Foto dal profilo Instagram dei Peter Cat Recording Co.

Voci da scoprire

La solitudine coraggiosa di Peter Cat Recording Co. A Delhi il pop è roba per pochi

Stefano Pistolini

Nella capitale indiana, una volta al mese, la band di Suryakant Sawhney riesce a suonare la sua musica caotica e variopinta: jazz, rumorismo, improvvisazione, senza scordare Bollywood. Un suono che guarda agli Stati Uniti di un'epoca che non esiste più

Servono le lente, sonnolenti giornate agostane per inoltrarsi in ascolti musicali improbabili nei tempi più impegnati della nostra vita. Col rischio, se si ha fortuna, d’imbattersi in qualche scoperta, anche sorprendente. Che ne dite di una rock band alternativa, dal suono jazzy, notturno, spesso cabarettistico e con una particolare vocazione nello scrivere canzoni di eccellente fattura e gran comunicativa e con la particolare prerogativa di provenire da Delhi e d’essere formata da cinque musicisti indiani? Peter Cat Recording Co. (Pcrc, per gli amici) è il nome di questo ensemble che, grazie agli sforzi promozionali di un’etichetta parigina che li ha aggregati al proprio catalogo, corrono il rischio di diventare un oggetto di culto anche nel Vecchio Continente, che ora cominciano a frequentare con una certa regolarità in tour. Pcrc è una creatura della vulcanica mente di un tipo assai particolare, il cantante/chitarrista Suryakant Sawhney che, attorno al 2008, vive a San Francisco per studiare cinema e resta folgorato dai suoni e dai modi tanto della canzone confidenziale americana anni Cinquanta – quella nello stile di Dean Martin e Frank Sinatra – quanto dalla visionaria libertà espressiva della psichedelia californiana, al punto da convincersi di intraprendere seriamente la carriera musicale, rinunciando a quella cinematografica.

Quando un paio d’anni dopo Sawhney finisce i soldi e mestamente deve rimettersi sulla strada di casa. Non lascia indietro le proprie aspirazioni e, una volta rientrato a Delhi, convocando il batterista Karan Singh, il bassista Dhruv Bhola, il tastierista Rohit Gupta e il fiatista Kartik Sundareshan, ripropone la propria determinazione: suonare alt-pop citazionista americana, cosparsa di variazioni col tempo sempre più audaci, che si spingono nei territori dell’elettronica, del jazz, del rumorismo, dell’improvvisazione e naturalmente del Bollywood sound. E, comunque, sempre trainata dalla sua malinconica vocalità dai toni pigri e sognanti, eppure magnetica, subito affascinante. La produzione della bizzarra congrega che abbina sari e chitarre elettriche, consta in tre album, “Sinema”, “Bismillah” e il recentissimo “Beta” che si subito rivela il capolavoro della band, per raggiunta maturità, imprevedibilità e oggettiva qualità del materiale musicale che presenta: in sostanza una sfilza di sorprendenti, belle canzoni, capaci di abbinare groove soul rock alla Alabama Shakes a ondate di sitar, voci manipolate, sassofoni trattati, suoni del passato, rumori transculturali. E poi c’è l’indubbio piacere di fare i conti con la vocalità di Sawhney, il suo ostinato coraggio e tutto ciò che s’intravede osservandolo e ascoltandolo, quando canta e quando racconta.

Ad esempio allorché risponde a un intervistatore che gli chiede come sopravvivano i Pcrc, e lui parla di canzoni registrate in studi improvvisati e di etica del fai-da-te, testimoniando il talento e la creatività del suo quintetto, la capacità di arrivare a quell’inebriante mix di jazz, cabaret e pop trainato da quel canto eclettico, di lussureggiante malinconia, che cita tanto i vecchi cantanti indiani come Mohammed Rafi, come Sam Cooke. Al giornalista che gli chiede come Pcrc si inserisca nella scena musicale di Nuova Delhi, Sawhney offre una spiegazione memorabile: “Dove ci inseriamo? Semplicemente non ci inseriamo. non siamo adatti, non esiste un suono pop a Delhi, ci siamo noi e qualche altra band che ci piace e con cui siamo amici: ma siamo tutti disadattati, mi spiego?”. E aggiunge: “Suoniamo ogni volta che possiamo a Delhi. Ma i posti per il nostro tipo di musica sono pochissimi. Andiamo a Mumbai e a Bangalore, in media un concerto al mese; non ci sono molte città in cui suonare. Se vivessimo in America, faremmo centinaia di show. Qui no. La nostra musica non è accettabile in questo paese. Solo i privilegiati capiscono di cosa si tratta. Per gli altri è incomprensibile e non l’accettano. Anche se poi, ogni volta che suoniamo, alla gente finisce per piacere. Il problema è che non siamo ciò che le persone vogliono vedere. In India il pubblico – a Delhi, per esempio – cerca solo musica per ballare. Robaccia standard. Vanno al lavoro e poi vogliono andare alla festa. Non sono interessati a una sorta di band pseudo-intellettuale e a cercare di capirla. Vogliono divertirsi”. A pensarci bene, è uno scenario interessante. Il pop che torna a essere musica di minoranza, roba per adepti, di frontiera. C’è qualcosa di vitale, elettrizzante in questo racconto che parla di audience ancora da conquistare: “A me non interessa davvero se gli piace. Voglio che provino emozioni. Voglio che dicano: ehi, questa canzone mi sta deprimendo. E subito dopo; sai? Mi piace”. Perciò segnatevi questo nome: Peter Cat Recording Co. e quello di un album chiamato “BETA”. Piccole, rumorose, incruente rivoluzioni vanno in scena ai quattro angoli del mondo.