La novità del nuovo disco dei Fontaines D.C. è che serve riascoltarlo

Enrico Veronese

Ha ancora senso fare un album musicale se si sono già anticipati quattro singoli? A sentire quello della band irlandese verrebbe da dire di sì

Cosa significa dare alle stampe un album di canzoni nel 2024, quando il formato stesso è in profonda discussione e ben quattro dei singoli portanti sono stati resi noti, consumati in rete, sviscerati da giorni o settimane? Ha senso attendere spasmodicamente un “disco” nuovo, se oltre la metà degli undici brani sono già stati suonati dal vivo quasi ogni sera, nei giorni a ridosso della pubblicazione ufficiale?

Domande, e relative quanto effimere risposte, che sfiorano appena la parabola dei Fontaines D.C., la band irlandese di stanza a Londra che con la quarta raccolta “Romance” (data zero, si fa per dire, il 23 agosto) lancia sommessamente la propria candidatura a gruppo musicale portante degli anni Venti per una notevole platea di indie rockers, new wavers e appunto neofiti del mainstream radiofonico.

   

Foto Fontaines D.C.
  

Come negli anni Ottanta e Novanta per Depeche Mode, U2, R.E.M. e quindi Radiohead, alfine nel nuovo secolo per Strokes, Arctic Monkeys e Arcade Fire, il concetto di band guida travalica le generazioni e fa del sestetto di Grian Chatten il ponte fra la rabbia post-punk degli esordi e l’accessibilità universale di oggi, dove il bambino arrabbiato che cammina per Dublino nel video di “Big” è diventato adolescente poi maturato con la consapevolezza di potere molto, se non tutto.

 

      

Un nuovo produttore artistico (James Ford, già al lavoro coi Blur), la copertina iper pop dai colori complementari con un cuore di plastica, temi universali in una luce un po’ torbida e spesso tormentata anche in mezzo ai fiori smithsiani di “Favourite”: i Fontaines di Dublin City scalano il consenso senza effetti speciali, anzi da antidivi, forse ancora straniti dalle decine di listening party che in questi giorni si susseguono in tutta Europa e negli Stati Uniti per cementare il popolo di “Romance”.

   

              

Se il precedente, meraviglioso “Skinty fia” (ovvero la definitiva esplosione) era ancora intriso di revanscismo dublinese spatriato, oggi – con la consacrazione di massa a portata di mano – la nostalgia di casa apparentemente si fa meno sentire, e la ricerca del Tutto parte dall’omaggio ai propri numerosi affluenti: Cure, Joy Division, Primal Scream. Non male, e nemmeno scontato, per un gruppo di 25enni che “fa cose” sempre diversissime, sapendo cesellare i singoli brani in modo da stupire ogni volta.

Come nell’ultimo exploit, “In the modern world”, ballata senza tempo che sta nelle corde di Lana del Rey e il cui testo rivela una forma di alessitimia, a contasto con gli eccessi paraemotivi di questi tempi: “I don’t feel anything / and I don’t feel bad”, proprio come Florence Shaw dei Dry Cleaning quando canta “do everything and feel nothing” in fuga dai facili sentimenti.

   

        

La voce di Chatten, riconoscibile tra mille e già artefice di un apprezzato debutto solista, dona una brillante patina di coolness chiaroscurale a un contesto già classico – per quanto tuttora istantaneo – tipico di quando la musica girava soprattutto attraverso vinili, cassette e cd, e la si pagava nei negozi. Quindi occorreva spendere plurimi ascolti prima di trarre le somme, concedendo ulteriori possibilità a brani che inizialmente potevano lasciare freddi: alla stessa maniera di “Romance”, dove il pubblico già affezionato ha conosciuto analoga parabola all’apparire di “Starbuster” come al rivelarsi del glam stile The Ark dentro “Here’s the thing”.

La prima volta è magari un mah, glielo si concede; al secondo passaggio ci si impegna a trovare del buono, al terzo l’ascolto diventa piacevole, al quarto le difese sono demolite: un invito a non distrarsi, a non accantonare la musica al subentro di una fresca novità dell’ultima ora. A questo serve lanciare quasi ogni pezzo prima di ricomporli in uno, anche se ormai significa che il concetto di album organico non ha più il senso di prima: resta la musica, rimangono le canzoni, la voglia di riascoltarle appena terminate. Come ogni estate, in tutte le stagioni, da Elvis e dai Beatles in poi.

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