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Quant'è difficile ricostruire la vita interiore di Mozart: l'ignoto

Stefano Picciano

Nonostante numerosi tentativi di biografi, nessuno è riuscito a definire con certezza l’essenza di Mozart, la cui figura resta sfuggente, come la sua musica. Una rassegna

Lo sguardo impenetrabile, d’una espressività difficilmente definibile, quasi immobile al confine tra malinconia e letizia che appare nel ritratto realizzato da Barbara Krafft, desta nell’osservatore una percezione ambigua, misteriosa, eppure affascinante. Nel sorriso incipiente si confonde un presentimento di inquietudine mentre l’intensità degli occhi pare stemperarsi in una appena accennata ironia. È un’identità inafferrabile che emerge dal ritratto di un uomo la cui personalità – nonostante innumerevoli tentativi di studiosi e biografi – sempre sfuggì a ogni possibilità certa di individuazione, descrizione, conquista. Proprio duecento anni fa Georg Nikolaus Nissen, il diplomatico danese che era divenuto secondo marito di Constanze Mozart, si accingeva a intraprendere il riordino delle carte con cui, dopo la comparsa di alcune scritti biografici più sintetici, intendeva strutturare la prima grande biografia del genio di Salisburgo. Aveva a disposizione la testimonianza inestimabile di Constanze, mentre dalla sorella del compositore – la quale, divenuta cieca, acconsentì di affidargliele – aveva ereditato centinaia di lettere autografe. Ma la Biographie di Nissen – scomparso egli nel 1826 – rimase come un grande monumento incompiuto e giunge a noi simile a una vasta raccolta di documenti atti a costituire le fondamenta di un edificio biografico che tuttavia non vide la luce. Vennero poi innumerevoli altri lavori, tra cui emergono quello di Otto Jahn (il filologo che, non contento di lavorare alla letteratura della classicità e a magistrali ricerche sulla ceramica greca, trovò il tempo per pubblicare la più celebre biografia mozartiana) e quello, disponibile anche in italiano, di Hermann Abert.
 

Eppure pare mancare, nonostante l’enorme mole di scritti, un’accertata immagine che di Mozart possa descrivere in modo esauriente la natura, la personalità, e i caratteri che si crede talora di individuarvi vengono sovente a scontrarsi con elementi opposti; vi è, nella figura di questo genio assoluto della musica, qualcosa che rimane misterioso, sfuggente, portandolo al di là di ogni possibile descrizione o allineamento in categorie psicologiche, rendendo vano ogni tentativo di delineare un ritratto dai lineamenti ben definiti. “Nessuno è mai venuto a capo del tentativo di riprodurre in maniera convincente l’estraneità di questa figura”, dichiarava Wolfgang Hildesheimer nel 1977, riconoscendo la necessità di esplicitare fin dall’inizio dei suoi scritti l’ammissione circa “ciò che è destinato a fallire: il tentativo di rendere accessibile la straordinaria grandezza dell’opera di un uomo, di giungere alla comprensione della sua peculiarità e unicità, di sondarne il mistero”. Lo studioso tedesco concludeva: “La figura ci si sottrae, celandosi dietro la sua musica”. Persino l’epistolario non fornisce alcun aiuto in questo senso, lasciando trasparire ben poco del mondo interiore di Mozart; colui che tanto apprezzava le feste in maschera e il carnevale sembra sovente volontariamente celare, dietro le sue stesse lettere, le profondità del suo animo. Non che vi si trovi ipocrisia, ma le righe scritte dal compositore sono in gran parte comunicazione pragmatica, assai lontana dall’idea di una manifestazione di sé, di confidenza o espressione di sentimenti: non è dunque nemmeno qui che la sua identità può essere individuata. Mozart – ricorda ancora Hildesheimer – “scrivendo entrava del tutto nella parte di quell’io che di volta in volta andava rappresentato. (…) Ma come era, questo non lo ricaviamo con sicurezza dalle sue parole”. Nessuna paragonabile difficoltà si riscontra nello studio di altri compositori, il cui carattere è solitamente delineabile almeno nei suoi connotati essenziali. Così è per Haydn, per Beethoven, per Schubert, per innumerevoli altri: di fronte a Mozart, invece, la matita del ritrattista sembra doversi fermare, interdetta, a qualche centimetro dal foglio bianco, più non sapendo da quale elemento partire. 
 

La questione permane irrisolta e si fa avanti una straordinaria analogia tra dimensione personale e ambito creativo: all’incolmabile lacuna che investe la personalità dell’uomo corrisponde, infatti, un’analoga impossibilità di afferrare il mistero della sua opera, di darvi un qualsiasi riferimento verbale, di individuarne, attraverso le parole, il carattere. L’ascoltatore deve arrestare i suoi passi di fronte a una musica che su questa ambiguità è fondata, non può spingersi oltre la soglia di una comprensione che altro non sarebbe se non riduzione di ciò che è assoluto a una propria, riduttiva misura. Vale a dire che mentre è possibile descrivere in modo sostanzialmente condivisibile la dimensione espressiva delle opere di Beethoven o di Schubert, mentre possiamo individuare un verosimile nesso tra elementi biografici e tratti creativi, lo studioso deve riconoscere che in Mozart per lo più non vi è questa possibilità, per via – come scrisse Massimo Mila – di “quel librarsi della sua musica in una magica superiorità rispetto alla sfera terrestre delle vicende umane”, di quella “assenza completa di confessione, di autobiografia”, di una creatività che “respinge ogni sussidio di chiose letterarie o psicologiche”. Quella di Mozart è una “musica d’espressività inafferrabile” e l’ascoltatore non fa in tempo a godere della percezione di una apollinea delicatezza che giunge inatteso un repentino fattore d’inquietudine, dopo il quale – subitanea – ritorna la più spensierata gaiezza. Come ancora ricorda Mila, infatti, “questa compresenza di tutta la gamma espressiva è la nota che trattiene Mozart al di qua del Romanticismo beethoveniano, che [invece] isola un singolo sentimento ed il suo opposto (…) e ne scava infaticabilmente le possibilità”.
 

Egli diviene, così, “l’araldo della ‘musica pura’, cioè inespressiva, spogliata d’ogni scoria autobiografica e umana”: “questa assenza di volontà espressiva (…) è il segreto della sua purezza”. Nulla vi è, nella musica di Mozart, di facilmente riferibile a elementi biografici; tutto rimane come al di là, in una dimensione espressiva assoluta. E’ ciò che condusse Otto Jahn ad affermare che Mozart “non compie nell’opera d’arte il processo di fermentazione della passione, ma dopo aver totalmente sottomesso ogni impurità e offuscamento, evoca la pura perfetta Bellezza”. Mozart diviene, così, il massimo rappresentante “della musica non espressiva, (…) la musica allo stato primigenio e ideale, innanzi che l’avvelenasse il sentimentalismo romantico”, come sottolinea Donald Jay Grout, che descrive lo stile di Mozart “legato a una musicalità assoluta” aggiungendo: “Gran parte della musica di Beethoven come pure quella di alcuni compositori romantici (…) è in certo senso autobiografica. La musica di Mozart lo è molto meno. È difficile trovare in essa alcuna precisa traccia di tutte le difficoltà e le delusioni che egli sopportò nella sua vita (…) ed è ancora più difficile trarre dalla musica delle conclusioni precise sul suo atteggiamento (…). Innegabilmente tutte queste influenze erano presenti nella musica di Mozart, ma sublimate e trasformate nella controllata bellezza classica”.
 

A tal punto parve illeggibile, intraducibile, insondabile il mistero della musica di Mozart che riscontriamo, nella prospettiva storica, la curiosa coesistenza di letture critiche sostanzialmente antitetiche: è ciò che avvenne tra il prevalere della concezione apollinea (destata dalla meraviglia per il candore, l’equilibrio, la sophrosyne descritta da Jahn) e, in evidente contrasto, l’inclinazione a evidenziare l’elemento dionisiaco, nello stupore per i tratti d’inquietudine preromantica che inaspettatamente irrompono qua e là nel catalogo mozartiano. Ne è un esempio lampante l’incipit della celebre Sinfonia in sol minore K550, ove l’ambiguità è tale da aver dato luogo a osservazioni opposte: mentre Schumann vi individuava il tono di una “aleggiante grazia greca” e Berlioz vi trovava “grazia, candore, ingenuità”, in tempi successivi si vide in queste pagine l’espressione più profonda di una confessione preromantica, inquieta, interiore, quasi sehnsucht mozartiana. “Questa è forse – scrive Mila – la più intima confessione che Mozart abbia mai fatto di sé: ma è, appunto, una confessione di Mozart, e non già di Beethoven (…). La disposizione interiore dell’artista non è quella a cui ci abituerà il Romanticismo, della espressione come scopo dichiarato dell’arte (…). Così accade che nella Sinfonia in sol minore lo sfondo possa essere di classica e inalterata bellezza (…) ma su di esso si vengono disponendo (…) quelle nubi di divina tristezza, quelle venature di malinconia inspiegabile che in Mozart si accompagnano inspiegabilmente alla vivacità e al sorriso” (e – sia detto per inciso – chi volesse trovare traccia di tali venature preromantiche potrebbe ascoltare la Sinfonia K183 – anch’essa, non a caso, in sol minore – o la Sonata per violino e pianoforte K526, per soffermarsi infine sulla acuta, misteriosa inquietudine che pervade le prime battute del Quartetto “delle dissonanze” K465).
 

Questa mancanza di individuabilità, questa sfuggevolezza che “viene talvolta scambiata per inespressività e carenza di valori umani”, diviene fattore ultimo e definitivo della figura del più grande compositore della storia della musica: “È l’essenza delle cose – scrive Mila – che vien toccata dall’arte di Mozart, (…) depurata dalle accidentalità contraddittorie della conoscenza empirica”. Una musica, aggiunge Walter Riezler, che “non ha certo nulla a che fare con gli ‘affetti’ umani, (…) sovrumana, ancor più d’altra musica inaccessibile alla parola”, che fa tornare alla mente l’espressione di Goethe, il quale – riferendosi in quel caso alla musica di Bach – offrì la suggestiva immagine per cui è “come se l’armonia eterna si intrattenesse con sé stessa, come se questa musica avesse albergato nel grembo di Dio poco prima della creazione”. Se tale carattere “assoluto” rimane in ultima analisi fattore proprio di ogni grande opera musicale, è evidente che trova, in Mozart, la sua più alta realizzazione: “Un’ambiguità curiosa e indefinibile” conduce ad affermare che la musica di Mozart, più di ogni altra, non ha contenuto. Semplicemente, è.
 

Lewis Lockwood, in un suo libro su Beethoven, ci racconta di un dialogo che avvenne, come si evince da un quaderno di conversazione, tra il compositore e il violinista Karl Holz che si recò a casa sua nel 1826: “Nei lavori strumentali di Mozart – scrisse Holz sul taccuino del maestro – non si trova una rappresentazione analoga a una condizione dello spirito, come accade invece con i vostri”. Non ci è rimasto – poiché egli rispondeva a voce – ciò che disse in proposito Beethoven, a cui subito dopo il giovane ospite aggiunse: “Spiegherei la differenza tra i lavori strumentali di Mozart e i vostri in questo modo: per uno dei vostri lavori si potrebbe scrivere un solo poema, mentre per uno di Mozart si potrebbe scriverne tre o quattro equivalenti”. Come si vorrebbe, oggi, sapere che cosa Beethoven abbia risposto a un tale quesito sul tema dell’assoluto in musica! Certo è che, quando a Beethoven vennero poste domande circa il significato di alcune sue opere, egli affermò: “A questo si può rispondere solo con il pianoforte”.
 

Resta un mistero, la musica di Mozart: quel mistero che fece piangere di commozione suo padre, quando ascoltò il Concerto per pianoforte K456, mentre l’imperatore Giuseppe II, presente in sala, infrangendo ogni norma del cerimoniale durante gli applausi si sporse dal palco gridando: “Bravo, Mozart!”; quel mistero che Beethoven lesse nel Concerto K466, dichiarandolo il suo preferito (“Noi non saremo mai capaci di fare qualcosa di simile!”); quello del Trio K498, che Mozart compose durante una partita a boccette, o del Quintetto K516, capolavoro che all’epoca, per il carattere troppo innovativo, non fu apprezzato; quello delle ultime tre Sinfonie, composte in poche settimane, che restano tra le più alte pagine di tutta la storia della musica.
 

In Mozart, scrive ancora Hildesheimer, “il nostro piacere consiste (…) nell’identificarci nell’autore, nel riprovare ciò che questi può o ‘deve’ aver provato durante l’atto creativo, e nello stesso tempo sappiamo che ciò resterà un mistero, né vorremmo diversamente”. Ed è significativo il fatto che, come inafferrabili sono per noi il suo animo e la sua musica, fosse destinata a sfuggirci persino la materialità del corpo di quest’uomo, scomparso a soli trentacinque anni e privato di una rintracciabile sepoltura, quasi egli dovesse subito entrare nell’immaterialità tanto non appartenesse a questo mondo; quasi fosse chiamato a uscire subitaneamente di scena senza lasciare traccia di sé, se non la musica. Quasi fosse stato solo un tramite attraverso cui è stato offerto all’umanità qualcosa di assoluto; enigmatico, sì, ma definitivo.

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