Tragedie in ballo
Tutti gli spettacoli a breve in scena al Teatro Olimpico di Vicenza, rivisitazioni dei classici greci. Li ha anticipati Meredith Monk
La cantante e compositrice americana, a 82 anni, incanta il pubblico con la sua voce ipnotica. L'edizione 2024, diretta da Montanari e Martinelli, celebra i classici con spettacoli e laboratori, inaugurata dall'Orestea di Terzopoulos
Vai all’Olimpico di Vicenza e già il respiro accelera per la bellezza architettonica del Palladio che ti corre incontro, per la memoria di spettacoli – come Primal Matter del regista-coreografo greco Dimitris Papaioannou – che non vedrai mai più su quella striscia lunga e stretta di palcoscenico con lo sfondo inaccessibile della scena lignea e dipinta dello Scamozzi. Questa volta oltre a venire rapito dall’illusionismo prospettico delle sette vie di Tebe di Edipo Re, la prima tragedia greca allestita all’Olimpico mai rimossa dal 1585, ti imbambola la voce tersa e vibrante di una “tartarughina” americana in dialogo con John Hollenbeck, percussionista e compositore. A ottantadue anni non ti aspetti che Meredith Monk, piccola creatura, un tempo dagli occhi non offesi ma stranamente esaltati da uno strabismo magnetico, riesca ancora a ipnotizzare gli astanti come faceva da piccola canticchiando ben prima di parlare, accanto alla madre pianista da concerto, al nonno baritono e violinista durante il regno dell’ultimo Zar di Russia.
Con i tasti sfiorati del piano, o l’incastro della lingua nell’arpa ebraica, Monk s’incunea nelle improvvisazioni jazz di John Hollenbeck
Eppure questa ebrea di origini tedesco-moscovite, nata incidentalmente a Lima e perseverante nel look con le treccine inca, sa abbracciare non solo l’amico Hollenbeck ma l’immaginario collettivo di un pubblico eccitato e debordante, accorso da ogni dove per l’unica tappa del suo tour europeo. Meredith non è stata solo vocalist ma anche danzatrice, coreografa, regista e film-maker. Quarry, Ellis Island, Recents Ruins, tra tanti lavori alti o capolavori, le sono valsi un’infinità di premi e il più recente inserimento tra i 50 maestri della ricerca più importanti nel mondo. Sono azioni coreografiche lunghe giorni (che chiamò paesaggi) o frugali (i ritratti), dominate dal tema ossessivo del rapporto tra la storia privata dei singoli e quella delle ère storiche, dalla contrapposizione di azioni semplici e quotidiane e invece fantasticherie e riti nel segno di un pauperismo e di un artigianato intuitivo e “tattile” ora più che mai di ritorno. Alla sperimentazione vocale, Monk ha sempre voluto assegnare un valore regressivo e straniante, quasi potesse riportarci alle sorgenti di una perduta infanzia o nel cuore del movimento teatrale. Il corpo, nella vertigine del vocalizzo, per lei ha inglobato tutto senza sosta, “come un fiume sempre in piena”, dice, “dal gemito penetrante, al basso lamento funebre, dal chiacchiericcio, alla nenia incantevole che emerge tra ripetizioni e suoni naturali”. Nella prima parte del concerto all’Olimpico ecco Songs of Hill, un assolo quasi pastorale del 1977, seguito da vari frammenti di Light Songs (1988), da Madwoman’s Vision tratto dal biblico Book of Days (1988), a May the Dark Ignorance of Sentient Beings Be Dispelled (2022) in cui si colgono i mutamenti di una tecnica vocale estesa alla parola, al canto sillabico, alle imitazioni degli animali, a modalità esotiche di nuovo o consolidato conio. Con lo sfiorare i tasti dell’amato pianoforte, o l’incastro della lingua nella sua arpa ebraica (il nostro scacciapensieri), Monk s’incunea nelle improvvisazioni anche jazz di Hollenbeck, amalgamandole nella singolare mobilità dei timbri della sua voce.
I curatori del 77° ciclo di spettacoli classici, Ermanna Montanari e Marco Martinelli, sono allievi della Monk e ne hanno centellinato le frasi
Fermiamoci qui anche perché appare strano che un ciclo di spettacoli classici al Teatro Olimpico di Vicenza, tra l’altro dal 1934 rivolto soprattutto alla messinscena di tragedie greche come in origine, abbia reso omaggio proprio a Meredith Monk e con mesi d’anticipo rispetto al 20 settembre, sua data d’inizio. Invece strano non è. Ermanna Montanari e Marco Martinelli, i due direttori della 77esima edizione dell’importante vetrina 2024 (e della prossima) sono stati allievi della Monk, e nella ricerca continua del loro Teatro delle Albe, fondato a Ravenna nel 1983, pluripremiato e richiesto ovunque, hanno centellinato ogni frase della loro maestra: come quel “Io lavoro tra le crepe, dove la voce inizia a danzare, dove il corpo inizia a cantare, dove il teatro inizia a diventare cinema” e hanno organizzato un cartellone di tragedie, concerti, chiamate al pubblico, laboratori, incontri, in cui la voce recitante è davvero corpo nel suo insieme. Molti “ingredienti” rendono questo appuntamento di fine estate (20 settembre - 20 ottobre) imperdibile, a cominciare dal titolo della vetrina, “Coro”, che sembra amalgamarli tutti nel segno grafico di Igort, celebre fumettista, autore di un manifesto immerso in un chiarore color cipria. Le quattro figurine patafisiche che vi campeggiano al centro sono in eleganti costumi ’800 e le loro nuvolette sembrano soffiare con grazia un’unica lettera dell’alfabeto; l’insieme forma la parola “coro”.
Fan di Igort, i due direttori si sono fidati del suo chiarore “tragico”, rafforzando l’idea di rispolverare o meglio rinfrescare nella luce i classici dell’antichità. A Theodoros Terzopoulos, sessantasettenne maestro greco di fama mondiale, toccherà rompere il ghiaccio della vetrina promossa dal comune di Vicenza, insieme all’Accademia Olimpica, alla Biblioteca Bertoliana e grazie all’assetto della Fondazione del Teatro comunale vicentino. Con i quarantacinque attori dell’Attis Theatre, la sua compagnia, e l’Orestea di Eschilo – una trilogia formata dalle tragedie Agamennone, Coefore, Eumenidi – Terzopoulos è felice di tornare all’Olimpico dopo un’assenza di trent’anni (vi mise in scena un’Antigone di Sofocle) ed è convinto che porsi dei limiti – siano essi fisici, come lo spazio esiguo del teatro palladiano, o immateriali come il prosciugamento di un dramma – costringano a giungere all’essenza di un’opera. Tagliata di una trentina di pagine anche al debutto internazionale di luglio al Teatro di Epidauro, l’essenza della sua Orestea coincide proprio con il coinvolgimento del coro. A un insieme di corifei cantanti, danzanti – in antichità guidati da un maestro collocato nello spazio chiamato orchestra – spettava e spetta il commento delle azioni espresso raccogliendo gli umori della collettività. Nell’Agamennone il popolo intravede un potere, un’autorità malvagia che viene soppressa da Clitennestra. Nelle Coefore, il modello di tutte le tragedie di vendetta, al coro s’impone riflessione e una decisione su chi rende onori funebri a morti indegni come Agamennone. Nelle Eumenidi, come osserva Nicole Loraux, la filosofa francese nota per il testo “Il femminile e l’uomo greco” (Mimesis, giugno 2024), vive “l’evocazione della lunga catena di uccisioni nella saga degli Atridi e insieme la commemorazione del suo superamento attraverso la fondazione del tribunale dell’Areopago che porrà fine alla carneficina famigliare”. E’ una svolta della civiltà che condona un matricida, Oreste, ma impone l’istituzione di un nuovo ordine basato sul logos, sull’argomentazione, sul dibattito. Nasce l’era moderna democratica e fragile quanto può esserlo oggi. A Terzopoulos stanno a cuore le sorti del mondo e la sua ricerca vanta affondi sociopolitici senza mai cadere nella didascalia. Si ritiene un regista dionisiaco, e al dio che i romani chiamavano Bacco ha dedicato un testo/manuale, Il ritorno di Dionysos. Il metodo di Theodoros Terzopoulos (Theater der Zeit, Berlino, 2020), tradotto in molte lingue che spiega come muove i suoi performer, come li indirizza verso una totalità fisica. Sussulta il diaframma, e la voce si plasma come plastilina. L’attenzione è concentrata sulla parola greca antica e sul ritmo interiore cui si deve obbedire. “Il significato è un fenomeno secondario; è il cervello”, dice il regista, guardando all’insegnamento di Antonin Artaud. “Noi invece dobbiamo trovare il cuore della parola, e quest’organo pulsante che ci tiene vivi è il ritmo”. Un ritmo che produce un suono cui non serve interpretazione: “basta un lago di energia in cui il significato nuota”. Si agita così il corpo nelle molteplici improvvisazioni libere, e quel che si vede e sente – suoni, parole, gesti, anche effrazioni isteriche – è specchio di ciò che tormenta e scuote dentro, nell’interiorità.
Alessandro Serra porta in scena il mito di Edipo tradotto in grecanico, greco italico “sporco, contaminato, ma più dolce e duttile del greco attuale”
Siamo vicinissimi alla seconda novità in un ciclo che trasforma e prosciuga i classici. In Tragùdia. Il Canto di Edipo, Alessandro Serra, regista romano, tra i più famosi direttori di scena italiani, non taglia la narrazione ma la piega alle modulazioni vocali/canore di una sorta di Teatro Nō distillato; il corpo si muove assieme alla voce in modo ieratico, vibra nell’immobilità, come nel canto gregoriano. In più, interrogandosi su come Sofocle seppe guidare i suoi spettatori alla scoperta di un uomo, Edipo appunto, che ebbe il coraggio di voler conoscere se stesso, si domanda come oggi questo mito possa essere riconsegnato al pubblico odierno senza la connessione umana della polis, e soprattutto privato del senso del sacro. Serra pare affiancare i suoi pensieri a quelli di Byung-Chul Han quando afferma: “In un’epoca di macerie non c’è altra possibilità che lavorare su ciò che resta, soffiare sulle ceneri per riattivare il fuoco”. Al pari del filosofo sudcoreano, di stanza a Berlino, in La scomparsa dei riti. Una topografia del presente (ed. nottetempo 2022), il regista auspica il re-incanto del mondo e l’emergere di un’energia curativa in grado di rendere le nostre vite meno grigie e sbiadite, grazie al ritorno a ritualità e a cerimonie chissà perché screditate. Serra suggerisce di provare a celebrare il racconto e il canto di Edipo in grecanico.
Linguaggio arcaico, adagiato sull’Aspromonte e in ben pochi villaggi calabresi, biascicato da vecchi per lo più cadenti e sdentati che si vergognano di tramandarlo ai figli o ai giovani, e lo parlano solo tra loro, il grecanico è la preziosissima eredità di una fetta della nostra Magna Grecia e forse qualcuno lo capirà. Fu proprio Macbettu, lo spettacolo pluripremiato del 2017, tutto maschile e da Shakespeare ma parlato in sardo, una lingua protetta, non un dialetto, ma che pure sta per scomparire, a lanciare Serra nel mondo, e a farci stupire delle sue meraviglie sonore. Ormai i suoi interpreti sono però diventati fieri araldi del grecanico, di questo greco italico “sporco, contaminato, ma assai più dolce e duttile del greco attuale”. In forma site specific, Tragùdia ricercherà il puro ritmo, la forma danzante. All’Olimpico solo i costumi degli attori/cantanti cambieranno: saranno anni 40 e 50 all’inizio; poi tuniche di juta stracciata a suggerire il bosco sacro delle Eumenidi. In un’ora tutto si esaurirà in una partitura musicale; “suoni vivi, senza elettronica, naturalezza fisica e acustica”.
In questo caleidoscopio di voci tragiche variamente colorate, non poteva mancare l’originale poetica di Giovanni Testori. Poeta, scrittore, pittore, drammaturgo lombardo, seppe inventare per i suoi molti testi un incastro sfacciato, sensuale, ironico, erotico, musicalissimo: una lingua-dialetto ma anche globale somma d’idiomi diversi. sdisOrè è la potente Orestea di Testori, andata in scena al Teatro Goldoni di Venezia nel 1991, a due anni dalla morte dell’autore. Questa volta la pièce, attesa all’Olimpico, nasce dal giovane Gruppo Uror fondato da Evelina Rosselli e Caterina Rossi. La prima, in scena, narra in solitudine un’Orestea bislacca e cruda, tanto da indossare e cambiare di volta in volta quattro maschere – corrispondenti ad Agamennone, Clitennestra, Oreste ed Elettra, che sembrano fatte di pelle umana, grottesche e rivoltanti anche nell’emissione vocale. Evelina, trasforma e camuffa, tuffandosi in una dimensione onirica ma soprattutto perturbante; qui il mito di Oreste si aggancia alle forme più depravate della violenza contemporanea.
Giovanni Lindo Ferretti celebrerà un rito sciamanico accompagnato da due trombe: “Moltitudine in cadenza, percuotendo”
Per decongestionare l’atmosfera surriscaldata da riti e miti di una certa gravità, i due direttori della 77esima edizione dei classici hanno scelto due musicisti assai diversi tra loro: Francesco Giomi e Giovanni Lindo Ferretti. Il primo compositore, performer, direttore di Tempo Reale, centro di ricerca fiorentino sul suono fondato da Luciano Berio, guiderà una Festa Silenzio. Azione di improvvisazione creativa per una comunità di performer, frutto di un laboratorio di due settimane con musicisti del territorio vicentino per una restituzione gratuita alla Basilica Palladiana. Il secondo, già icona del punk rock anni Ottanta, fondatore dei CCCP - Fedeli alla Linea, del Consorzio Suonatori Indipendenti e dei Per Grazia Ricevuta, svoltò agli albori del 2000 verso la musica sperimentale. Incide album, canzoni tradizionali e religiose, appare e scompare da un rifugio montanaro segreto. Sarà all’Olimpico per un rito sciamanico accompagnato da due sole trombe dal titolo Moltitudine in cadenza, percuotendo, di cui dice bisbigliando: “Un antico palcoscenico in ardita prospettiva urbana… echi biblici… ritualità in forma di teatro…”, e al momento si sa solo che “ciò che deve accadere, accadrà”. Tra queste partiture-rito, non sfugga la memoria dei classici greci.
Un Pluto. God of Gold di Marco Martinelli, con gli adolescenti di Pompei, Torre del Greco, Castellammare di Stabia, Torre Annunziata e Vicenza, rompe la catena delle tragedie per inserire una commedia. Pluto non è solo l’ultima opera delle undici superstiti dell’ironico Aristofane, è il nuovo atterraggio di “Sogno di volare”, un progetto quadriennale (iniziato nel 2022) del cofondatore del Teatro delle Albe per il Parco Archeologico di Pompei in collaborazione con Ravenna Festival e con oltre cento adolescenti. Un’Elettra firmata da Serena Sinigaglia, scansa il complesso di Edipo per narrare quello di Elettra, a suo avviso molto meno noto e messo a fuoco da Freud poco tempo dopo il debutto dell’eponima tragedia di Hugo von Hofmannsthal, cui lei s’ispira. In quest’atto unico, nella Vienna a cavallo tra la XIX e XX secolo, il confronto/scontro è tra madre e figlia, Clitennestra ed Elettra. Tre attori importanti – “Non dimentico”, dice la direttrice, con Lella Costa, del Teatro Carcano di Milano, “che il poeta scrisse per Eleonora Duse”, interpretano le due donne e Agamennone e un coro formato da ex allievi dell’Accademia Teatrale Carlo Goldoni, si divide nel sostenere chi le ragioni della madre che ha ucciso il marito nel ricordo di un’altra figlia, Ifigenia, vittima della sua crudeltà, e chi ricorda il trauma della piccola Elettra mentre assiste all’uccisione del padre. “La nostra eroina, spiega la Sinigallia, “non ha ucciso nessuno, ma tra il sentimento morboso e delirante per il padre, assassinato dalla madre e l’odio per la mamma Clitennestra si trasforma in un essere repellente e selvaggio, corroso dalla rabbia, peggio di un animale ringhioso”. Von Hofmannsthal fa di Elettra una macerata figura espressionista, consumata dalla vendetta al punto che anche quando Oreste uccide la madre, lei non si placa. Prova a danzare ma è così spossata e denutrita da morire. L’allestimento della Sinigaglia si concentra sulla restituzione di una parola “forte” e chiara, lontana dalle ricerche sonore dei diversi ospiti della vetrina 2024. Tuttavia, la sua folle Elettra ballerà, e saremo ancora entro il recinto olimpico e palladiano del futuro “danzare la voce”.