(foto dalla pagina Facebook del Macerata Opera Festival)

lirica

Allo Sferisterio di Macerata un'opera come si deve. Non era scontato. Applausi

Alberto Mattioli

La "Norma" proposta dal teatro marchigiano convince, nonostante il cast quasi tutto di debuttanti. Direzione esemplare di Fabrizio Maria Carminati, luci e senografie una marcia in più

Una bella “Norma” è tutt’altro che la norma. Quindi chapeau allo Sferisterio di Macerata che ne ha proposta un’edizione convincente, oltretutto con un cast quasi tutto di debuttanti nel titolo. Principiante, ma solo nella regia lirica, è anche Maria Mauti. Si sa che l’opera di Bellini è forse la più difficile da mettere in scena di tutto il repertorio, a meno che non ci si voglia limitare al simil Asterix della sedicente tradizione. Qui si parte dalla scelta da sempre migliore per quel che riguarda le scenografie allo Sferisterio: non farne, e affidarsi alla spoglia bellezza della grande muraglia maceratese. Per alludere a foreste sacre e chalet druidici bastano le luci splendide di Peter van Praet e le scale metalliche semoventi disegnate da Garcés-De Seta-Bonet Arquitectes. Certo, quando Norma sale sul pulpito per arringare i galli, si teme per un momento che voglia strillare che è una donna e una madre, poi invece attacca “Casta diva” come da libretto: ma è giusto, perché la druidessa è in effetti una ducessa. Il fatto che la drammaturgia di Bellini sia così sfuggente non significa che non ce ne sia una. La regia è giustamente scabra ma non rinunciataria; se ci sono delle ingenuità, tipo gente che sale scalinate per poi discenderne senza una ragione apparente, ci sono però anche delle ottime idee, come nel primo duetto fra Norma e Adalgisa dove le due, dipanando le loro sublimi melodie “lunghe, lunghe, lunghe” (copyright di Giuseppe Verdi), ripetono gli stessi gesti in quanto vittime dello stesso latin lover. 

  

La direzione di Fabrizio Maria Carminati è esemplare. Non è necessario fare la rivoluzione interpretativa ogni volta. Per convincere, basta impaginare una “Norma” di impianto tradizionale (con tutti i suoi bravi daccapo variati, però, e la chiusa lirica di “Guerra, guerra” che non si sente mai) ma con tempi giusti, rubati azzeccati, sostegno al canto, scatto senza fracasso nei cori bellicosi. Gran debutto di Marta Torbidoni nel ruolo del titolo: prudente nella cavatina, va in crescendo fino al finale kolossal cui presta voce e fisico di ieratica solennità. E canta davvero bene, anche le agilità, e nel timbro corposo c’è una venatura un po’ aspra che a Norma conviene assai. Roberta Mantegna è un’Adalgisa soprano molto meno salice piangente del consueto, e giustamente; Antonio Poli, a suo agio nella tessitura baritenorile di Pollione, risolve con un suono misto l’infernale do acuto della cavatina e in generale ha una voce così bella da renderlo plausibile come tipico italiano all’estero che fa il gallo con tutte le galle locali. Inappuntabile Riccardo Fassi come Oroveso e insolitamente bravi i comprimari che meritano la citazione, Carlotta Vichi e Paolo Antognetti: applausi convinti a tutti

  

Prima di Bellini, omaggio a Puccini con l’ennesima “Turandot” di quest’anno di centenario. Più che brutta, la regia di Paco Azorín sembra insulsa. L’idea è di mettere la plebe nelle risaie in basso e Turandot e la sua corte matriarcale in alto, su un praticabile molto chinese. Poi però tutti fanno i soliti gesti stereotipati da cantanti, e non si capisce perché all’inizio una delle mondine stia male, venga soccorsa da Ping Pang e Pong insolitamente caritatevoli e sparisca per il resto dell’opera senza tornare nemmeno sotto forma di ripieno dei ravioli, boh. Non ha invece un’idea banale dell’opera Francesco Ivan Ciampa, ben deciso a farcene delibare le squisitezze anche a costo di tempi lenti che mettono talvolta in crisi una compagnia solida ma non entusiasmante: come lo spettacolo, insomma. Infine, le sessanta edizioni dell’opera allo Sferisterio sono state celebrate da uno dei soliti concertoni-spezzatino che finiscono con i solisti che cantano in coro il Brindisi della Traviata. Puro horror. Qui non si è contro il nazionalpopolare, a meno che non diventi nazionalpop, men che meno contro la divulgazione. Ma bisogna saperla fare, e in queste occasioni modello opera for dummies sarebbe bene provvedersi di un minimo di drammaturgia, che ci vuole anche quando gli scopi sono celebrativi. E più ancora quando sono pedagogici.

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