Big Poppa, il dannato. Ecco la vera storia di Lou Pearlman, il protagonista di “Dirty Pop”

Quella del patron delle  pop band anni 90, è una storia maledetta, uno schema Ponzi con sottofondo di Backstreet Boys. L’ha ripresa Netflix con l’aiuto dell’IA. Ma agli alfieri del MeToo non è piaciuta

È una storia tentacolare (sembra fatta apposta per un film di Martin Scorsese), quella di Lou Pearlman, spericolato truffatore e re Mida della musica pop americana anni Novanta, ora riproposta, con alcune opzioni bizzarre e delle evidenti lacune, dalla miniserie “Dirty Pop: The Boy Band Scam”, diretta da David Fine, uscita a fine luglio su Netflix. L’intreccio di vicende e di contesti è infatti perlomeno sbalorditivo, ma sospinge interessanti riflessioni su quanti invisibili vasi comunicanti connettano ambiti apparentemente lontani del consumismo, del pop e infine della supremazia dell’avidità nella cultura contemporanea. Avidità über alles, accumulare a ogni costo, meglio se col corollario di un alone di fama. Tutto il resto è noia.

  
Per cominciare, chi è Lou Pearlman. Si potrebbe rispondere a sorpresa che è il cugino di Art Garfunkel, celeberrimo vocalist ai tempi dei duetti con Paul Simon. Ma sarebbe una partenza fuorviante: tanto era di aspetto angelico e di allure intellettuale Art, tanto Lou, fin dal primo sguardo, suggerisce impressioni diverse. A scuola lo chiamavano Ciccione, per canzonare la sua palese obesità e il suo aspetto da nerd occhialuto ebreo del Queens, figlio del gestore di una lavanderia a secco e della inserviente di una mensa scolastica. In ogni caso dev’essere il venir su a due passi dalle piste di atterraggio del aeroporto Jfk la scintilla che accende nel giovane Lou la passione per tutto ciò che ha a che vedere con gli oggetti volanti, con una particolare predilezione per i dirigibili, gli elefanti dei cieli, corpulenti come lui. Diventando grande, la cosa per lui si fa seria: prima stende un business plan per un servizio commerciale di elicotteri, poi fa in modo di entrare nelle grazie di Theodor Wüllenkemper, un affarista tedesco con brutti trascorsi ai tempi del nazismo, che adesso traffica per l’appunto con le prospettive commerciali, soprattutto pubblicitarie, dei dirigibili. Comunque, una volta che è divenuto padrone della materia, Pearlman decide di mettersi in proprio e per la prima volta dimostra la sua capacità nel procurarsi ingenti finanziamenti – una procedura che con gli anni porterà allo stato dell’arte – inclusi alcuni di sospetta provenienza mafiosa, allo scopo di lanciare l’Airship International, un’impresa che gestisce una piccola flotta di dirigibili grazie ai quali riesce a convincere grandi brand, McDonald’s incluso, a pagare sostanziose parcelle per far galleggiare il proprio marchio nel cielo.

 

Intanto Lou non trascura l’altra sua grande passione: il mondo della musica. Anzi, trova il modo di convogliare i suoi due interessi mettendo in piedi un servizio di noleggio di jet ed elicotteri privati di cui si servono popstar come Madonna o Michael Jackson, offrendogli l’occasione d’osservare più da vicino la vita dorata dei divi e i formidabili flussi di quattrini in movimento attorno a loro. Lo racconta nella sua autobiografia del 2002, “Bands, Brands and Billions: My Top 10 Rules for Making Any Business Go Platinum” (“Band, Marchi e Miliardi: le mie 10 Regole per trasformare ogni Business in Platino”): Pearlman capisce che il settore d’investimento migliore non ha bisogno di reattori, ma è quello delle sette note che rimbalzano per tutto il pianeta. Perciò stop alle macchine volanti e a capofitto nelle effervescenze della scena pop del momento. Sembra che siano un concerto e un successivo incontro con l’entourage dei New Kids On The Block a scatenare la sua agnizione: sono loro la più famosa delle boy band che in quel momento imperversano ogni dove, macinando hits e guadagnando dollari a palate, sebbene la qualità della loro produzione sia oggettivamente scadente e l’esteriorità che li rende venerabili da parte di legioni di ragazze si basi sul riciclo delle routine danzerecce con cui i giovani gruppi del black soul anni Cinquanta accompagnavano le loro peripezie vocali. Con la differenza che stavolta i protagonisti canterini sono quasi tutti bianchi, muscolosi, belli e alla moda, soprattutto specializzati nel mandarla caldissima; manzetti da concorso che soavemente gorgheggiano su basi elettroniche dance, anziché tra i singulti dell’r’n’b.

 

Pearlman mangia la foglia, intravede un mercato sterminato (“le boy band continueranno ad avere successo finché nasceranno ragazzine che le adoreranno”, spiega nelle sue memorie) e accorcia i tempi: misteriosamente i suoi dirigibili si sfracellano uno dopo l’altro nelle campagne americane  e le assicurazioni pagano i premi milionari con cui Lou finanzia il lancio della sua nuova avventura: la Trans Continental International, un brand che è tutto e niente, ovvero è linea aerea – che non sarà mai proprietaria di un singolo velivolo –, società immobiliare, management per future star della musica e soprattutto finanziaria a caccia di investitori, di quelli con troppi liquidi che gli scottano tra le mani, pronti a farsi convincere dalle entusiastiche promesse pronunciate dal rutilante venditore grasso, dietro il quale è impossibile non intravedere la sagoma dell’indimenticabile Jonah Hill di “The Wolf of Wall Street”, il socio fedelissimo di Leonardo DiCaprio.

 

Pearlman dunque passa all’azione: sposta la sede operativa dei suoi affari da New York a Orlando, in Florida, terra di frontiera dove ancora gli affari possono essere condotti con una diversa disinvoltura e poi, con una serie di annunci sulla stampa, arruola i membri della prima band della sua scuderia, battezzata Backstreet Boys. Quindi li spedisce a farsi le ossa in Germania, dove loro spopolano nel giro di pochi mesi, finché Lou non li richiama in America dove nessuno ancora sa chi siano. Pearlman fa le cose in grande: investe cifre a sei zeri per imporli sul mercato giovanile d’oltreoceano, li fa suonare dappertutto, organizza tour dei licei della provincia, trova gli slot di programmazione giusti nei programmi tv, si affida al principio del “fingi finché non ce la fai”, ovvero investi tanto, anche soldi che non hai, finché non raggiungi il risultato – tanto più dal momento che quei quattrini non escono dal suo portafogli ma da quelli degli investitori che annette alle sue imprese. Il giochetto funziona, alla grande: i Backstreet Boys sfondano e diventano una macchina di successi che produce introiti straordinari, dei quali Pearlman riconosce solo una porzione minima agli artisti. Ci sono le spese da recuperare, no? E le nuove produzioni da finanziare. D’altronde per i ragazzi del gruppo trasformare il sogno in realtà, ritrovarsi idoli di una generazione, almeno all’inizio, è una ricompensa sufficiente.

 

E poi c’è la gran vita che Pearlman gli fa vivere: voli privati, ristoranti e alberghi di lusso, schiere di fans urlanti che li invocano. E, ancora, un vortice di tournée internazionali, dischi d’oro, tv show e rotocalchi. Pearlman ormai si è impadronito della materia e mentre sente tintinnare il salvadanaio, mette in atto il suo principio successivo, quello secondo il quale “Dove c’è una Coca-Cola, arriverà una Pepsi”: ovvero, per anticipare la concorrenza, mette in piedi lui stesso la boy band che diventa la principale antagonista dei Backstreet Boys. Un altro casting e nascono gli ’NSync, quelli di Justin Timberlake, salutati subito da un successo formidabile, sebbene la ricetta sia sempre la stessa: canzoncine ballabili cinguettate romanticamente da bei fusti che ti fanno ballare ma soprattutto fantasticare. Tanto vale non farla lunga: di qui in poi nel corso dell’ultimo decennio del Novecento la factory dell’uomo che i suoi artisti apostrofano come “Big Poppa”, sforna un’impressionante galleria di hitmaker: LFO, C-Note, Take 5, il gruppo femminile Innosense in cui milita anche Britney Spears, gli O-Town, Jordan Knight e ancora la figlia di Hulk Hogan, Brooke e l’idolo dei ragazzini Aaron Carter. Chi adesso da un po’ ha passato la quarantina sa di cosa stiamo parlando.

  
Il successo è planetario, il giro d’affari impressionante, decine se non centinaia di milioni di dollari totalizzati dalla Trans Continental International, soltanto in piccolissima parte arrivati nelle tasche degli artisti. Il grosso lo governa Pearlman dalla sua base operativa di Orlando, che i media nel frattempo hanno ribattezzato nuova capitale planetaria del pop. Ma Lou continua a spendere fortune per sostenere i suoi protetti e per attribuire loro lo charme delle superstar: li coccola, ne viene venerato e si guadagna la reputazione di ultimo padrone del mercato musicale del millennio. Per di più i suoi giovanissimi artisti diventano anche il suo principale veicolo promozionale: per contratto, infatti, devono rendersi disponibili a cantare e ballare a un semplice cenno del boss, si tratti di una convention, di party privati, degli eventi deluxe che Pearlman accende in tutta America, in particolare nella provincia più danarosa, a caccia di libretti di assegni pronti a spalancarsi al suo cospetto. Investite nella Trans Continental: costruiremo quartieri, i nostri aerei solcheranno i cieli, le nostre popstar moltiplicheranno i vostri investimenti, nemmeno fossero pani e pesci. Naturalmente il gioco ha la miccia corta, come qualsiasi schema Ponzi, perché in sostanza solo di questo, ancora una volta, si tratta. Pearlman si fa dare i soldi, invita amici, facoltose conoscenze (perfino i familiari dei suoi dipendenti) a versare i risparmi nel fondo finanziario che governa – in pratica facendo atto di fede nella sua stessa figura di prestigiatore dei dollari. Usa i suoi virgulti del pop come specchietto per le allodole e foraggia instancabilmente un vorticoso giro di quattrini da cui defalca formidabili utili per se stesso, mai preoccupandosi minimamente di avviare un qualche business tangibile.

 

È il solito mistero, intinto di fatalismo, se non di nichilismo, che si scopre puntualmente alla base dell’attività dei grandi truffatori, sempre capaci di ideare nuovi sistemi di finanziamento veicolati nel vuoto, con la costante prerogativa di mantenere in vita il meccanismo solo accelerandolo: eppure è impossibile non prevedere – e Pearlman non è uno sprovveduto negli affari – che presto il castello di carte crollerà. Eppure si va vanti, perché la macchina non può più fermarsi, il transito dei capitali deve aumentare, fin quando il crescendo non deflagra nel caos. Capita anche a Lou: arriva il giorno i cui i suoi gruppi chiedono conto di tutti quei soldi che si vedono soltanto transitare davanti, mentre per loro non ci sono che gli spiccioli. Arruolano avvocati, che istruiscono cause. La voce si sparge e gli investitori cominciano ad agitarsi: si parla di un giro d’affari di circa 500 milioni di dollari che d’un tratto paiono volatilizzati. Il finale è il solito: la caduta, la fuga, l’arresto. Lou viene pescato in Indonesia, in compagnia di Michael Johnson, membro della boy band Natural, l’ultimo a essergli rimasto fedele (e proprio colui che produrrà questa miniserie “Dirty Pop”, dettandone il tono). Big Poppa, processato e condannato a 25 anni, finisce i suoi giorni dietro le sbarre, invocando comprensione, accanendosi a ripetere che le cose avrebbero funzionato se solo lo avessero lasciato fare, ricordando a tutti la gioia che ha diffuso nel mondo coi suoi gruppi e i loro show vitaminizzati. Ictus e infarti mettono fine alla sua parabola nel 2016, quando è già tempo di riguardare indietro alla scia di lustrini e fregature che segnano il suo passaggio, non solo nello show business, ma più in generale nel mondo degli affari americano e nelle regole che lo governano.


E così, a cose fatte, si scrive e si ragiona parecchio attorno alla figura di Lou Pearlman. Gli stessi membri delle boy band, che ormai non sono più per niente “boys”, ma quarantenni che tirano avanti, chi meglio chi peggio, nella scena musicale, sembrano divisi attorno alla figura del loro pigmalione: chi non ne vuole parlare, chi scuote la testa facendo capire d’essersi sentito brutalmente imbrogliato, ma la maggior parte disposta al perdono, del tipo “sì, ci ha rubato un sacco di soldi, ma ci ha fatto arrivare dove non avremmo mai sognato”. Evidentemente il parlare male di Big Poppa risveglia dei sensi di colpa. Poi esce questa serie Netflix e le polemiche si infittiscono: sulla stampa americana in particolare, in questi tempi post #MeToo, prende corpo una lettura dei fatti che porta in un’altra direzione e getta una luce ancora più buia sulla figura di Big Poppa. Quanto c’è di vero riguardo alle possibili molestie sessuali di cui Lou si sarebbe reso responsabile nei confronti di un numero imprecisato di giovanotti delle sue band? Eppure “Dirty Pop” gira alla larga dalla questione e la cosa non è piaciuta a molti critici d’oltreoceano. Sì, ci sono delle mezze parole, vaghi accenni, ma nessuna certezza e neanche mezza ammissione. E’ un caso di vergogna collettiva, venata di mitomania? L’impressione è che nei media Usa prevalga una gran voglia di gettare anche questa croce sul corpaccione goffo e sui modi appiccicosi di Pearlman, ma che gli elementi di prova e le ammissioni continuino a difettare. Agli autori di questa serie la cosa non viene perdonata e in effetti comunque la totale asessualità del suo racconto diventa una nota quasi surreale, dal momento che in questa vicenda soprattutto di ormoni impazziti, si parla. Triliardi di ormoni in circolo, a 120 battute al minuto. 


Un’altra osservazione di cui intanto “Dirty Pop” deve essere oggetto riguarda la nonchalance con cui la serie liquida il prodotto musicale di cui Pearlman era il principale responsabile: a risentirla continua a essere una musica piuttosto orribile, ipocrita e vuota, arrivata al momento giusto per disinnescare una parabola del pop che cominciava a dare segni di stanchezza, e a scricchiolare dal punto di vista dell’originalità. Il successo delle boy band ha drogato per almeno un quinquennio il mercato: solo Cobain ed Eminem avrebbero saputo menare delle spallate abbastanza forti da risvegliare la scena da questa narcolessia.


Infine una nota curiosa sulla realizzazione di “Dirty Pop”: ricorrendo alle grossolane magie dell’intelligenza artificiale, il narratore di questa vicenda è… proprio Lou Pearlman. In pratica gli autori sono riusciti in modo credibile a mettere in bocca a una sua immagine digitale, opportunamente antichizzata, le parole da lui scritte nella sua biografia. Insomma è il condannato a morte a raccontare cosa l’ha condotto sulla sedia elettrica. L’effetto è straniante, difficilmente sostenibile, a costo di venir bollati come passatisti. Ma anche se Big Poppa è morto e il suo schema Ponzi si è sbriciolato, evidentemente Netflix non pare intenzionato a concedergli di riposare in pace. A questo punto allora facciamo finta anche noi di essere un’intelligenza artificiale, a cui chiediamo la composizione di un canto aggiuntivo dell’Inferno, in cui tutti i creatori di uno schema Ponzi, da Madoff a Pearlman e magari anche Bochicchio, tanto per metterci un po’ d’Italia, finiscono in un campo arido, dove le loro vittime – condannate anch’esse, in quanto colpevoli d’aver ceduto all’avidità e alla fame di guadagni facili – non fanno altro che gridare loro, 24/7, “dove sono i miei soldi!?!”. E quando quelli non rispondono, giù un ceffone. Tutti insieme a bruciare in eterno, con l’aggravante che la colonna sonora, sparata giù da un cielo nero, a rotazione infinita, è il perenne strazio d’un album dei Backstreet Boys.