Facce dispari

La composizione, il podio e la lezione di due grandi. Chiacchierata con Marcello Panni 

Francesco Palmieri

Una vita nel labirinto della musica dall’avanguardia alla lirica, da Pergolesi a John Cage e Morton Feldman, dalla scrittura di una “Missa brevis” alle attuali “popsongs”

Un infaticabile daimon mercuriale ha sempre spinto il maestro Marcello Panni, romano, compositore e direttore d’orchestra, a non confinarsi in un genere ma a trascorrere dall’avanguardia alla lirica, da Pergolesi a John Cage e Morton Feldman, dalla scrittura di una “Missa brevis” alle attuali “popsongs”, cui ha dedicato un concerto il 30 agosto a San Gemini con un ensemble della storica Orchestra Roma Sinfonietta.
Cresciuto in una casa frequentata dalla grande musica – la madre Adriana presiedette l’Accademia filarmonica romana dal 1973 al 1993 – Marcello Panni ebbe Goffredo Petrassi per padrino e Igor Stravinskij come uno “zio” acquisito. S’addentrò nel contrappunto suonando il pianoforte a quattro mani con Nino Rota e fu direttore musicale all’Opera di Bonn e di Nizza. Il docufilm “Non le solite note”, che sarà trasmesso in anteprima su Rai 3 il 20 settembre, traccia una sintesi del suo pentagramma biografico.

 

Non ha mai esitato tra la musica e un’altra strada?

 

Mi appassionava l’arte in tutte le forme, ma prevalse il pianoforte. In casa c’era una collezione di libretti d’opera che mi divertivo a musicare, anche se mi piaceva leggere di tutto e poi avrei sviluppato un interesse quasi maniacale per la pittura antica e moderna. Mio padre mi avrebbe voluto architetto o ingegnere come lui, ma avevo deciso. Il primo pezzo per soprano e quartetto lo scrissi a 17 anni su testo di Giorgio Agamben, che era mio compagno di scuola al Convitto nazionale.

 

Quanto contò la guida di Petrassi?


Suonavo benissimo il piano e lui non volle che diventassi un “bambino prodigio”. Non fu solo un padrino ma un ispiratore di vita. Decimo figlio di una famiglia contadina, s’era fatto tutto da sé. Uomo di grande fede cattolica e modello di schiettezza morale.

 

E Stravinskij?


Una persona di famiglia. Mia mamma era riuscita a portarlo a Roma, dove allora la sua musica non era molto considerata perché veniva ricordato solo per i Balletti russi. Né era considerato Hindemith, personalità straordinaria che conobbi quando avevo vent’anni e seguii a Vienna. Morì poco dopo e gli dedicai il mio primo concerto per orchestra. All’epoca il pubblico romano era molto conservatore: già accettava con difficoltà Brahms, per non parlare di Bruckner o Mahler. A Santa Cecilia ho sentito fischiare persino Ravel.

 

Figuriamoci le avanguardie.


Da spirito ribelle, mi ci appassionai subito. Avevo studiato a Parigi con Manuel Rosenthal e il mio interesse andò di pari passo con quello per le avanguardie figurative. Però dentro di me si è sempre mossa una doppia anima, per cui guardavo a Boulez e Nono ma ero abbonato all’Opera e ne mandavo il repertorio a memoria. Non so se essere onnivoro sia un viatico per la felicità, anzi confesso un certo pessimismo, perché più cose acquisisci nella tua irrequietezza spirituale più è difficile trovare con chi condividerle.

 

E’ più agevole esibire un’etichetta sola?


Posso riassumere raccontando dei due Luciano importanti della mia vita: Berio e Pavarotti. Berio era tanto generoso quanto collerico, lavoravamo fianco a fianco e un giorno si stupì: “Come mai”, chiese, “io e te non abbiamo mai litigato?”. Diressi opere sue e lui eseguì i miei pezzi di musica aleatoria. Mi considerava il vero compositore d’avanguardia italiano e si seccò quando cominciai a dirigere la lirica quasi mi fossi “venduto” alla direzione d’orchestra. Intanto, proprio perché in Italia ero associato all’avanguardia, raccoglievo più soddisfazioni all’estero.

 

Però ha citato Pavarotti, che lei ha diretto un centinaio di volte.


In due opere che rappresentammo dappertutto, dal Metropolitan di New York a Vienna: “Rigoletto” e “L’elisir d’amore”, di cui mi definiva il migliore interprete perché nel ruolo di Nemorino lo seguivo meglio di tutti gli altri direttori.

 

Berio sbagliava?


La vita è un labirinto governato dalla dea bendata in cui s’intrecciano occasioni. Fu proprio in seguito all’esperienza al Metropolitan, dove feci tre produzioni con “L’Elisir”, “Lucia di Lammermoor” e “Rigoletto”, che mi si presentò la possibilità di comporre la prima opera lirica: “Hanjo” su testo di Yukio Mishima.

 

Come approdò a Pergolesi?


Con l’intento iniziale di un omaggio a Stravinskij recuperai la copia integrale del “Flaminio” all’abbazia di Montecassino ed ebbi la fortuna di trovare, alla guida del San Carlo, Francesco Canessa e Roberto De Simone. Un successo clamoroso. Poi di Pergolesi diressi “Adriano in Siria” a Firenze, per la prima volta con gli intermezzi comici di “Livietta e Tracollo’”, e a Jesi “Il prigionier superbo”. Infine in prima mondiale la revisione dell’oratorio “La morte di San Giuseppe”, capolavoro dal bellissimo testo barocco, e lo incisi con l’Orchestra Scarlatti nel 1990.

 

Cosa sono le “popsongs”?


Arie d’opera o canzoni classiche concepite per una orchestra ridotta a sette strumenti, ricalcando quel che fece Stravinskij in “Histoire du soldat”: violino, contrabbasso, clarinetto, fagotto, tromba, trombone e percussioni. Ho riscritto la parte del canto per questi strumenti. L’ultima popsong, presentata per la prima volta il 30 agosto, è “Vissi d’arte” dalla “Tosca” col fagotto nella parte del soprano. Potrebbe essere il sigillo della vita.

 

Perché, non sta più scrivendo?


Ma sì, sto ultimando un’operina molto divertente ed è mio anche il libretto. A volte ho il dubbio di essere stato dispersivo, di avere assecondato la casualità di alcune scelte, però a pensarci erano tutte occasioni meravigliose. Come sarebbe stato brutto dire di no.
 

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