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Ma quale "musica da film"? Fare i conti con Nino Rota
Il suo "Aladino e la lampada magica" al Festival della Valle d'Itria a Martina Franca, in Puglia, dimostra che l'etichetta che accompagna il compositore gli sta davvero stretta
Prima o poi (meglio prima) bisognerà fare i conti con Nino Rota. Perché l’immagine del compositore di musica “da film”, da citare con quel disdegno che si accompagna a un genere presunto “minore”, gli sta davvero stretta. E le scomuniche per lesa avanguardia e rifiuto di Darmstadt sono ormai più fuori dal tempo di quelle dell’Inquisizione. Se n’è avuta la prova di cui non c’era bisogno a Martina Franca, che celebra i cinquant’anni del suo Festival della Valle d’Itria. Qui, fra i trulli e le bombette, il barocco e il bocconotto, è stata ripescata Aladino e la lampada magica, opera che debuttò al San Carlo nel 1968 (ma era già finita tre anni prima), piacque poco e fu ripresa meno ancora. Naturalmente, anche a Martina c’è stato chi ha sentenziato che “negli anni Sessanta non si scriveva più così” (purtroppo, si potrebbe pure aggiungere), ma sembrano problemi critici ormai superati.
Basterebbe considerare Rota un pre-postmoderno, scusate il bisticcio, e la rivalutazione è fatta. Già, perché questo Aladino è di un eclettismo vertiginoso, perfino spiazzante. Ci si sente tanto Puccini, certo, in particolare Turandot specie nei suoi momenti più lirici e lunari, ma a Wagner è dedicata una citazione quasi letterale e probabilmente ironica, e poi Stravinskij, Sostakovic e così via. Con l’aggiunta di una scrittura orchestrale finissima, trasparente anche nella densità di un organico nutrito, e della solita facilità melodica, che poi facile non è per nulla. E direi che sono ampiamente passato tempi in cui l’unica colpa davvero imperdonabile per un operista era quella di mandare a nanna il suo pubblico con una frase musicale stampata in testa o, peggio, canticchiata a fior di labbro. E tuttavia Aladino funziona meno di certi capolavorissimi di Rota tipo Il cappello di paglia di Firenze o La notte di un nevrastenico. Ma è un problema drammaturgico, non musicale, perché se la partitura è quasi tutta bella, il libretto di Vinci Verginelli è spesso debole e sempre modesto, fra piste che non portano da nessuna parte e un finale che dà una curiosa impressione di incompiutezza.
Comunque, a Martina hanno fatto le cose per bene. La scena di Leila Fteita è una sinuosa libreria tutta bianca, mentre i costumi (sempre made in Fteita) sono sontuosi e coloratissimi, davvero da Mille e una notte. Rita Cosentino organizza una regia semplice ma non rinunciataria, direi finto ingenua come l’opera. Notevoli Orchestra e Coro del Petruzzelli, le voci bianche della Fondazione Paolo Grassi e la compagnia, dominata da un Marco Filippo Romano debordante di voce e comunicativa nella doppia parte del Mago e del Re. Marco Ciaponi è un ottimo protagonista, sempre giustamente sbalordito nella sua naïveté, finché alla fine non sposa la principessa Badr-al-Budùr, ben cantata da Claudia Urru. Ci sono anche un buon mezzosoprano, Eleonora Filipponi, come madre di Aladino (una madre molto italiana, però, modello “stai sciupato”) e degli ottimi comprimari. Se per Francesco Lanzillotta Rota è un Dio della musica, lui ne è sicuramente il suo profeta. La sua direzione di un titolo lungo e per nulla facile (mille e una note?) è esemplare. Nei momenti in cui l’opera si impantana in quelli che Wagner avrebbe chiamato effetti senza cause, l’azione va avanti lo stesso grazie a questa bacchetta insieme energizzante e raffinata. Il successo della riesumazione è soprattutto merito suo. Perché poi Lanzillotta non sia direttore musicale di nessun teatro lirico italiano è uno dei misteri poco gaudiosi dell’opera nel nostro Paese. O forse solo la prova della sordità di chi ne regge le sorti.