico

Stefano Pistolini

Un'intervista concessa a Chicago vent'anni fa per ricordare il grande artista e produttore discografico deceduto un paio di mesi fa a causa di un infarto

Vent’anni fa, trascorrendo qualche settimana a Chicago per lavorare a una serie tv che raccontava le personalità più importanti della città – a cominciare da un giovane politico nero chiamato Barack Obama – una mattina siamo approdati in periferia, in una zona semi-industriale e piuttosto disgraziata, fino a un’anonima costruzione di mattoni sulla cui porta c’era scritto Electrical Audio Studio. Era la creatura del produttore e musicista Steve Albini e per conversare della musica di Chicago era inevitabile suonare quel campanello.

L’intervista con Steve era fissata da tempo, ma i suoi collaboratori ci misero un’ora a farlo scendere dal letto, perché la notte precedente era stato sveglio dietro alla registrazione di chissà quale band. Così ci venne offerta la possibilità di girovagare per la struttura, che era il bunker più accogliente e al tempo stesso austero che avessimo mai visto, in confortante contrasto col mezzo metro di neve che avevamo dovuto attraversare per raggiungerlo, perché Chicago è la città con il peggior meteo d’America e a gennaio il massimo che puoi fare è metterti una calzamaglia pesante e prenderla con filosofia. Il concept della Electrical Audio era chiarissimo: tecnologia dolce. Prima ancora di incontrare Albini, la sensazione fu che quel posto, abituato a ospitare le band hardcore più intransigenti del paese, fosse improntato a gentilezza, integrità, professionalità.

A Chicago del resto Steve ci era approdato venendo da lontano e seguendo il filo della passione per la musica che lo accompagnava da sempre: nativo di Pasadena, California, si era svezzato imparando a suonare il basso nel Montana e presto aveva cominciato a mettere su una serie di band che già appartenevano all’aristocratica archeologia del noise rock: Big Black, Rapeman, infine gli Shellac che rimarranno il suo veicolo espressivo fino all’ultimo giorno di vita. Teneva ostinatamente in piedi la passione per suonare in giro su palchetti spesso male illuminati, come antidoto alla sedentarietà dello starsene là, nella sua struttura ben riscaldata di Chicago, dove non gli piaceva essere chiamato produttore, bensì tecnico del suono, al servizio di chi, sottopagando la prestazione di una celebrità come lui, poteva godere di assistenza, competenza e buoni consigli. Per arrivare alla confezione di un prodotto musicale che, per volere di Albini, non doveva mai essere snaturato delle intenzioni originali dei titolari. Quando poi, coi capelli più arruffati che avessimo mai visto sulla testa di un quarantenne (per non parlare della camicia di flanella stazzonata fino alla consunzione) Steve finalmente si rese disponibile per un’intervista in cui ci avrebbe parlato della musica nella città che l’aveva adottato, questo suo approccio essenziale alla professione venne espresso con modestia ma anche con chiarezza. A lui piaceva così: vivere immerso nella musica e tra i musicisti, mentre del surplus di possibili guadagni non sapeva che farsene, anche perché avrebbe potuto realizzarli al tavolo da poker, il suo vizio privato, del quale era un portento. Fu un incontro illuminante, perché costituì il miglior avvicinamento possibile al concetto d’indipendenza musicale, artistica e professionale, in un’interpretazione che travalicava la matrice americana e costituiva un vero modello a cui guardare, sebbene arduo da replicare.
 

Un paio di mesi fa, a soli 61 anni di età, Steve Albini è morto improvvisamente a Chicago, per un attacco di cuore. Come capita a volte, generando un effetto imprevedibile, la notizia della sua dipartita ha sollevato un’ondata di dispiacere e dolore anche qui da noi, con centinaia di ammiratori e seguaci, musicisti e giornalisti bisognosi di esprimere il proprio sbigottimento e il senso di vuoto e caducità provocato da questa perdita. È stata una liturgia malinconica ma rincuorante, per quel desiderio di reciproco riconoscimento espresso da più parti e per il commovente omaggio al compianto Steve, espresso da un coro. C’entreranno le origini italiane del suo cognome, c’entrerà il suo aspetto da monello attempato, c’entrerà soprattutto la qualità del suo lavoro e l’intensità del suo approccio, confermato dalle sue parole. Adesso poi, con l’avanzare dell’estate l’emozione per quella notizia ci spinge a intercettare un paio di azioni mediatiche dedicate ad Albini che crediamo sia giusto segnalare. In sostanza, i due mensili musicali più autorevoli del nostro paese tornano a occuparsi dello scomparso con altrettanti lavori che contengono rievocazione, informazione e affetto: il mensile Rumore dedica la copertina dell’ultimo numero a Steve, “Costruttore di Mondi”, con un ritratto particolareggiato. E il direttore del magazine Blow Up, Stefano I. Bianchi, ripropone il volume che ha personalmente curato per la collana di monografie della rivista, con una miniera di notizie e di elucubrazioni sul percorso musicale di Albini. Sono lavori approfonditi, ennesima prova che di stampa specializzata c’è ancora bisogno ed è un piacere che esista. A proposito: da ironico stakanovista qual era, Steve ci ha lasciato anche un disco postumo coi suoi amati Shellac, che nel frattempo è uscito. Si chiama “All the Trains” ed è consigliato a chiunque abbia il gusto per un rock intransigente, autarchico, analogico e segretamente romantico.

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